Toscana IGT: vini d’avanguardia o in cerca di identità?

La Masterclass Toscana IGT – evento organizzato da Doctor Wine, ovvero Daniele Cernilli, in collaborazione con il Consorzio Vino Toscana – è stata l’occasione per fare il punto su un distretto produttivo del vino toscano che muove numeri significativi. Ogni anno oltre 4.000 aziende toscane rivendicano l’appellazione Toscana IGT per un controvalore di circa 495 milioni di euro con una fortissima vocazione all’export (il 70% della produzione varca i confini nazionali).

Abbiamo partecipato alla manifestazione con il nostro solito spirito di cronisti curiosi, cercando di mettere da parte lo scetticismo che molti appassionati nutrono nei confronti di una denominazione così disomogenea e ampia in termini geografici e produttivi. Etichettati come Toscana IGT possiamo infatti trovare vini bianchi, rossi, frizzanti, da vendemmia tardiva e passiti…insomma un calderone così ampio di offerta che rischia di togliere identità e coerenza alla proposta enoica.

Il Consorzio Vino Toscana, di recente costituzione, non potendo dunque puntare su un’inesistente identità territoriale, ecco che si pone obiettivi molto più concreti:

  • difendere da contraffazioni e abusi di vario genere il maschio Toscana
  • promuovere e sostenere i suoi soci in attività di promozione in Italia e all’Estero

Abbiamo potuto assaggiare 24 vini, 6 bianchi e 18 rossi, il cui elenco riportiamo nella foto sottostante.

La curiosità che ci ha spinto ad assaggiare con attenzione i vini proposti è stata quella di indagare quanto Toscana IGT possa porsi come “denominazione di ricaduta” dei vini innovativi, sperimentali, non ortodossi rispetto alle storiche denominazioni toscane come Brunello di Montalcino, Chianti Classico, Nobile di Montepulciano, Vernaccia di San Gimignano… Anticipiamo che la qualità media degli assaggi è stata molto buona, soprattutto in termini di correttezza enologia, più chiaroscuri invece abbiamo trovato proprio sul fronte dell’emozione, della sperimentazione e della personalità. Insomma, per il momento di avanguardia e sperimentazione non ne abbiamo visti a sufficienza, ma il cammino del Consorzio è appena iniziato…

Come nostro costume condividiamo le note dei vini degustati limitandoci, in questo caso, ai soli assaggi più convincenti.

Toscana Rosso IGT 2021 – Vallepicciola: azienda sita a Castelnuovo Berardenga propone questo vino da uve sangiovese del vigneto Fontanelle, piante di oltre 40 anni poste a 450 metri sul livello del mare. Fermentazione in cemento e affinamento di 20 mesi in barrique (50% di legno nuovo). Il vino è godibilissimo nei suoi sentori di amarena, fiori rossi, terra e un tocco di spezie balsamiche, sorso potente ma la beva non ne risente, la freschezza alleggerisce e allunga il sorso ed il tannino cesellato accompagna il vino verso una chiusura pulita di ottima lunghezza.

Estatura Toscana Rosso IGT 2019 – Barone Pizzini Tenuta Ghiaccioforte: siamo nei poderi Ghiaccioforte, le vigne a conduzione biologica di Barone Pizzini in Maremma. Il vino che abbiamo nel calice è frutto di un riuscito blend di sangiovese (50%) e carignano nero (50%), fermentazione in acciaio e 12 mesi di barrique. Il vino è di un rosso rubino compatto, al naso frutta rossa, macchia mediterranea, balsamico, spezie e tostature (senza eccessi), insomma l’affinamento in legno si sente ma è gestito alla perfezione senza inopportune dolcezze, il sorso è caratterizzato da una certa morbidezza, i 15% di titolo alcolometrico sono però ben mitigati da tannino fitto e fuso, sapidità in filigrana e acidità rinfrescante.

Camboi Toscana Rosso IGT 2019 – Castello di Meleto: azienda storica di Gaiole in Chianti che non ha bisogno di presentazioni, presenta questo vino ottenuto da malvasia nera, che affina 18 mesi in botti da 25 hl. Colore rubino chiaro luminoso, si propone all’olfatto con fruttini rossi aciduli (ribes) ma anche arancia, un elegante tocco floreale e di ginepro. La bocca è dinamica, snella e succosa, precisa ed equilibrata, con l’acidità a fare da filo conduttore ed un tannino in secondo piano. Vino finto semplice di grande piacevolezza e bevibilità.

Il Blu Toscana Rosso IGT 2021 – Brancaia: nota azienda di Radda in Chianti che etichetta come Toscana IGT Il Blu, un blend di merlot (80%), sangiovese e cabernet sauvignon. Ogni singola varietà viene affinata separatamente in barrique (per due terzi nuove), per 18 mesi. In seguito, una volta assemblato, il blend finale matura in vasche di cemento non vetrificato per 3 mesi. Rosso rubino con riflessi bluastri, naso molto ampio di lampone, prugna, caffè, cassetto della nonna, spezie dolci…il sorso è una carezza, avvolge il cavo orale e lo accompagna senza soluzione di continuità in un finale in cui l’acidità fa capolino e sostiene la chiusura rintuzzandone il calore.

Campo all’Albero Toscana Rosso IGT 2020 – La Sala del Torriano: azienda nota anche per i suoi Chianti Classico, presenta in degustazione il Campo all’Albero, merlot (70%) e cabernet sauvignon (30%), 18 mesi di affinamento in barrique. Confettura di ciliegie, mirtillo, caffè, note balsamiche al naso, morbido in ingresso in bocca con un tannino fitto e saporito che fornisce grip e dinamica, la chiusura è sapida e lunga. Un vino che potrà evolvere e migliorare ancora.

Cabernet Franc di Vignamaggio Toscana Rosso IGT 2020 – Vignamaggio: ottenuto da piante di oltre 40 anni di cabernet franc site in Greve in Chianti, il vino fermenta in acciaio e affina 18-24 mesi in barrique. Colore rubino impenetrabile, all’olfatto è intenso nei richiami di ribes nero, cacao, prugna, caffè e una caratterizzante nota vegetale (peperone grigliato). L’acidità rende il sorso succoso, il tannino è ben presente ma affusolato. Bella progressione per una chiusura saporita e di personalità.

Diego Mutarelli
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Taste Alto Piemonte a Milano: i nostri assaggi

Taste Alto Piemonte è un format ideato dal Consorzio Tutela Nebbioli Alto Piemonte che quest’anno ha scelto Milano come vetrina e location d’eccezione e AIS Milano come partner organizzativo.

Il 16 settembre 2024 all’Hotel Westin Palace abbiamo avuto modo di assaggiare alcuni dei vini rappresentativi dell’intrigante territorio dell’Alto Piemonte, territorio variegato che copre ben 10 denominazioni: Boca DOC, Bramaterra DOC, Colline Novaresi DOC, Coste della Sesia DOC, Fara DOC, Gattinara DOCG, Ghemme DOCG, Lessona DOC, Sizzano DOC, Valli Ossolane DOC.

Come nostra consuetudine di seguito condividiamo i nostri migliori assaggi.

I grandi nomi non deludono

Gli storici grandi nomi dell’Alto Piemonte non deludono anche in queste “nuove” annate.

Partiamo da Antoniolo che, a Gattinara, sforna ormai da decenni una gamma di vini di altissimo livello, fedeli alla tradizione, potenti ed eleganti allo stesso tempo. In particolare, il Gattinara Riserva DOCG Osso San Grato 2019 (60-70 €) è una vino dalla classe cristallina, probabilmente il miglior assaggio dell’evento.

Spostiamoci a Lessona dove Tenute Sella sfodera un Lessona DOC 2019 (25 €) estroverso e gustoso, qui al nebbiolo si unisce la vespolina per un vino che risulta molto aperto al naso (sangue, note ferrose, ribes), aristocratico e compito al sorso, con un tannino fuso e cremoso.

A Boca si trova invece Le Piane, che presenta una gamma convincente a partire dall’ottimo Boca DOC 2018 (60 €) vino di grande complessità e stratificazione; ci ha però colpito ancor di più il Piane 2021 (30-40 €), etichettato come “semplice” Vino Rosso, 90% di croatina da vecchie vigne con, a completare l’uvaggio, nebbiolo e vespolina. Un vino di grande personalità e carattere, con frutto rosso e spezie, al sorso risulta di grande impatto, tannico e persistente. Una delle espressioni di croatina più convincenti mai assaggiate.

Le sorprese positive

Chiamarli outsider sarebbe sbagliato, ma è un fatto che di fianco ai grandi nomi dell’Alto Piemonte ormai da anni hanno acquisito un posto di rilievo altri produttori che anche in questo evento si sono ben distinti.

In Val d’Ossola Cantine Garrone da diversi anni sta proponendo vini sempre più convincenti e identitari. Meritevole inoltre la valorizzazione e conservazione del prünent, antico clone di nebbiolo adattatosi alla perfezione in questi luoghi. Ci è piaciuto moltissimo il Prünent Valli Ossolane Nebbiolo Superiore DOC 2021 (30 €) dal profilo slanciato, fresco e saporito, con sentori che vanno dal frutto rosso alle erbe di montagna, con richiami ferrosi e speziati. Ottimo anche il Prünent Diecibrente Valli Ossolane DOC Nebbiolo Superiore 2020 (40 €), da uve provenienti da un vero e proprio “grand cru”, un vigneto del 1920. Il vino ha grande fascino e un quid di potenza e profondità sapida in più rispetto al Prünent 2021.

Tenute Vercellino è una giovane azienda di Valdengo (BI) che cura poco più di 2 ettari di vigna. Ci è piaciuto il Coste della Sesia Rosso 2022 (25 €), un uvaggio di nebbiolo (50%), barbera, vespolina, croatina ed uva rara che unisce al frutto goloso un’intrigante mineralità.

Per chiudere in bellezza parliamo dell’Azienda Agricola Gilberto Boniperti e del suo buonissimo Fara DOC Bartön 2021 (25 €) che si presenta con un naso elegantissimo e floreale e poi spiazza con una bocca sferzante per freschezza e grip tannico, un vino di grande personalità.

In questo post ci siamo limitati a riportare gli assaggi che più ci hanno colpito, ma la quasi totalità dei vini assaggiati ci è parsa convincente, ci sembra insomma che l’Alto Piemonte goda ottima salute!

Diego Mutarelli
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Ruje 2013, il grande rosso di Zidarich

Chi segue con regolarità questa pagine sa che il Carso vi compare spesso. La maggior parte delle volte ci siamo concentrati sulla vitovska e sulla malvasia, i vitigni a bacca bianca che la fanno da padrone sia commercialmente sia dal punto di vista degli ettari vitati. Questa volta parliamo invece di un grande rosso del Carso, il Ruje 2013, messo a punto da Benjamin Zidarich.

Si tratta di un blend di merlot (80%) e terrano (20%), due vitigni per molti versi antitetici: internazionale e aristocratico il merlot, autoctono e fieramente rustico il terrano. Due vitigni che però – come dimostra il vino che abbiamo nel calice – se acclimatati in vigne vecchie e con il giusto affinamento trascorso in legni di varia dimensione ed in vetro, possono integrarsi con una splendida sinergia. E così la materia fruttata e morbida portata in dote dal merlot si fonde e assimila perfettamente l’acidità irruente terrano. Il risultato è quello di un vino originale e coinvolgente.

Il colore è rosso rubino dai riflessi bluastri. Al naso inizialmente si riconosce la frutta matura (prugna) e una bella floralità. Poi si susseguono caffè, cioccolato fondente, un tocco di cannella, pepe nero, quindi un balsamico che ricorda gli aghi di pino. A bicchiere fermo il quadro si schiarisce ed esce un’intrigante nota di anguria.

Sorso voluttuoso, morbido e di volume ma senza alcuna mollezza, l’acidità del terrano fornisce slancio e allungo e sostiene lo sviluppo, il tannino è magistralmente estratto e la chiusura è lunga su ritorni di frutta rossa, spezie e grafite.

Una grande vino rosso del Carso che potrebbe accompagnare degnamente uno spezzatino di cinghiale al cacao.

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Kevin Bouillet, giovane promessa di Pupillin

Sempre alla ricerca di novità vinose, anche in quei territori che come il Jura corrono il rischio di gentrificazione (ne abbiamo parlato anche in passato), abbiamo avuto modo di degustare il vino di un giovane vignaiolo di Pupillin di cui si inizia a parlare con sempre maggiore insistenza.

Si tratta di Kevin Bouillet che, dopo essersi fatto le ossa presso il domaine de la Tournelle, nel 2018 a Pupillin, non lontano da Arbois, lancia il proprio domaine. Attualmente Bouillet cura in prima persona 4 ettari di vigna (poulsard, trousseau, chardonnay, savagnin, pinot noir e melon queue rouge). L’azienda è in conversione biologica e di impostazione naturale (fermentazioni spontanee, nessun utilizzo di diserbanti né di prodotti di sintesi).

Arbois-Pupillin “Pépin Rouge” 2020 – Kevin Bouillet

Si tratta di un assemblaggio di poulsard (75%) e trousseau (25%), le uve provengono dalla stessa parcella denominata “La Marcette”

Colore ribes chiarissimo con riflessi d’arancio.

Naso pulito, calligrafico e ricamato di frutti rossi a più non posso (ribes rosso, fragole di bosco, melograno), dopo qualche secondo di riposo a bicchiere fermo una splendida nota floreale tra la camomilla e i fiori dolci del gelsomino, quindi un che di terroso/minerale che ricorda la sabbia. Poi ancora scorza d’arancia e spezie in formazione.

Sorso lieve, i 12% di titolo alcolometrico descrivono di un vino leggero e delicato che però, e qui i freddi numeri vanno abbandonati, non è per nulla debole. Il vino si sviluppa grazie ad un’acidità agrumata e rinfrescante, la beva è clamorosamente facile, e i ritorni in chiusura tra agrumi e fruttini rossi sono delicati ma persistenti.

Dissetante e goloso.

Diego Mutarelli
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La vitovska ha trovato un nuovo grande interprete: Radovič

Abbiamo parlato di vitovska con una certa frequenza in questi ultimi anni. Si tratta infatti del vitigno a bacca bianca più nobile del Carso e che, a nostro avviso, incarna al meglio una certa visione del vino bianco contemporaneo. I migliori interpreti riescono infatti ad ottenere vini bianchi minerali e freschi, poco alcolici e dalla grande beva, senza rinunciare a dinamica e stratificazione. Il tutto in un terroir non certo semplice, il Carso ha un clima siccitoso in estate e rigido in inverno, le vigne si trovano su pendenze notevoli e su un suolo fatto di roccia calcarea e poca terra, la bora soffia senza sosta…ma si sa, spesso il vino buono nasce dai contesti più sfidanti.

Da qualche tempo tra i migliori vignaioli del Carso, ovvero Zidarich, Vodopivec, Skerk, Kante, Skerlj…sì è affacciato il giovane Peter Radovič, dell’Azienda Agricola Radovič. Per maggiori informazione sull’azienda ti invitiamo a leggere quanto avevamo riportato in questo post dello scorso anno; dedichiamoci invece al vino ottenuto da vitovska, il Marmor.

Vino Bianco “Marmor” 2021– Radovič

Si tratta di un vino ottenuto da 100% vitovska, macerata 7 giorni in tini di pietra carsica, fermentazione spontanea, 12 mesi di affinamento in legno usato, 2 mesi in acciaio inox prima dell’imbottigliamento. Dell’annata 2021 sono state prodotte solo 1.022 bottiglie di Marmor.

Giallo paglierino con riflessi dorati il colore. L’olfatto è un fantastico ossimoro nordico-mediterraneo: macchia mediterranea e roccia, pesca bianca e pietra focaia, un tocco di scorza di agrumi. Sorso dalla trama fitta e saporita, il liquido è caratterizzato da alcolicità contenuta (12,5%) ma materia gustosa, si distende grazie ad un’acidità ben presente e ravvivante, dinamica e allungo sono quelli di un grande vino. Chiude su ritorni di agrumi e note salmastre.

Plus: vino profondo, fresco ed elegante, dalla beva trascinante che nasce dalla mano di un vignaiolo di talento che rispetta ed esalta l’espressione della vitovska del Carso.

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Due vini francesi per l’estate

Di recente abbiamo avuto l’occasione di visitare Temp Enoteca, un’apertura abbastanza recente (ottobre 2022) che va ad affollare l’ormai ricchissima proposta di enoteche con mescita a Milano. L’offerta è impostata prevalentemente sui vini naturali con una scelta notevole di prodotti italiani e, soprattutto, francesi.

Ecco cosa abbiamo assaggiato in una calda serata estiva.

Bourgogne Aligoté 2022 – Sylvain Pataille

La Borgogna bianca significa chardonnay naturalmente, ma l’aligoté è un vitigno che per la sua più semplice gestione in vigna (maturazione precoce e resistenza al gelo) resta, nelle annate meno favorevoli, un’àncora di salvezza per i viticoltori. La considerazione di vino comprimario, rispetto a sua maestà chardonnay, spesso ha purtroppo ottenuto il risultato di produrre vini poco interessanti, lineari e semplici, diluiti e dalle acidità poco aggraziate. Da qualche tempo non è più così e sempre più interpreti stanno dando le giuste attenzioni a questo vitigno ottenendo risultati più che decorosi. È il caso di Sylvain Pataille che a Marsannay da due diverse parcelle ottiene questo vino dal bel colore paglierino con luminosi riflessi dorati. Olfatto di grande ampiezza con pera acerba, floreale bianco, un tocco di mineralità sulfurea, zenzero. Il sorso è ampio e di buon volume, per nulla diluito anzi fitto di sapore, l’acidità ben presente compensa adeguatamente la materia che è sorprendentemente serrata e ricca. Dinamica e sale non mancano al vino che si distende bene nella chiusura, che risulta lunga su ritorni di sale e agrumi.

Il vino fermenta spontaneamente senza aggiunta di solforosa e affina in acciaio e barrique esauste prima della messa in commercio.

Vin de France “Le Ruisseau” 2023 – L’Anglore

Ci spostiamo nel sud della Francia poco a nord di Avignone, a Tavel, denominazione celebre dedicata ai vini rosati a base di grenache. Qui Eric Pfifferling, ex apicoltore riconvertito al vino, dà vita a L’Anglore, domaine ben conosciuto dagli amanti dei vini naturali. Il vino che abbiamo nel calice è ottenuto dal vitigno mourvèdre.

Rosso rubino chiaro appena velato, naso caleidoscopico di arancia rossa, fragole, scorza di agrumi, peonia, rosmarino, liquirizia, olive verdi… Sorso agile ma saporito, di grande freschezza e ottima dinamica, lo sviluppo è stratificato e si distende senza soluzione di continuità, tannino poco percepibile se non in chiusura che è saporita, lunga e su ritorni di frutta rossa e grafite.

Vino di grande originalità che si muove spontaneo e con grande libertà di espressione ma senza alcuna “sgrammaticatura”. Molto intrigante.

Diego Mutarelli
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Henri Chauvet, il predestinato d’Auvergne

L’attributo “predestinato” – usato spesso a con una certa generosità dai giornalisti sportivi – mi è sempre sembrato ingiusto, scorretto, persino immorale. L’utilizzo che se ne fa in ambito giornalistico-sportivo, ad esempio, fa passare il messaggio che sia sufficiente il DNA, il talento, l’indole innata di cui l’atleta non ha alcun merito, a far diventare campioni. Ma è veramente così? Se persino il più grande atleta di tutti i tempi, il nuotatore americano Michael Phelps, si considerava “non il più forte, ma il più allenato”…ecco che il far credere che il talento basti a ottenere successo, nella vita come nello sport, è una grande menzogna (oltre che perfetto alibi per chi non ce la fa).

Mi smentisco subito però definendo “predestinato” Henri Chauvet, un ex manager del mondo bancario e assicurativo, degustatore appassionato, che abbandona la sua professione e nel 2021 (quindi pochi anni fa!), compra un domaine con vecchie vigne a Boudes, in Auvergne (un territorio non certo da Champions League del vino, per restare in ambito sportivo), ed in pochi anni ottiene attenzione, passaparola, corsa all’accaparramento dei sui vini (e relativi riflessi speculativi sul prezzo delle sue bottiglie), endorsement da parte di altri celebri vigneron come Allemand, Chave, Ganevat… come qualificarlo se non predestinato?

Il domaine attualmente possiede 13 ettari di vigna (spesso molto vecchia) di gamay, pinot noir, syrah, cabernet franc et chardonnay. L’impostazione è biodinamica e naturale (la certificazione bio è in arrivo in quanto l’azienda è in riconversione), vinificazione senza lieviti selezionati, ovviamente nessuna filtrazione e solfiti solo se strettamente necessario in fase di imbottigliamento. I vini che ne derivano tuttavia, a differenza dell’impostazione così intransigente, sono un mix perfetto di precisione, pulizia, espressività e gourmandise. Compreso il vino di cui parliamo oggi:

Côtes d’Auvergne Boudes Gamay 2022 – Henri Chauvet

Colore rosso rubino chiaro trasparente e dai bei riflessi porpora.
Olfatto intrigante di ribes, peonia e viola, argilla e una elegante affumicatura.
Appena versato il vino in bocca pizzica per un flebile residuo di anidride carbonica (leggo poi che l’uva fa 15 giorni di fermentazione a grappolo intero in contenitori inox, prima di passare in legno), dopo pochi secondi comunque la CO2 sparisce e lascia il posto ad un sorso gustoso e dinamico, il frutto è ben presente senza alcuna mollezza però, anzi lo sviluppo è supportato da un’acidità rinfrescante ed un tannino appena percepibile, materia e alcol (12%) sono contenuti, l’esito è una beva semplice e gourmande. La chiusura è su ritorni aciduli di ribes, fiori rossi e un tocco ravvivante di pepe. Persistenza delicata ma più che significativa.
Ha retto benissimo un arrosto di faraona ripieno.

Plus: vino naturale di ottima fattura e grande espressività, un gamay che però tende all’eleganza del pinot nero senza rinunciare alla sua indole glouglou.

Diego Mutarelli
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15 sfumature di chenin blanc

Lo chenin blanc è proprio un vitigno eccezionale. Grazie alla sua versatilità può dar vita a vini di tutte le tipologie: spumanti, bianchi secchi, semi-dolci, passiti e muffati. Culla di questo vitigno è la Valle della Loira (dove è chiamato anche pineau de la Loire), anche se ha trovato una seconda patria in Sud Africa ed è ben presente anche in Australia e Sud America.

Le sue caratteristiche di longevità, mineralità e capacità di interpretare le diverse sfaccettature del terroir in cui è allevato, lo candidano in qualche modo ad essere la risposta francese al riesling tedesco.

In questo post raccontiamo di una splendida degustazione organizzata da appassionati bevitori che hanno messo mano alle loro cantine portando ciascuno una bottiglia di chenin. Ne è venuta fuori una panoramica molto interessante sul vitigno, con un bel mix di produttori storici, emergenti e vere e proprie star.

Prima Batteria – le annate recenti
Vin de France L’Esprit Libre 2020Thomas Batardière
Vin de France Les Guinechiens 2018 – Benoit Courault
Saumur Les Moulins 2020 – Domaine Guiberteau
Savennières Roche Aux Moines 2020Domaine Aux Moines

Batteria molto intrigante e giusta introduzione allo chenin. Vini piuttosto diversi che danno conto delle due correnti stilistiche e interpretative del vitigno. Da una parte i vini che cercano di esaltare le caratteristiche di acidità e mineralità tipiche del vitigno (Batardière e Guiberteau), dall’altra interpretazioni che vanno alla ricerca di maggior maturità e frutto (Courault e Domaine Aux Moines). Vince la batteria Domaine Guiberteau con un vino estremamente elegante, che miscela sapientemente rimandi agrumati, vegetali e di roccia per un sorso elegante e sapido.

Seconda Batteria – la maturità
Anjou Les Faraunières 2017Domaine Andrée
Vin de France Les Fouchardes 2018 – Ferme de la Sansonnière
Savennières Clos de la Coulaine 2002Château Pierre-Bise
Coteaux du Loir Vieilles Vignes Eparses 2015 – Domaine De Bellivière

Château Pierre-Bise non in formissima, probabilmente è iniziata la sua fase di declino a oltre 20 anni dalla vendemmia, mentre Ferme de la Sansonnière paga una ricchezza di frutto eccessiva con morbidezze gliceriche ben presenti anche al sorso. Molto buono l’Anjou di Domaine Andrée agrumato ed elegante, con le spezie a fare da contrappunto ed una bocca se vogliamo semplice ma succosa. La spunta l’ottimo vino di Domaine De Bellivière dal naso mutevole di propoli, miele, uva passa e sbuffi balsamici e un sorso ricco ma composto grazie ad una fantastica spalla acido-sapida.

Intermezzo sudafricano
Chenin Blanc Secateurs 2022Badenhorst Family

Vino semplice e ben fatto. Il naso è sulla frutta fresca (albicocca, pera), in bocca il vino risulta snello, di buona dinamica, sapido e di ottima lunghezza.

Terza Batteria – i pesi massimi
Saumur La Charpentrie 2014Domaine du Collier
Saumur Clos de l’Échelier 2014 – Domaine des Roches Neuves (Thierry Germain)
Savennières Fidès 2014Eric Morgat
Jasnières Calligramme 2011Domaine De Bellivière

La batteria se la giocano i vini di Domaine des Roches Neuves e di Eric Morgat. Il primo ha un olfatto delicato e fine di frutta bianca ed un tocco che ricorda la foglia di menta, ma è al sorso che ingrana con una materia strepitosa, mobile, fresca e succosa. Eric Morgat non è da meno, il naso è molto più aperto e sa di roccia e mare, sale e frutta gialla, bocca dalla materia fitta e chiusura lunghissima.

Quarta Batteria – le Superstar
Vin de France Les Noëls de Montbenault 2015 – Richard Leroy
Vin de France Les Nourrissons 2016 – Stéphane Bernaudeau

Eccoli qui i due vini che tutti aspettavamo, vini le cui quotazioni purtroppo rispecchiano l’enorme richiesta da parte degli appassionati di mezzo mondo. Due vini che fortunatamente non hanno deluso le aspettative. Il naso di Leroy è un ricamo tanto è fine: fiori, agrumi, fieno, una spolverata di zucchero a velo, mineralità…la bocca è di grandissima freschezza agrumata, succosa, profonda, lunghissimo in chiusura ma senza alcuna forzatura, senza eccessi muscolari, “potenza senza peso” direbbe qualcuno. Les Nourrissons è un altro vino eccellente, anch’esso su note eleganti di frutta bianca, menta, cetriolo, sedano con di contro un sorso intenso e fitto, saturante ma con grazia, dalla chiusura sapida lunghissima.

Quinta Batteria – chiusura in dolcezza
Montlouis sur Loire Les Grillonnières 2017 – François Chidaine
Montlouis sur Loire Les Lys 2009 – François Chidaine

La gara in famiglia tra i due vini di Chidaine è vinta da Les Lys grazie ad un naso accattivante di panettone, mango, frutto della passione, canditi, scorza d’arancia, con sorso semidolce perché equilibrato da un’acidità rinfrescante e da un tocco salino in chiusura molto elegante. Meno interessante Les Grillonnières più sulla frutta secca ma con un’alcol non così integrato tanto da pregiudicarne la beva.

Diego Mutarelli
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Pommard a confronto: lo stile può rappresentare il terroir?

Sabato di buon’ora mi sono avventurata in macchina per dirigermi a est, superando gli argini del Secchia per spostarmi in terra romagnola. Oltrepassando con sicurezza le pianure dove nascono le bollicine emiliane, ad un tratto l’orizzonte ha iniziato ad assumere un profilo più allegro e tondeggiante nei pressi di Imola. Il sole accarezzava i colli disegnati davanti a me, e mi sono chiesta se fosse il paesaggio a rendere così spontaneamente solari i romagnoli o se fosse invece il contrario. 

Destinazione Brisighella, un nome che è impossibile pronunciare senza sorridere, dove Roberto Frega dell’importazione Sartoria del Vino aveva organizzato un pranzo/degustazione a tema Pommard. Roberto, professore universitario a Parigi, ha abbracciato con passione il mondo del vino importando vini di nicchia dalla Francia, convincendo numerosi appassionati a seguirlo. Aveva organizzato una degustazione alla cieca ispirandosi ai Grands Jours de Bourgogne, la fiera dedicata ai vini di Borgogna, che si svolge in diverse giornate con location dislocate in base al villaggio di appartenenza dei produttori. Roberto ha quindi pensato di mettere a confronto diverse espressioni di Pommard, comune tra Beaune e Volnay, nella Côte de Beaune, famoso per i suoi rossi energici, strutturati e sorprendentemente longevi.

Nella prima batteria abbiamo assaggiato tutte 2021 nella categoria “village”.

  • Maxime Dubuet-Boillot, Les Deux Terroirs 2021: un vino dal colore concentrato nonostante l’annata classica, con sentori di propoli, rosmarino, paté di oliva, non lunghissimo, con una nota amaricante sul finale.
  • Vincent Dancer, Les Perrières 2021: produttore in forte ascesa, che declina i suoi vini attraverso uno stile più contemporaneo. Come insegna Armando Castagno, le vigne che portano nomi che evocano la pietrosità sono generalmente qualitative, e anche in questo caso si trattava della vigna di fronte agli Epenots, a valle attraversando la D973. Ho apprezzato i sentori delicati di fragolina e violetta, e una bocca rinfrescante e vivace.
  • Domaine Chantal Lescure, Les Vignots 2021: un vino proveniente dalla zona più fresca e ventosa del comune, lungo il cono di deiezione della Combe de l’Avant-Dheune. marcata l’impronta di legno, riconoscibile attraverso sfumature di liquirizia e vaniglia, che ritroviamo anche in bocca, oltre a una nota ematica forse dovuta a un’annata non troppo aggraziata.
  • Vin Noe, Rève Americain 2021: un vino decisamente pop, non solo nel nome e nell’etichetta. Era molto intenso al naso e non limpidissimo di colore, con sentori di piccoli frutti rossi molto freschi, probabilmente dovuti a una vinificazione a grappolo intero, assieme a una nota che mi ha ricordato la terracotta.

In seguito a una breve pausa in giardino a bere Chenin Blanc e Sorbara, abbiamo proseguito con i premier cru.

  • Domaine Clos de la Chapelle, Les Grands Epenots 2022: ho sempre difficoltà ad analizzare i vini non ancora “pronti”, tuttavia nonostante la giovane età di questa bottiglia il vino si è manifestato con intensi sentori floreali e con una totale assenza di note terrose, ma al contrario evocava solo freschezza e soavità. Non a caso, si tratta di una delle vigne più vocate del comune.
  • Clos du Moulin Aux Moines, Les Pézeroilles 2019: climat sopra gli Epenots, considerato un Pommard atipico perché solitamente slanciato e femminile. Si è presentato con una marcata espressione fruttata e vegetale (rabarbaro).  La bocca era molto più interessante del naso, e si sviluppava come un’onda, increspandosi all’entrata in una sensazione voluminosa, per poi svanire in piccantezza.
  • La Pousse d’Or, Les Jarolières 2019: climat posto a sud, a confine con Volnay. Inizialmente austero si è dimostrato comunque intrigante naso, con sentori di ginger e arancia. L’entrata in bocca è morbida, per poi svilupparsi in sapidità.
  • Joseph Voillot, Clos Micault 2019: climat peculiare per la sua posizione, essendo l’unico Premier Cru del comune situato a valle della D974 che attraversa la Cote d’Or. Apprezzo molto questo produttore, tuttavia si sa che ad assaggiare alla cieca si rimane a volte stupiti, altre perplessi.
  • Jean Luc Joillot, Les Petits Epenots 2019: vino abbastanza ferroso e più dolce in bocca, caratteristica probabilmente dovuta al legno.
  • Alain Jeanniard, Les Sausilles 2012: vigna situata a nord, a confine con il bellissimo Clos des Mouches di Beaune. Iniziamo a intravedere il fantastico potere d’invecchiamento dei vini di Pommard. Vino sapido, al naso assomiglia a Les Jarolières, che è sorprendentemente al lato opposto del comune. In bocca non ho percepito tannino ma solo sale, che riempie il sorso in un allungo leggermente addolcito.

Infine, fuori programma, abbiamo assaggiato Cassagne et Vitailles, Les Homs 2021, un 100% grenache della regione del Coteaux du Languedoc. Al naso è fruttato, (fragolina, lampone, pepe), in bocca dopo tutti quei pinot ho ritrovato una nota alcolica che però non predominava sulla freschezza e giovinezza, sue peculiarità principali.

Questa degustazione mi ha insegnato che lo stile del produttore è nettamente più evidente nel calice rispetto al luogo di provenienza, anche se quando si degusta la Borgogna, ci aspettiamo che emergano più le sfumature del territorio rispetto a qualsiasi altro aspetto, che sia l’uva, l’annata, o le tecniche di conduzione del vigneto e le pratiche in cantina. E se con la Borgogna possiamo comunque entrare in crisi per individuare una linea coerente che ci faccia risalire al luogo di provenienza, figuriamoci se possiamo fare delle congetture territoriali per i vini provenienti da zone più ampie o che ammettono diversi vitigni. Eppure, concentrarsi solo sullo stile del produttore può risultare limitante, anche se questo è ciò che più influenza il carattere del vino. Ragionare sulle bottiglie degustate alla cieca ci spinge inevitabilmente a considerare il luogo d’origine, sebbene molto spesso l’espressione del calice non corrisponderà a ciò che abbiamo studiato. Forse il motivo è l’importanza della comprensione della storia della comunità che rappresenta quel luogo.

Credo che si possa apprezzare la territorialità di un vino solo se si considera la cultura di chi lo custodisce. Senza la volontà di indagare le origini e le evoluzioni della storia in un territorio, si rischierebbe di considerare il vino come un semplice mezzo edonistico, o un esercizio di stile, cosa che anche io faccio volentieri a volte. Tuttavia, se l’intento è quello di testimoniare una cultura, è necessario spingersi oltre, rischiando, e arricchendo la nostra comprensione con interrogativi che spesso rimangono un mistero.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Chinon “La Croix Boissée” 2014 – Bernard Baudry

Su questi schermi, qualche anno fa, abbiamo già parlato di Bernard Baudry, uno dei domaine più interessanti che insistono sulla denominazione Chinon AOC, in Loira.

L’occasione per riparlarne ce la fornisce il vino che abbiamo ora nel bicchiere, un ottimo Chinon, 100% cabernet franc, vino che abbiamo acquistato ormai 7 anni fa in occasione di una visita in azienda. Il vino è ottenuto dalla vigna chiamata La Croix Boissé esposta in pieno sud su un terreno in prevalenza calcareo. Come esemplificato dalla foto sottostante, la vinificazione per parcelle del domaine cerca di esaltare le differenze delle vigne di provenienza dei singoli vini. Lo Chinon La Croix Boissée 2014 è stato ottenuto da una fermentazione spontanea di 20 giorni in cemento, per poi affinare in barrique per 2 anni, e quindi ancora in cemento per 9 mesi, prima di sostare in bottiglia fino alla messa in commercio.

i vini e i terroirs chez Bernard Baudry
Photo Credit: bernardbaudry.com
Chinon “La Croix Boissée” 2014 – Bernard Baudry

Chinon “La Croix Boissée” 2014 – Bernard Baudry

Rosso rubino luminoso e integro il colore. Olfatto di fruttini rossi e neri maturi (cassis, more, lamponi), fiori appassiti, tabacco, e poi ancora note fresche quasi agrumate che fanno pensare al kumquat, quindi sottobosco e spezie….

Ad un naso così mobile ed articolato segue un sorso energico, di buon volume e intensità, che però risulta succoso, dalla beva semplice grazie ad una freschezza “dissetante”. Il tannino si percepisce in fin di bocca, fitto e saporito. La chiusura, su ritorni di fruttini rossi, è elegantissima e lunga.

Plus: un vino ricco e potente, certo, ma goloso e fresco. Durerà ancora a lungo, ma perché attendere oltre?

Diego Mutarelli
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