Jérémy Bricka e quel vitigno dimenticato dell’Isère

Fino all’arrivo della fillossera l’Isère, dipartimento francese incuneato tra la Valle del Rodano e la Savoia, era un territorio in cui la vigna prosperava; nel XIX secolo risultavano registrati ben 33.000 ettari di vigna. I danni del malefico insetto – la fillossera appunto – portarono ad una drastica riduzione delle aree vitate in tutta Europa e alcune zone, le più impervie e climaticamente svantaggiate, non si rialzarono più dedicandosi a colture più redditizie. Questo è ciò che successe anche in Isére e ad alcuni suoi vitigni estinti o quasi.

Negli ultimi decenni però, in molte zone minori della Francia (e dell’Italia), la passione e la caparbietà di giovani vignaioli, alla ricerca di vigne al giusto prezzo e di climi freschi, hanno contribuito in modo decisivo a recuperare antiche varietà e a rilanciare le aspirazioni vitivinicole di interi terroirs.

Questa è anche la storia di Jérémy Bricka, che ho deciso di raccontarvi dopo aver degustato un suo vino sorprendente e anche perché ancora non ho trovato alcuna fonte web in lingua italiana che ne parla, e mi sembrava doveroso colmare questa lacuna!

Dopo anni di gavetta in Borgogna e Rodano (chez Guigal!) Jérémy, affascinato dai territori alpini, compra 5 ettari in Isère tra i 500 e i 700 metri di altitudine, a Mens (non lontano da Grenoble), e vi pianta verdesse, mondeuse blanche e noir, altesse, persan, douce noire e la pressoché sconosciuta étraire de l’Aduï. Certificazione bio e approccio enologico non interventista, oltre ad una sensibilità fuori dal comune in fase di vinificazione, hanno permesso al domaine di acquisire una buona notorietà in Francia nella nicchia dei vini naturali. Il vino di cui ti parlo oggi è proprio quello ottenuto dal vitigno étraire de l’Aduï.

Étraire de l’Aduï 2020 Pont de Brion IGP Isère – Jérémy Bricka

Il colore è un bellissimo rosso rubino chiaro, luminoso e trasparente. Il naso è un caleidoscopio di fruttini rossi (melograno e ribes), violetta, pepe, bergamotto, ferro e un particolare tocco che ricorda la salsa di soia…

Il sorso è soffice, beverino e leggero (12%), il tannino è cremoso e risolto, l’acidità è ben integrata e fornisce profondità e succo. Chiude delicato su ritorni di fruttini rossi e spezie.

Plus: vino che fa della spontaneità e facilità di beva la sua caratteristica principale, ma che sa coniugare originalità aromatica ed eleganza. Mi ha ricordato per stile e espressività alcuni dei migliori Morgon del Beaujolais.

Diego Mutarelli
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Faccia a Faccia: pinot nero / pinot noir

Come abbiamo già raccontato nella prima puntata del “Faccia a Faccia” dedicata al riesling, lo scopo della rubrica è quello di mettere in connessione e dialogo due vini in qualche modo confrontabili. L’idea di fondo non è quella di paragonare i due vini, quanto di trovarne nuove chiavi di lettura per comprenderli meglio. É quello che succede anche nelle relazioni personali: entrando in empatia con chi si ha di fronte, si finisce per conoscere meglio non solo l’altro ma anche sé stessi.

Dopo il riesling, oggi tocca ad un altro vitigno fluoriclasse, il pinot nero. Abbiamo degustato in parallelo un pinot nero italiano e un pinot noir di Borgogna.

Friuli Colli Orientali Pinot Nero 2018 – Le Due Terre

Dell’azienda Le Due Terre abbiamo già parlato in un post di qualche anno fa, si tratta di un’azienda artigiana dei Colli Orientali del Friuli che segue con scrupolo ed attenzione 5 ettari di vigna a Prepotto dando vita a ottimi vini tra cui i due uvaggi portabandiera Sacrisassi Bianco e Sacrisassi Rosso. Nel calice oggi abbiamo il pinot nero, vino ottenuto da cloni di pinot noir francesi e tedeschi, fermentazione spontanea e affinamento in barrique.

Il calice riflette un colore rubino chiaro con riflessi granati, in primo piano la frutta rossa e fresca come lampone, fragole e anguria, poi un floreale che ricorda la lavanda e quindi un tocco speziato di pepe e cardamomo. A bicchiere fermo dopo qualche minuto fa capolino un’intrigante sentore agrumato di scorza d’arancia. L’acidità ben presente dà al sorso una bella freschezza, lo sviluppo è piuttosto rapido ma profondo e pulito. La chiusura è saporita e lunga su ritorni di frutta rossa e agrumi.

Vino dall’olfatto intrigante e nel complesso di ottima beva, l’annata è stata piuttosto calda ma in questo vino i 14% di titolo alcolometrico sono gestiti alla perfezione. Al sorso ho notato solo un leggero deficit di polpa che dà a centro bocca una sensazione di asciuttezza appena troppo accentuata. Stiamo parlando comunque di un bellissimo vino ottenuto da un vitigno estremamente sfidante. Si contano sulle dita di una mano i pinot nero italiani di questo livello.

Ladoix Clos des Chagnots 2018 – Domaine d’Ardhuy

Abbiamo già assaggiato alcuni vini di questo produttore storico di Borgogna (vedi questo post, ad esempio) che possiede molte parcelle sia in Côte de Nuits sia in Côte de Beaune. Nel calice un monopole, ovvero una vigna di proprietà esclusiva del Domaine d’Ardhuy, il Clos des Chagnots.

Rosso rubino chiaro con vivaci riflessi porpora, olfatto di lamponi macerati, fiori rossi ed incenso. Ingresso in bocca succoso, di bella progressione con materia fruttata piuttosto concentrata a supportare sviluppo e persistenza. Legno ben amministrato per un vino che in chiusura resta sapido e vivace, di ottima lunghezza su ritorni di frutta dolce.

Vino semplice e ben fatto ma che, pur nella sua immediatezza, risulta molto equilibrato e di grande piacevolezza.

Riflessioni conclusive

Due vini ottenuti dalla medesima varietà e proposti al mercato nella stessa fascia di prezzo (30 € – 40 € euro a seconda delle fonti di acquisto) ma provenienti da due territori lontani. Come era lecito aspettarsi dunque – pur con alcuni punti di contatto – le due interpretazioni sono diverse. Il campione dei Colli Orientali è un vino dal naso più articolato e che al sorso non cerca immediatezza nè “piacioneria”, il campione di Borgogna è più immediato e diretto e gioca le sue carte sul frutto e la piacevolezza di beva.

In conclusione direi che il match tra Italia e Francia sul pinot noir finisce in parità, due espressioni diverse di pinot nero che si muovono però sul medesimo piano qualitativo.

Diego Mutarelli
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C’era una volta un castello dove abitava un conte

Tranquilli, non racconteremo una favola in preda ai fumi dell’alcool: vi parleremo di una storia (di resistenza) e di una piccola realtà, Torre degli Alberi, nell’Oltrepò Pavese, specializzata nella produzione esclusivamente di metodo classico a base pinot nero.

L’azienda, condotta da Camillo Dal Verme insieme al figlio Filippo, 3,5 ettari di pinot nero in regime biologico si trova a Ruino, a 500 metri di altitudine; i vigneti sono i più alti dell’Oltrepò Pavese, ragione per cui, come detto, si è scelto di utilizzare le uve di pinot nero per spumanti con seconda rifermentazione in bottiglia.

Una simile altitudine inoltre fa sì che l’azienda sia l’ultima ad iniziare la vendemmia (solitamente due settimane dopo le aziende di prima collina) e che opti per la pratica della fermentazione malolattica, assolutamente atipica in Oltrepò Pavese, dove il problema è soprattutto mantenerla, l’acidità.

Abbiamo degustato, delle cinque etichette aziendali, il Torre degli Alberi Metodo Classico Brut, millesimo 2017, sboccatura giugno 2022, più di quattro anni sui lieviti, fermentazione solo in acciaio e, appunto malolattica svolta. Al naso la fanno da padrone classiche note di fragoline di bosco, crema pasticciera, pan brioche ma anche mentuccia e scorza di limone; al sorso troviamo cremosità e avvolgenza, ma anche una freschezza non scontata. Comprato all’evento FIVI dell’Oltrepò Pavese del 6 Maggio 2023 a € 17 si aggiudica a mani basse il titolo di vino “dall’ottimo rapporto qualità prezzo”.

Ma torniamo al titolo, perché, se non avete già smesso di leggere, vi starete chiedendo il nesso: la sede aziendale è proprio in un castello e i titolari sono proprio … dei nobili, i Conti Dal Verme. La famiglia è molto nota in provincia da oltre ottanta anni in quanto il padre di Camillo, Luchino, chiamato il conte Partigiano, si distinse per efficaci azioni di Resistenza a capo della Brigata “Antonio Gramsci” nella zona di Casteggio e poi di Milano; al termine del conflitto decise di restare al castello di Ruino, una delle sue residenze, senza entrare in politica. Sino all’età di 103 anni, non smise mai di farsi testimone della Resistenza e paladino della libertà; a chi gli chiedeva come fosse riuscito lui, nobile e cattolico, a virare verso una apparente direzione opposta rispondeva: “non ho mai saputo quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per tutti noi, per la libertà di ciascuno di noi”.

Luchino e il suo castello (Photocredit: Effigie Edizioni)

Brindiamo quindi a Luchino e tutti gli eroi e le eroine della Resistenza, oggi e non certo solo il 25 Aprile.

Alessandra Gianelli
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Champagne Special Club BdB extra brut Chouilly grand cru 2014 – Vazart Coquart

Siamo nel nord della Côte des Blancs, terra di chardonnay per eccellenza, più verticali e dritti che i comuni più blasonati di Mesnil e Avize, poco più a sud; qui si trova la piccola maison Vazart Coquart giunti ora alla terza generazione, prodotti dall’eccellente rapporto qualità prezzo.

Questo Special Club BdB è il fiore all’occhiello della gamma, da un vigneto di 11 ettari a Chouilly con età media delle viti di 45 anni, esce solo nelle migliori annate, colore oro carico (la veste ricorda più Avize, contraddicendo a quanto detto prima), naso con sbuffi di cedro, scorza di limone, delicata panificazione e zenzero, la bocca è piuttosto ampia, di bella materia, bolla finissima e carezzevole, acidità corretta senza eccessi.

L’ho abbinato a degli splendidi Nigiri di Aji (take away Giapponese di culto per i milanesi), mariage parfait soprattutto con il Nigiri di capesante e scorza di limone.

Gregorio Mulazzani
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Saladini Pilastri: un pezzo di storia del territorio Piceno

Recentemente ho avuto il piacere di visitare l’Azienda Agricola Saladini Pilastri a Spinetoli, un piccolo paese della provincia di Ascoli Piceno, invitato gentilmente e guidato in maniera egregia dall’enologo Fabio Felicioni.
L’esperto winemaker ha esordito narrandomi la storia e le origini dei Conti Saladini Pilastri, una nobile famiglia ascolana che vanta più di mille anni di storia.

La fervente attività vitivinicola ha sempre contraddistinto la nobile famiglia con la nascita circa tre secoli fa dell’azienda agricola dei Conti Saladini Pilastri. Il  vino che si produceva veniva ceduto dai mezzadri ai Conti perché lo invecchiassero nelle botti di rovere di proprietà. L’attuale cantina fu costruita accanto alla vecchia in modo da accentrare tutta la produzione.

Dagli anni settanta, mi spiegava l’enologo, furono impiantati i nuovi vigneti che ho avuto la fortuna di visitare in loco testando anche la tipologia di terreno.

Poi successivamente vennero effettuati investimenti per migliorare le diverse fasi della lavorazione e produzione portando avanti l’idea di una coltivazione biologica di tutte le vigne attraverso l’utilizzo di prodotti naturali come zolfo e rame o con insetti utili. La scelta in vigna è stata quella delle basse rese per ottenere una qualità elevata del prodotto finale.

Di ritorno dalle vigne ci siamo addentrati all’interno della cantina dove antiche botti in cemento ancora in uso fanno compagnia a una bottaia con in bella mostra le barrique e le botti più grandi.

All’interno di una struttura adiacente alla cantina ho potuto degustare in compagnia del Sig.Felicioni alcuni dei vini aziendali, ovvero, l’Offida Passerina docg “Roccolo” 2022, l’Offida Pecorino docg “Comes” 2022 e il Rosso Piceno Superiore doc “Piediprato” 2020.

Passerina Offida docg “Roccolo” 2022. Esprime un colore giallo paglierino di grande luminosità e un elegante bouquet floreale e fruttato che richiama il territorio. Il finale leggermente sapido dona un’eleganza e una struttura al di fuori della norma.

Pecorino Offida docg “Comes” 2022. Un vino territoriale dai sentori tipici di erbe aromatiche come rosmarino e salvia impreziosito da un tocco di anice. Il frutto tropicale risulta evidente con un finale lungo e contraddistinto da una buona sapidità e mineralità. Ne risulta un vino molto equilibrato con tenore alcolico ben bilanciato dalla spalla acida e dalla sapidità.

Rosso Piceno Superiore doc “Piediprato” 2020. Un rosso dal colore brillante sintomo di un ottimo stato di salute del vino. Sentori di frutti a bacca rossa con un accenno speziato ed eleganti sentori terziari con in evidenza una ricercata nota di grafite (matita temperata). Un tannino giovane ma non troppo ruvido rende il vino molto accattivante e solo il tempo lo renderà meno esuberante e astringente lasciando spazio ad un versione ancora più raffinata, con un gusto più morbido e levigato.

La storia e un tocco di modernità fanno dell’azienda Agricola Saladini Pilastri un pilastro del territorio Piceno.

Walter Gaetani

Smaragd Riesling trocken Loibner 2019 – Weingut Knoll

Siamo senza dubbio in una della zone vinicole più belle del mondo, la Wachau, in Austria sulle rive del Danubio a ovest di Vienna, patrimonio Unesco. Qui vengono prodotti alcuni tra i più grandi bianchi a base riesling e grüner veltliner.

In questo splendido scenario ha sede la famiglia Knoll che, oltre a occuparsi della vigna, possiede anche il bellissimo ristorante Loibnerhof, sulle rive del fiume, andateci in estate e mangiate all’aperto in mezzo al meleto, indimenticabile!

I vini con la dicitura Smaragd sono un po’ i “gran cru” della zona, questo Riesling 2019 (etichetta splendida con raffigurato, come per tutte le bottiglie aziendali, Sant’Urbano patrono dei vignaioli) è ancora giovanissimo ma già splendido al naso con note freschissime di ananas, albicocca, roccia, mineralità bianca, lievi idrocarburi (lo zafferano uscirà tra qualche tempo), bocca di stupenda materia e “acida rotondità”… lasciatelo riposare ancora almeno un lustro un cantina.

L’ho abbinato nel corso di un’ottima cena triestina (Ristorante Menarosti, per chi passasse da quelle parti, locale storico in centro, consigliatissimo) ad un piatto di capesante e canestrelli al forno e ad una magnifica granseola, prosit!

Gregorio Mulazzani
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Due Arbois contro la gentrificazione dei vini del Jura

Il termine gentrificazione sta ad indicare la trasformazione di un quartiere popolare di una grande città in una zona abitativa di pregio e di moda. Il processo da una parte riqualifica la zona, e ha dunque connotazioni positive, dall’altra porta con sé anche delle conseguenze negative in quanto stravolge la composizione sociale del quartiere a causa dell’aumento repentino dei prezzi delle abitazioni.

La gentrificazione è purtroppo all’opera anche nel mondo del vino. Alcuni territori, fino a pochi anni fa poco considerati dal mercato, hanno subito in pochi lustri una “riscoperta” che ha portato i vini di queste regioni ad affrontare irragionevoli aumenti di prezzi. E così, l’appassionato che prima apprezzava questi vini ancora lontani dalle luci della ribalta, ora rischia di non poterseli più permettere. Il Jura sta senz’altro vivendo un processo di questo tipo. Fino ai primi anni del nuovo millennio i vini del Jura sono rimasti nell’ombra per moltissimi consumatori, lontani com’erano da quello che chiedeva il mercato in quella fase, ovvero vini rotondi, rassicuranti, enologicamente irreprensibili. Ad un certo punto i grandi buyer hanno invece iniziato a ricercare e proporre vini identitari, originali, spontanei, riconoscibili. La richiesta di quei vini – che prima in pochi volevano e cercavano – è schizzata alle stelle e di conseguenza, seguendo l’inesorabile legge di domanda e offerta, sono schizzate alle stelle anche le quotazioni. In Jura questo processo è in atto da qualche anno e alcuni produttori sono diventati improvvisamente oggetto di collezionismo e speculazione…qualche nome? Domaine Renaud Bruyère et Adeline Houillon, domaine Pierre Overnoy, domaine des Miroirs, domaine Ganevat, domaine Labet…

E’ bene precisare che tale dinamica non è “spinta” dai produttori, ma “tirata” dal mercato. Per non arrenderci a questo ineluttabile processo, negli ultimi giorni abbiamo assaggiato alcuni vini giurassiani lontani da riflettori e dunque ancora accessibili. Oggi ti parliamo di due dei vini che ci hanno colpito maggiormente, due Savagnin di Arbois.

Arbois Savagnin ouillé 2019 – Domaine de La Pinte

Il domaine de La Pinte si trova ad Arbois e dispone di 34 ettari di vigne la metà delle quali dedicate al savagnin (non mancano, in ordine decrescente di ettari vitati poulsard, chardonnay, trousseau e pinot noir). L’azienda opera in regime biologico ed è attualmente in conversione biodinamica. Il vino che ci troviamo nel bicchiere è 100% savagnin ouillé, quindi vinificato con le botti colme senza ricercare i sentori ossidativi tipici dei vini cosiddetti “typé” (vinificati in botti scolme) e del vin jaune. Frutta bianca, fiori di campo, nocciole, cerfoglio, a bicchiere fermo un ricordo di frutta esotica…sorso energico, potente e guizzante, un’acidità con i superpoteri tiene a bada i 15% di titolo alcolometrico. Persistenza infinita.

Arbois Savagnin ouillé “En Guille Bouton” 2021 – Domaine Grand

Il domaine Grand si prende cura di 11 ettari in regime biologico. Anche in questo caso stiamo degustando un savagnin ouillé. Il primo naso è prepotentemente minerale (calcare, roccia), poi si susseguono sentori delicati ed eleganti di frutta bianca, nocciole fresche, spezie in formazione. Sorso di grande dinamica, il vino risulta fresco e stratificato, per nulla rapido nello sviluppo, ma anzi articolato e profondo. Chiusura lunga e salatissima.

Diego Mutarelli
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Champagne Unisson Franck Bonville e sashimi

La Maison Franck Bonville si trova ad Avize in Côte des Blancs. Abbiamo bevuto lo Champagne Unisson Grand Cru Blanc de Blancs che nasce da un blend di Avize, Oger e Mesnil, quindi siamo nell’Olimpo dello chardonnay. Si tratta di uno splendido assemblaggio di annate 2016 e 2017 con sboccatura 2022 e dosaggio “finalmente normale”, ovvero 6,5 grammi/litro circa, un vino gourmand da bere anche a tutto pasto volendo.

Si presenta con un bel colore oro carico, naso fine di burro di Normandia, zest di agrumi e pan brioche, bolla estremamente fine, sorso elegante ed acidità mai fuori scala a pulire, prezzo davvero molto corretto (come peraltro tutta la gamma di questa piccola maison gestita oggi dalla quarta generazione rappresentata da Olivier Bonville).

L’abbinamento è risultato perfetto con un chirashi di sashimi misto del grande Maestro Haruo Ichikawa dell’omonimo ristorante milanese.

Gregorio Mulazzani
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Beaujolais “Madame Placard” 2019 – Yvon Métras

Abbiamo già parlato più volte di Beaujolais su queste pagine. Lo rifacciamo oggi dopo l’assaggio di un vino che ci ha molto colpito. Si tratta del Beaujolais Villages di un produttore artigiano fondamentale per la zona: parliamo di Yvon Métras che per primo seguì, negli anni ’80, il manipolo di produttori naturali innovatori – Jean Foillard, Marcel Lapierre, Jean-Paul Thévenet e Guy Breton – che si dedicarono a produrre vini di qualità in un territorio allora dedito prevalentemente ai vini novelli a base gamay (il celeberrimo beaujolais nouveau). Per un sintetico approfondimento sulla regione leggi questo nostro post.

Métras segue i suoi 5 ettari di vigna dando vita a poche e contese bottiglie di Beaujolais Villages e Beaujolais Cru (Moulin à Vent e Fleurie). Abbiamo assaggiato il vino che non ricade in alcun cru e che è chiamato “Madame Placard”, annata 2019. Si tratta di un vino vinificato in cemento con macerazione semi-carbonica a grappolo intero, senza solfiti aggiunti.

Beaujolais “Madame Placard” 2019 – Yvon Métras

Colore rubino chiaro con riflessi porpora, la velatura rende la veste ancor più accattivante.

L’olfatto, dopo una iniziale e brevissima riduzione, si apre su una macedonia di fragole, ribes e lamponi, poi una nota floreale molto fine (violetta) e quindi, da ultimo, un’intrigante arancia sanguinella.

Il sorso è fantastico per dinamicità, freschezza e scorrevolezza, il vino non è per nulla banale però, anzi l’acidità solletica il palato ed accompagna un tannino a grana finissima appena accennato. La chiusura è sapida e di buona lunghezza su ritorni di ribes e arancia.

Ha retto bene l’abbinamento con un arrosto di pollo ma, potendo, provatelo con un bel pollo ruspante alla diavola!

Diego Mutarelli
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Vinitaly 2023: le nostre nomination

Per quanto ci si possa sforzare di organizzare in modo sistematico la visita al Vinitaly, l’evento è così mastodontico che rischia di travolgere anche il più compassato dei degustatori. Tirare quindi le somme di una fiera di questo tipo è presuntuoso e persino inutile, gli assaggi sono molti e proprio per questo non sufficientemente “ragionati” per essere affidabili.

Non potevamo però esimerci, come da nostro costume, dal condividere almeno le nostre impressioni a caldo con lo scherzoso espediente delle nomination, ovvero dei vini o delle aziende che – per ogni tipologia – ci hanno colpito di più.

La gamma di alto livello più completa: questa nomination la vince l’azienda Valle Reale, che presenta al Vinitaly una gamma di vini tutta di altissimo livello. Assaggiamo i loro vini alla borgognona, ovvero a partire dai rossi per arrivare solo da ultimo ai bianchi. Convincenti i tre Montepulciano d’Abruzzo (il 2021, il Vigneto Sant’Eusanio 2020 e il Vigna del Convento 2018) caratterizzati da materia e freschezza in grande equilibrio; magnifici i rosé, dall’immediato e beverino Cerasuolo d’Abruzzo 2022 all’anteprima del Cerasuolo d’Abruzzo Vigneto Sant’Eusanio 2022 che si propone fin da ora al vertice italiano della tipologia; i Trebbiano d’Abruzzo non sono da meno a partire dall’ottimo base 2022 per salire in qualità e finezza con il Vigneto di Popoli 2020 e soprattutto con il sontuoso Vigna del Convento di Capestrano 2019.

Campania Felix: tre vini campani ci hanno colpito particolarmente, le aziende sono ben note ma quest’anno hanno presentato tre campioni di altissimo livello. Parliamo del Fiano di Avellino Riserva Vigna della Congregazione 2021 – Villa Diamante dall’impostazione nordica, fresca, serrata e di grandissima prospettiva; del Taurasi Riserva Quindicianni 2005 – Perillo dalla materia sontuosa e dall’incedere aristocratico; infine, in cima ad un ipotetico podio campano, lo straordinario Fiano d’Avellino Riserva Tognano 2020 – Rocca del Principe che vogliamo assaggiare con più calma per raccontarlo nel dettaglio in un prossimo post.

Eroe dei due mondi: Vigna Lenuzza, azienda friulana di Prepotto (UD), fa due vendemmie l’anno e per questo vince la nomination “Eroe dei due mondi”. Ebbene sì, vendemmia e vinifica nei Colli Orientali del Friuli ribolla, friulano e schioppettino e, in febbraio/marzo, vendemmia e vinifica degli appezzamenti nell’emisfero australe, in Sudafrica, precisamente in Hemel-en-Aarde Valley. Abbiamo assaggiato l’interessantissimo Pinot Noir 2020 – Lenuzza Vineyard, un pinot nero aggraziato e calligrafico nella sua precisa compostezza.

Saranno famosi: questa nomination è dedicata al vino di un produttore non certo sconosciuto, tant’è vero che ne avevamo già parlato anni fa in altro post, ma che senz’altro meriterebbe maggiore ribalta. Stiamo parlando di Alberto Giacobbe e del suo sorprendente Cesanese del Piglio Superiore Riserva Lepanto 2019 dall’entusiasmante verve agrumata e speziata.

Nord Piemonte: il Gattinara Riserva Osso San Grato 2018 di Antoniolo si conferma al vertice della zona, in questo millesimo il vino è feroce e tannico al sorso e articolato al naso, tra fruttini rossi, ruggine, sangue. Da attendere con fiducia, sembra una grande riuscita.

Sangiovese “di montagna”: strepitoso il Brunello che viene dalla più alta vigna di Montalcino (621 m slm), parliamo del Brunello Passo del Lume Spento 2018 che svetta nella gamma, tutta di altissimo livello, dell’azienda Le Ragnaie.

Chiavennasca: tra gli assaggi valtellinesi a base di nebbiolo (pardon, chiavennasca) si staglia il riuscitissimo Sassella Riserva Rocce Rosse 2016 di ArPePe, complesso e signorile, eppure piacevolissimo alla beva fin da ora.

Questi sono solo i vini che ci hanno colpito di più, ma per ragioni di spazio non abbiamo potuto dar conto di altre ottime bottiglie. Quali i tuoi migliori assaggi? Scrivicelo nei commenti!

Diego Mutarelli
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