Tre vitigni e una pergola: 33/33/33 biodinamico campano da scoprire!

Oggi parliamo di un vino bianco decisamente originale, si tratta del 33/33/33, Campania IGT Bianco 2017 di Vallisassoli.

33/33/33 è un vino ottenuto da un unico vigneto di un ettaro allevato con il sistema di pergola avellinese, in cui convivono tre vitigni che in parti uguali – come suggerisce il nome del vino – confluiscono nel prodotto finale.

La scelta più spontanea è stata quella di vinificare insieme le tre varietà a bacca bianca simbolo della Campania, o meglio dell’avellinese: fiano, greco e coda di volpe.

Ci troviamo in Valle Caudina, in provincia di Avellino ma al confine con la provincia di Benevento, ed è qui che Paolo Clemente dedica tutte le sue energie a quella singola pergola di un ettaro piantata dal padre. L’azienda segue i dettami della biodinamica (certificazione Demeter). La fermentazione è spontanea, vinificazione in serbatoi di acciaio inox, nessuna chiarifica ma affinamento sulle fecce fini piuttosto prolungato. Poco più di 2.000 le bottiglie prodotte.

Il colore è un bel giallo oro antico. Il naso è molto intrigante, si susseguono macchia mediterranea, nocciola, castagna affumicata, nespola, il tutto accompagnato sullo sfondo da sentori marini di alghe/battigia.

In bocca il vino si muove agile, delicato, ma di grande personalità, i 13% di titolo alcolometrico sono perfettamente gestiti grazie ad una materia ricca ed equilibrata, in cui il lavorio delle fecce fini gioca un ruolo importante donando slancio e spessore al sorso. In chiusura la sapidità è molto netta (è il greco che gioca la sua parte) e i ritorni sono di frutta, roccia e mare.

Abbinamento territoriale azzeccato con una pasta, patate e provola affumicata.

Diego Mutarelli
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La potenza è nulla senza controllo: Cavariola 2015

Quando nel 1994 l’agenzia di comunicazione Young&Rubicam coniò lo slogan pubblicitario “La potenza è nulla senza controllo” non credo proprio immaginasse il successo di questo motto, diventato vero e proprio modo di dire.

Ho ripensato a quegli anni e mi è venuta in mente l’immagine, a suo modo innovativa e provocatoria, di Carl Lewis ai blocchetti di partenza sui tacchi a spillo, mentre degustavo l’Oltrepò Pavese Rosso Riserva Cavariola 2015 di Bruno Verdi.

Si tratta di un rosso fermo dell’Oltrepò ottenuto da un blend tipico del territorio, ovvero croatina (almeno 60%), barbera, ughetta di Canneto e uva rara. Cavariola è un vero e proprio cru, cioè una singola vigna dell’azienda Bruno Verdi con una pendenza media del 35% e conseguente disposizione dei filari a giropoggio. L’età delle viti è importante, con esemplari che superano agevolmente i 70 anni di età. In cantina il vino si ottiene con fermentazione spontanea in tonneaux, affinamento per 20 mesi in barrique e almeno 10 mesi in bottiglia.

Rosso rubino compatto con riflessi bluastri, fin dal colore appare giovanissimo. Olfatto ricco e variegato: confettura di more e mirtillo, cioccolatino Mon Chéri, cannella, chiodi di garofano, cuoio, sentori balsamici.

Bocca calda e morbida in ingresso, satura il palato di frutto scuro, cioccolato e spezie, il vino ha però ottima mobilità, con grip tannico presente accompagnato da una sorprendente freschezza. Si sviluppa senza strappi con un’ottima progressione che porta ad una chiusura lunga, rinfrescante e sapida.

Plus: vino vigoroso, alcolico (15,5%), potente eppure, come da incipit, “controllato”. La dinamica, l’energia e l’acidità supportano il sorso facilitandone la beva. Potrà evolvere molto favorevolmente, anzi consiglio chi lo avesse in cantina di attenderlo almeno un lustro.

Diego Mutarelli
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Qualche bella bottiglia assaggiata a Live Wine 2023

Sono ancora divertenti e didattiche le fiere del vino? I banchi di assaggio? I saloni enogastronomici?

La risposta è molto soggettiva naturalmente, e dipende anche dalla curva di esperienza che ciascun appassionato di vino sta attraversando. Quando si è alle prime armi ci si getta sugli eventi vinosi con entusiasmo bulimico, ci si esalta per la possibilità di assaggiare molte cose e conoscere i produttori e si corre volentieri il rischio di assaggiare tanto e capirci poco. Quando ci si fa più smaliziati ed esperti si tende a snobbare questi eventi per masterclass o degustazioni mirate. Da qui in poi le strade divergono: qualcuno inizia a bere solo per edonismo e si concentra su poche etichette dal “valore sicuro”, altri non rinunciano al piacere della scoperta, dell’incontro con nuovi produttori e tipologie di vino, sprezzanti del pericolo di imbattersi in vini poco interessanti, noiosi o imprecisi.

Dopo la mia visita al Live Wine 2023 di Milano, da quest’anno riservato ai soli operatori, la mia risposta alla domanda iniziale è dunque affermativa. Sì, alle fiere del vino si impara e ci si diverte ancora. A patto di lasciarsi coinvolgere, di essere capaci di accogliere la serendipità, la scoperta fortuita, che è pronta a sorprenderci tra i banchetti dei diversi produttori.

Di seguito ti racconto dei vini che mi hanno colpito di più, alcuni di questi di produttori che non avevo ancora mai provato.

L’azienda Agricola Caprera si trova in Abruzzo, tra il Parco Nazionale del Gran Sasso e quello della Maiella a 400 metri s.l.m, in questo territorio oltre alla vigna alleva e custodisce grano, ulivi, bosco. Tra i vini assaggiati di questa azienda due sono quelli che mi hanno particolarmente colpito. L’ottimo Cerasuolo d’Abruzzo “Sotto il Ceraso” 2020, ottenuto da una vigna di 90 anni, vendemmiato la prima metà di ottobre e affinato in acciaio e tonneaux, è fine ed elegante, un cerasuolo di montagna che però pinotteggia nel suo incedere fresco e nel frutto rosso vivace, il sorso è succoso, vibrante, lungo e gustoso su ritorni di ciliegia e sale. Sorprende per finezza e leggiadria anche il Montepulciano d’Abruzzo “Le Vasche” 2020, tipologia che spesso eccede in tratti muscolari e alcolici, e qui invece è fresco ed equilibrato, ma sapido e di grande persistenza.

Non conoscevo l’Azienda Agricola Antonio Ligabue che in Valcamonica produce vini naturali senza aggiunta alcuna di solforosa. Tra i vini assaggiati mi ha stupito il Vino Rosso “Minègo” 2007, una barbera ultracentenaria che ha maturato 31 mesi in botti di 500 litri, integrità sbalorditiva, per un vino dal frutto vivo, dal sorso profondo e dall’incedere aristocratico. Di interesse anche il Vino Bianco “BLE” 2021, da petite arvine, che si propone con accattivanti sentori di pesca gialla e delicato vegetale, per uno sviluppo fresco e dinamico.

Istinto Angileri è un’azienda agricola di Marsala che non avevo mai provato e che ha presentato una gamma di alto livello, nessun vino men che esemplare. Dal Terre Siciliane IGP “Principino” 2021, un grillo di grande carattere da una vigna affacciata sul mare che integra perfettamente il suo generoso tenore alcolico (14%) in una materia ricca e stratificata, all’affusolato zibibbo secco Terre Siciliane IGP “ZETA” 2021, per arrivare al salatissimo Rosato IGP Terre Siciliane “Ro.Sa.” 2021 ottenuto dall’originale vitigno autoctono parpato.

Altra azienda siciliana di interesse, seguita dal medesimo enologo di Istinto Angileri, è Nuzzella. L’Etna Rosso “Selmo” 2020 è ottenuto da nerello mascalese dal versante Nord-Est dell’Etna, di grande piacevolezza pur se dal profilo austero che si dipana tra frutta rossa, erbe di montagna e rimandi minerali, sorso con più fibra che polpa, ottimo sviluppo e chiusura minerale.

Per chiudere torniamo al nord, in Valle d’Aosta, con la Maison Maurice Cretaz, produttore biodinamico che presenta una “rocciosa”, floreale e sapida petite arvine, si tratta del “Lie Banques” 2021, in rosso stupisce il “BOS Monot” 2019, un nebbiolo di montagna che sa di melograno, ribes ed erbe aromatiche, dall’impatto gustativo piacevolmente “elettrico”, dal tannino croccante e saporito.

Ebbene sì, alle fiere del vino si possono ancora fare belle scoperte, purché si sposi la filosofia di quel tale che disse “preferisco avere una mente aperta alle novità che una mente chiusa dai dogmi.”

Diego Mutarelli
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Fiorano: quando il mito si fa esperienza

Iniziamo questo breve resoconto sulla serata “Il mito di Fiorano: storia, talento, cultura, memoria”, tenutasi in AIS Milano il 17 febbraio anticipando subito che tutti i nove vini, dalla 2015 appena messa in commercio fino alla 1987, hanno sorpreso la platea per la loro disarmante freschezza e la grande coerenza stilistica.

È stata una serata fortemente voluta dal relatore, Armando Castagno, particolarmente legato alla storia di Fiorano e  alla tenuta nel cuore dell’Appia Antica, di cui parlò già venti anni fa in un articolo uscito sulla famosa rivista Porthos, raccontando di un vino leggendario, il Fiorano Rosso, non più in produzione. Di contro, proprio mentre lui, con rammarico, scriveva ciò, Fiorano stava rinascendo grazie al Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi che aveva ereditato la tenuta e aveva deciso di riprendere l’attività vitivinicola.

Era il 2003 e la prima bottiglia del “nuovo” Fiorano rosso da lì a qualche anno sarebbe uscita sul mercato;  Armando ne tornerà a parlare non più con rammarico ma con vistoso entusiasmo nell’articolo “Fiorano, memorie e girandole”, uscito a settembre 2014 sulla rivista Vitae di AIS Lombardia. Leggendolo scoprirete che Alberico Boncompagni Ludovisi, principe di Venosa, ereditata dal padre la tenuta di Fiorano nel 1946, decide di impiantarvi cabernet sauvignon e merlot, per ottenere, negli anni Cinquanta, la prima bottiglia italiana da taglio bordolese, affidandosi per la gestione agronomica ed enologica a Giuseppe Palieri, pioniere della coltivazione biologica.

Sorpresi vero? Anche noi, ma vi sorprenderà ancora di più sapere che, una volta mancato Giuseppe Paglieri, a sostituirlo fu nientemeno che Tancredi Biondi Santi!

Torniamo al presente, continuando a stupirci: abbiamo volutamente virgolettato l’aggettivo nuovo accanto al Fiorano rosso che dal 2003 ha ripreso ad esistere in quanto nulla è cambiato rispetto alla fiabesca e antesignana avventura del Principe Alberico Boncompagni Ludovisi: immutati i vitigni (cabernet sauvignon e merlot), immutate le tecniche in vigna (a conduzione biologica), la vinificazione (in tini di legno) e l’affinamento (in botti  da 10 ettolitri).

Il classico che si fa contemporaneo; il mito che torna a esistere.

È stata una serata in cui inevitabile è stato il rimando all’arte, classica e contemporanea: non poteva essere altrimenti visto che sul palco oltre che Armando Castagno, (anche) storico dell’arte, era ospite l’attuale proprietario della tenuta Fiorano, Alessandrojacopo Ludovisi Boncompagni, appassionato di arte e titolare della galleria romana Gallerja Roma.

“Nonostante la mia laurea in economia, ho sempre nutrito un grande interesse per l’arte, in particolare quella classica per poi fortemente appassionarmi a quella contemporanea, una passione che è diventata lavoro, come quella di produrre vino” sintetizza il principe.

E mentre Armando citava un capolavoro della pittura trecentesca senese, “Maestà”, di Simone Martini e a seguire un grande artista contemporaneo, esponente dell’Arte Povera, Janis Kounellis, ecco che venivano pian piano serviti nove annate di Fiorano Rosso: 2015, 2013, 2012, 2009, 2003, 1993, 1990,  1988, 1987.

Le annate che abbiamo più apprezzato sono state la 2003 (la prima della nuova “era”), la 1987 e su tutte la 1988. Quello che più ci ha spiazzato, rileggendo la verticale che Armando fece nel 2014 e di cui riportò sulla rivista Vitae di AIS nell’articolo già citato, è la perfetta corrispondenza con quanto l’autore scrisse della 1988 (<<…vitale…carismatico…un tannino di splendida trama…>>) e la 1987 (<<Pur assaggiato dopo la 1988, e quindi sacrificato dal confronto ravvicinato, fa sfoggio di grazia e varietà da grande vino.>>)

Classico e contemporaneo in perfetta armonia.

Alessandra Gianelli
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La Cantina di Enza a salvaguardia del vitigno coda di volpe rosso

Oggi parliamo di Enza Saldutti, titolare dell’azienda La Cantina di Enza, e del suo vino “Volpe rossa” prodotto dal vitigno coda di volpe rosso, varietà a rischio estinzione in Irpinia che Enza protegge e difende dall’oblio continuando a vinificarla in purezza.

Ci troviamo nel comune di Montemarano che sorge nell’area della Valle del Calore. È un borgo di quasi 3.000 abitanti, situato a 820 metri sul livello del mare e a 25 km da Avellino. È una zona molto vocata per il maestoso vitigno aglianico che in queste terre ha trovato il suo terroir d’elezione riuscendo a offrire il meglio di sé e a sprigionare la sua potenza tannica.

È qui che Enza, donna determinata e decisa come il suo territorio, sta lavorando e portando avanti una passione che è soprattutto tanta fatica e lavoro in vigna. Il terreno infatti, situato ad una altitudine di 400 mt, è di natura argillosa e richiede molte ore di lavoro per un suolo unico e che ha spesso bisogno di cure e attenzioni particolari. Stiamo parlando di un vino biologico e naturale e, riportando la citazione di un lavoratore della terra di altri tempi di mia conoscenza, diviene vitale ascoltare e captare tutti i segnali che il terreno e il vigneto può mandarci: “la vigna non può parlare”…mi diceva sempre…”sei tu che devi capirla!”

Prima di passare alla degustazione un cenno al coda di volpe rosso, una varietà a rischio estinzione in Irpinia dove i vigneti sono in genere condotti nelle forme tradizionali a starseto (pergola avellinese) oppure, come nel caso in questione, con il sistema “vecchia raggiera”.

Coda di volpe, deriva dal latino “Cauda Vulpium”, per la caratteristica forma del grappolo lunga, affusolata e compatta che ricorda appunto la coda della volpe. Le viti sono a piede franco quindi non innestate ed hanno un’età media di 70 anni. La data di inizio vendemmia si colloca verso metà novembre e può protrarsi sino ai primi giorni di dicembre con una modalità manuale di raccolta delle uve in cassette. La macerazione sulle bucce dura 15-20 giorni e una particolare attenzione viene dedicata alla fase di estrazione poiché è ricca fenoli.

In degustazione presentiamo il Volpe Rossa 2014.

All’esame visivo si presenta di un colore rosso rubino intenso con riflessi aranciati. Al naso si avvertono note di frutti rossi, amarena e fragola ma anche di spezie e vaniglia con delle note di lavanda che impreziosiscono di un tocco floreale il bouquet. Al palato si può apprezzare un sorso caldo e avvolgente con una trama tannica di tutto rispetto e un’acidità che ben si bilancia con l’importante tenore alcolico.

La sosta in barrique di rovere francese (24 mesi) si indovina dal netto richiamo alle spezie in fase di assaggio, con evidenti note balsamiche e di macchia mediterranea con il mirto in evidenza. Il tannino è vibrante con un finale lungo di matrice speziata (chiodo di garofano).

L’esiguo numero di bottiglie prodotte, 250 circa, ci fanno pensare che questo nettare rappresenti non solo l’identità di una cantina e di un produttore ma la difesa di una memoria storica patrimonio di tutta l’Irpinia.

Complimenti ad Enza Saldutti!

Walter Gaetani

Faccia a Faccia: riesling

Qual è il modo migliore di raccontare un vino? Ce ne è per tutti i gusti: schede tecniche, analisi sensoriali, descrizioni didattiche, narrazioni commerciali, svolazzi poetici, racconti onirici… Su Vinocondiviso abbiamo pensato di provare qualcosa di diverso con la rubrica “Faccia a Faccia” che inauguriamo oggi.

L’idea è semplice: mettere a confronto, o meglio in dialogo, due vini bevuti in parallelo per verificare se così facendo non si possa raccontarli più adeguatamente e al contempo comprenderli più a fondo. Fateci sapere nei commenti che ne pensate!

Inauguriamo la rubrica con due riesling della medesima annata ma di diversa provenienza.

Deidesheim Riesling Trocken Kalkstein 2020 – Georg Mosbacher

Il produttore, Weingut Georg Mosbacher, si trova a Forst, nel Palatinato (Pfalz). Si tratta di un’azienda certificata biologica di ottima reputazione e di riferimento non solo nella regione, ma in tutta la Germania.

Il vino che abbiamo nel calice è un riesling ottenuto da una parcella particolarmente vocata nei vigneti di Deidesheim, dal terreno prevalentemente calcareo. La fermentazione è spontanea.

Il colore è un giallo paglierino con riflessi verde-oro. Olfatto di scorza d’agrumi, leggero idrocarburo, fiori bianchi e, da ultimo, una sensazione di mineralità chiara di gesso e calcare che ricorda un grande Champagne Blanc de Blancs. Il sorso è teso, quasi elettrico, percorso da una scossa acida chirurgica, un po’ di carbonica è ancora presente e testimonia l’estrema gioventù del vino (dopo pochi minuti di permanenza nel bicchiere comunque scompare). Lo sviluppo non è dettato solo dall’acidità, la materia è saporita e il vino risulta ricamato, cesellato direi, con tutte le componenti in grande armonia. La chiusura è pulita, sapida, fresca e agrumata.

Vino che ha una bevibilità disarmante e che può accompagnare degnamente piatti di crostacei e molluschi, come ad esempio una padellata di gamberi e verdure oppure delle coquilles Saint-Jacques gratinate.

Langhe Riesling 2020 – Chionetti

Di Chionetti abbiamo già scritto, dopo una visita in cantina a Dogliani. Anche in questo caso si tratta di un’azienda certificata biologica che però, a differenza di Georg Mosbacher, concentra la propria produzione sui vini rossi. Dunque il confronto sulla carta pare impari ma, forse proprio per questo, risulta intrigante.

Il colore è del tutto paragonabile al vino della Pfalz, con un naso maggiormente fruttato (pesca bianca), un tocco di salvia, affumicatura e bergamotto. Nel complesso il quadro olfattivo è elegante e misurato. Bocca agile ma di buon volume, solo 12% il titolo alcolometrico, freschezza ben presente ma in filigrana nella materia del vino. La chiusura è molto convincente, sapida e succosa, su ritorni di agrumi e sale.

Vino semplice, gradevole e ben fatto, adatto ad accompagnare antipasti a base di verdure oppure una quiche lorraine.

Riflessioni conclusive

Medesimo vitigno, medesima annata, prezzo simile (20 € circa), cosa ci lascia il confronto “Faccia a Faccia” di questi due vini? Il vino di Mosbacher è un vino più nervoso e minerale, un grande esempio di riesling secco proveniente dal suo territorio di elezione e da una mano particolarmente felice (oltre che grande specialista del riesling). Il vino di Chionetti però regge benissimo il confronto e, pur perdendo ai punti, si contrappone con una versione agile e appena più fruttata, ma sapida e gustosa, meno minerale ma equilibrata e precisa.

Diego Mutarelli
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Champagne Rosé Premier Cru “Anthocyanes” – Pascal Doquet

Confesso che non avevo mai bevuto il rosé di Doquet, produttore che amo per i suoi BdB di Vertus (e Mesnil). Champagne rosé d’assemblaggio con 50% di pinot noir di Vertus e Bergères (estrema zona sud della Côte des Blancs) e 50% di chardonnay di Vertus.

Vendemmia 2015, dosaggio molto basso (3,5 gr/l) e sboccatura fine luglio 2021, colore acceso tra la buccia di cipolla e il lampone, al naso torna un lampone nettissimo e molto elegante, bocca ricca, fruttata ma con un acidità che pulisce tutto e rinfresca il sorso. Bella sorpresa!

In Italia andrebbero “riscoperti” e rivalorizzati gli Champagne Rosé, penso allo splendido prodotto di Larmandier Bernier che a mio avviso rimane lo Champagne rosé migliore mai assaggiato insieme a quello di Laval.

Abbinamento con delle quaglie arrosto oppure, anche per cambiare completamente, uno scorfano all’acqua pazza.

Gregorio Mulazzani
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Champagne BdB extra brut “Les Rocheforts” – Étienne Calsac

Ci scommetto, ve ne innamorerete al primo sorso!

Stupendo Champagne di Étienne Calsac, un produttore ancora relativamente poco conosciuto, almeno in Italia. Da uve 100% chardonnay, monoparcellare ottenuto da vigne di 30 anni nel comune di Bisseuil a pochi km da Épernay verso Bouzy.

Il suolo gessoso esplode al naso con una grande mineralità bianca profonda, agrumi amari, bolla finissima, splendida acidità e beva “assassina” (attenzione che in 10 minuti massimo evapora, nel mio caso è successo con consorte generalmente moderata), approfittatene finché i prezzi non esploderanno giocoforza anche per questo produttore.

Abbinamento d’elezione sashimi misto con ricciola, branzino, tonno rosso, scampo e leggerissima soia a finire.

Gregorio Mulazzani
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Il pecorino, un vino che dalla montagna volge verso il mare

Da oggi Vinocondiviso si arricchisce dei contributi di Walter, sommelier marchigiano che sposa la filosofia di Vinocondiviso, ovvero il piacere della scoperta e condivisione di tutto ciò che ruota attorno al vino. Questo è il suo primo post. 

Ogni bottiglia di vino può dare notizia di sé trasmettendo vizi e virtù proprie a chi desidera scoprire la sua storia fatta di persone, di piccoli gesti anonimi e di un legame sentimentale con il proprio territorio.
Il nostro viaggio inizia da un vitigno autoctono a bacca bianca originario dell’Italia centrale coltivato in origine con un sistema di allevamento detto ad “alberata” dove le viti erano maritate con alberi da frutto o aceri.
Il viaggio prosegue nel territorio Piceno portandoci nello specifico in quel di Pescara del Tronto, una frazione di Arquata del Tronto rasa al suolo dal recente terremoto e luogo della riscoperta del vitigno dove le viti erano “a piede franco” con radici proprie, non ibride e non innestate su radici di piante americane. Stiamo parlando del pecorino.

Photocredit: Wikipedia


Erano gli anni Novanta quando un esperto sommelier e Tenuta Cocci Grifoni, storico produttore del territorio Piceno, hanno contribuito a riportare in auge il vitigno pecorino salvandolo dall’estinzione che rischiava a causa della sua scarsa produttività.
Così iniziarono le prime sperimentazioni e le prime vinificazioni frutto delle viti che da Arquata del Tronto, piccolo borgo montano posto alle pendici del Monte Vettore, furono piantate in colline degradanti verso il mare. Il pecorino ottenne la certificazione doc solo nel 2001, difatti nell’anno di imbottigliamento della prima bottiglia (il 1990) frutto delle continue sperimentazioni l’etichetta non riportava ancora la dicitura pecorino ma vino da tavola.
Nelle Marche, il pecorino rientra sia nel disciplinare di produzione dei vini a denominazione di origine controllata “Falerio doc”, istituita nel 1975, sia nel disciplinare di produzione dei vini a denominazione di origine controllata e garantita “Offida docg”, certificazione ottenuta relativamente di recente, nel 2011.

Diversi produttori lo vinificano in purezza utilizzando il vitigno pecorino al 100% nonostante il disciplinare stabilisca un minimo dell’85% di pecorino per rientrare nei parametri della docg Offida. Generalmente l’avvio della fermentazione è in vasche di acciaio ma ultimamente alcuni produttori stanno sperimentando l’uso del legno e delle barrique che regalano al vino delle note speziate di vaniglia che ne arricchiscono il bouquet aromatico.
Il pecorino è un vitigno piuttosto versatile, infatti per la sua importante componente acida si presta anche alla spumantizzazione sia con il metodo Martinotti-Charmat che prevede la rifermentazione in autoclave sia con il metodo Classico con rifermentazione in bottiglia.

Offida docg pecorino Colle Vecchio 2021 – Tenuta Cocci Grifoni

All’esame visivo si presenta limpido quasi cristallino con un colore giallo paglierino dai riflessi dorati di grande intensità e vivacità. Riempie il calice muovendosi lentamente segno di un buon tenore alcolico. All’olfatto risulta intenso e l’impatto del profumo sulla mucosa nasale è immediato e diretto. Dapprima si colgono le note fruttate da frutti a polpa gialla come la pesca e frutti tropicali come il mango. A seguire si apprezzano anche note agrumate di bergamotto e di erbe aromatiche come salvia e rosmarino.
Vino strutturato e complesso con una spalla acida importante accompagnata da una sapidità ben presente e dall’altra parte una componente alcolica di tutto rispetto che lo rendono un vino equilibrato.
Il sorso in bocca è appagante, riempie il palato e la vibrante acidità crea salivazione e invita al prossimo sorso. Sul finale ritroviamo le sensazioni di frutta a polpa gialla riscontrate nell’esame olfattivo nonché le sfumature di erbe aromatiche come la salvia e le note agrumate di bergamotto.
E’ dotato di una persistenza medio lunga, lo testimonia il fatto che l’insieme delle sensazioni si continuano a percepire diversi secondi dopo l’assaggio.
Essendo un vino strutturato è consigliabile un abbinamento a piatti dello stesso livello, quindi strutturati, come primi piatti di pesce, pesce alla griglia e carni bianche ma non disdegna l’abbinamento a un tagliere di formaggi a media stagionatura e si rivela ottimo anche come aperitivo.

Walter Gaetani

Les Cocus 2020, lo stupefacente chenin di Thomas Batardière

Le regioni francesi vocate per i vini bianchi sono molteplici eppure, se dovessi sceglierne solo una, senz’altro la mia personalissima preferenza ricadrebbe sulla Loira, grazie alle magistrali interpretazioni che molti produttori danno al quel magnifico vitigno che è lo chenin. La riflessione è confermata, una volta di più, dall’assaggio di questo splendido vino di Thomas Batardière.

Les Cocus 2020 – Thomas Batardière

Thomas Batardière si installa a Rablay-sur-Layon nel 2012 e si ritrova come vicino di casa e di vigna il mitico Richard Leroy, sì proprio il produttore del vino di Loira più ricercato del momento, ovvero Les Noëls de Montbenault, che gli appassionati di mezzo mondo si contendono a caro prezzo (quotazioni che sfiorano i 500 € a bottiglia, sigh!).

La filosofia seguita da Thomas è quella naturale, con certificazione biodinamica (Demeter) acquisita nel 2015. Sono poco più di 3 gli ettari a disposizione, chenin in prevalenza, ma anche cabernet franc e grolleau. Il vecchio vigneto da cui deriva il vino che abbiamo nel calice, impiantato nel 1968, è proprio a fianco al Montbenault, alla destra orografica del Layon, 0,6 ettari in cima alla collina. Il vino fermenta senza inoculo di lieviti selezionati e affina circa 10 mesi in legno, per poi passare pochi mesi in acciaio prima di essere imbottigliato con aggiunta minima solforosa.

Nel calice scorre un liquido dal colore oro antico di grande luminosità. Molto articolato al naso con sensazioni che vanno dal pop-corn, alla frutta gialla, poi sentori marini (alghe, battigia), roccia, affumicatura e un’intrigante nota agrodolce di scorza di limone candida. Bocca snella e agile, l’alcol (13%) è in secondo piano perché ben integrato nella materia, non poderosa comunque, del vino. Ne risulta una beva molto facile, mai banale, anzi l’articolazione e lo sviluppo sono decisamente da grande vino, l’acidità è corroborante e vivace e i ritorni sono uno splendido mix di mare, sale e frutta. Chiusura soffice ma di carattere grazie ad un’astringenza appena accennata che però fornisce grip e lunghezza.

Plus: vino naturale ed espressivo ma non “selvatico”, nulla sembra lasciato al caso in questo vino dall’equilibrio mirabile. Peccato che il produttore, come ormai molti vignerons naturali, decida di non rivendicare in etichetta la AOC di riferimento (Anjou) e preferisca dichiararsi semplicemente Vin de France…

Diego Mutarelli
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