Qualche bella bottiglia assaggiata a Live Wine 2023

Sono ancora divertenti e didattiche le fiere del vino? I banchi di assaggio? I saloni enogastronomici?

La risposta è molto soggettiva naturalmente, e dipende anche dalla curva di esperienza che ciascun appassionato di vino sta attraversando. Quando si è alle prime armi ci si getta sugli eventi vinosi con entusiasmo bulimico, ci si esalta per la possibilità di assaggiare molte cose e conoscere i produttori e si corre volentieri il rischio di assaggiare tanto e capirci poco. Quando ci si fa più smaliziati ed esperti si tende a snobbare questi eventi per masterclass o degustazioni mirate. Da qui in poi le strade divergono: qualcuno inizia a bere solo per edonismo e si concentra su poche etichette dal “valore sicuro”, altri non rinunciano al piacere della scoperta, dell’incontro con nuovi produttori e tipologie di vino, sprezzanti del pericolo di imbattersi in vini poco interessanti, noiosi o imprecisi.

Dopo la mia visita al Live Wine 2023 di Milano, da quest’anno riservato ai soli operatori, la mia risposta alla domanda iniziale è dunque affermativa. Sì, alle fiere del vino si impara e ci si diverte ancora. A patto di lasciarsi coinvolgere, di essere capaci di accogliere la serendipità, la scoperta fortuita, che è pronta a sorprenderci tra i banchetti dei diversi produttori.

Di seguito ti racconto dei vini che mi hanno colpito di più, alcuni di questi di produttori che non avevo ancora mai provato.

L’azienda Agricola Caprera si trova in Abruzzo, tra il Parco Nazionale del Gran Sasso e quello della Maiella a 400 metri s.l.m, in questo territorio oltre alla vigna alleva e custodisce grano, ulivi, bosco. Tra i vini assaggiati di questa azienda due sono quelli che mi hanno particolarmente colpito. L’ottimo Cerasuolo d’Abruzzo “Sotto il Ceraso” 2020, ottenuto da una vigna di 90 anni, vendemmiato la prima metà di ottobre e affinato in acciaio e tonneaux, è fine ed elegante, un cerasuolo di montagna che però pinotteggia nel suo incedere fresco e nel frutto rosso vivace, il sorso è succoso, vibrante, lungo e gustoso su ritorni di ciliegia e sale. Sorprende per finezza e leggiadria anche il Montepulciano d’Abruzzo “Le Vasche” 2020, tipologia che spesso eccede in tratti muscolari e alcolici, e qui invece è fresco ed equilibrato, ma sapido e di grande persistenza.

Non conoscevo l’Azienda Agricola Antonio Ligabue che in Valcamonica produce vini naturali senza aggiunta alcuna di solforosa. Tra i vini assaggiati mi ha stupito il Vino Rosso “Minègo” 2007, una barbera ultracentenaria che ha maturato 31 mesi in botti di 500 litri, integrità sbalorditiva, per un vino dal frutto vivo, dal sorso profondo e dall’incedere aristocratico. Di interesse anche il Vino Bianco “BLE” 2021, da petite arvine, che si propone con accattivanti sentori di pesca gialla e delicato vegetale, per uno sviluppo fresco e dinamico.

Istinto Angileri è un’azienda agricola di Marsala che non avevo mai provato e che ha presentato una gamma di alto livello, nessun vino men che esemplare. Dal Terre Siciliane IGP “Principino” 2021, un grillo di grande carattere da una vigna affacciata sul mare che integra perfettamente il suo generoso tenore alcolico (14%) in una materia ricca e stratificata, all’affusolato zibibbo secco Terre Siciliane IGP “ZETA” 2021, per arrivare al salatissimo Rosato IGP Terre Siciliane “Ro.Sa.” 2021 ottenuto dall’originale vitigno autoctono parpato.

Altra azienda siciliana di interesse, seguita dal medesimo enologo di Istinto Angileri, è Nuzzella. L’Etna Rosso “Selmo” 2020 è ottenuto da nerello mascalese dal versante Nord-Est dell’Etna, di grande piacevolezza pur se dal profilo austero che si dipana tra frutta rossa, erbe di montagna e rimandi minerali, sorso con più fibra che polpa, ottimo sviluppo e chiusura minerale.

Per chiudere torniamo al nord, in Valle d’Aosta, con la Maison Maurice Cretaz, produttore biodinamico che presenta una “rocciosa”, floreale e sapida petite arvine, si tratta del “Lie Banques” 2021, in rosso stupisce il “BOS Monot” 2019, un nebbiolo di montagna che sa di melograno, ribes ed erbe aromatiche, dall’impatto gustativo piacevolmente “elettrico”, dal tannino croccante e saporito.

Ebbene sì, alle fiere del vino si possono ancora fare belle scoperte, purché si sposi la filosofia di quel tale che disse “preferisco avere una mente aperta alle novità che una mente chiusa dai dogmi.”

Diego Mutarelli
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Il futuro delle Denominazioni di Origine: intervista a Paolo De Cristofaro

Ha suscitato ampio dibattito il post pubblicato qualche giorno fa dal titolo “Vini naturali, nuovi consumatori e Denominazioni di Origine: una difficile convivenza? Una conversazione con Samuel Cogliati”.

Per questo motivo ho deciso di continuare ad approfondire il tema con l’aiuto dell’amico Paolo De Cristofaro, giornalista e degustatore, storico collaboratore della Guida Vini Gambero Rosso oltre che animatore, insieme ad Antonio Boco, del wineblog Tipicamente.

Paolo De Cristofaro

Paolo, proviamo a fare un passo avanti su quanto emerso fino ad ora sul tema Denominazioni di Origine (DO). Qual è o dovrebbe essere il loro ruolo? Garantire riconoscibilità, territorialità e persino qualità al consumatore? Oppure garantire valore aggiunto / differenziazione sul mercato ai produttori?

Il ruolo delle DO è legato alla necessità di garantire una provenienza ed una conformità a determinati parametri/regole stabiliti da un disciplinare. Ovvero che quel vino sia effettivamente realizzato da quella zona, con quei vitigni, con i mesi previsti di affinamento, etc. Ma poco di più, perché quelli appena ricordati sono per molti versi gli unici elementi che un protocollo di controllo possa realisticamente garantire.

Gli altri fattori quali riconoscibilità, territorialità, per non parlare della qualità, sono veicolati semmai in maniera indiretta. Aspetti che una DO può portarsi dietro senza però poterli garantire a priori, sia perché parliamo di parametri non misurabili, in gran parte soggettivi, sia perché dipendono dalla libera interpretazione che il vignaiolo dà al suo vino.

Vale però la pena aprire una parentesi. E’ innegabile che ci sia una grande differenza tra DO con una storia codificata in bottiglia (che permette di delineare un’identità attorno alla quale ci si possa riconoscere) e DO (la maggioranza), che hanno una storia recente o recentissima, e che per molti anni hanno avuto pochi produttori a rivendicarle. Denominazioni che il più delle volte non poggiano su dati produttivi ed espressivi statisticamente sufficientemente ampi da permettere anche solo di abbozzare un tentativo di descrizione di quel che può significare territorialità/riconoscibilità per i vini tutelati. Chiudo dicendo che è invece assolutamente estraneo allo spirito di un sistema di DO, dal mio punto di vista, il discorso del valore aggiunto. Il valore aggiunto che i territori devono “sedimentare” è piuttosto frutto della prassi. Torna quindi in gioco l’elemento umano.

Il tema, benché molto d’attualità, non è certo nuovo. Basti pensa alle diverse opinioni in proposito di Luigi Veronelli e Mario Soldati, a cui peraltro anche il tuo podcast “Vino al Vino 50 Anni Dopo” dà ampio risalto.

È vero: il tema, seppur attualissimo, non prende forma certo oggi e se ne discute da tempo. Apparentemente Soldati e Veronelli sono ai due estremi della barricata: Veronelli promuove addirittura l’idea delle Denominazione Comunali (De.Co.), per legare nella maniera più forte possibile il marchio al comune di provenienza, mentre Soldati vede con sospetto il vino con l’etichetta, va alla ricerca di contadini privati che fanno vino per autoconsumo e ha perfino delle riserve sul vino che viaggia… Ma, a ben vedere, i due “maestri” sono molto più vicini di quel che può sembrare.

Veronelli si muove infatti all’interno del “mondo reale”: ha talenti da scrittore, ma è anche uno dei primi assaggiatori professionali (nonché divulgatore, giornalista, catalogatore e studioso del vino a tutto tondo), per cui si misura con la piramide di qualità che si delinea in Italia dagli anni ’60 e vede nelle De.Co. un argine per sottrarsi alla genericità delle Denominazioni in mano all’industria e agli imbottigliatori, immaginandolo come uno strumento a disposizione dei piccoli artigiani per potersi differenziare.

Soldati, invece, ben lungi dal considerarsi un professionista, si dichiara orgogliosamente un “amatore inesperto”, si fa accompagnare nei suoi viaggi da Ignazio Boccoli dell’Istituto Enologico, cerca di approfondire la conoscenza tecnica, ma rimane pur sempre un appassionato, uno che nella vita fa un altro mestiere e può permettersi di portare avanti l’utopia del vino senza fascetta o senza etichetta. Nella sua visione c’è quindi un rifiuto “a monte” di un sistema normativo che lui già vede (e la diagnosi non è lontana da quella di Veronelli) come strutturato appositamente per diventare un cavallo di Troia nei territori in cui la fanno da padroni le industrie e i grandi imbottigliatori, quelli che “manipolano” e diluiscono il carattere territoriale dei vini molto più di quanto sia permesso oggi. Sono però convinto che anche Soldati avrebbe appoggiato senza tentennamenti un sistema di DO in grado di garantire in primis contadini ed artigiani, e con loro il “vino genuino” che cerca nei suoi viaggi.

I vini naturali, soprattutto se provenienti da zone meno prestigiose, scelgono spesso la strada del Vino da Tavola. Questo permette loro maggior libertà espressiva e minori rischi di doversi adeguare a regole dettate dai Disciplinari o di essere bocciati dalle commissioni di assaggio, magari per velature del vino, colori non ordinari, volatili sopra le righe. Pensi che i Disciplinari e le regole delle commissioni di assaggio debbano diventare più flessibili e cercare di accogliere maggiormente espressioni meno “allineate” di fare vino?

Un sistema di DO che garantisce provenienza e rispetto di determinati protocolli non troppo stringenti, teoricamente non avrebbe bisogno delle commissioni di assaggio, né dovrebbe creare problemi a produttori meno “ortodossi”. Se un certo vino rispetta i vari passaggi produttivi stabiliti e più in generale le caratteristiche oggettive misurabili, dal mio punto di vista dovrebbe avere tutto il diritto di appartenere ad un determinata DO, anche a fronte di una qualità organolettica “pessima”. Gli aspetti non misurabili, interpretabili ed in ultima istanza valutativi, dovrebbero essere lasciati al giudizio dei consumatori.

Anche perché viviamo in un momento storico in cui stiamo assistendo ad un rimescolamento della stessa grammatica interpretativa. I bevitori, soprattutto delle nuove generazioni, sono alfabetizzati a gusti completamenti diversi rispetto a quelli che potevano fare da punto di riferimento anche soli vent’anni fa. Consumatori che possono avere una tolleranza molto più ampia alla voltatile, all’ossidazione, alla torbidità, magari perché si avvicinano al mondo del vino passando dal mondo della birra artigianale, delle fermentazioni spontanee, eccetera. A mio modo di vedere le DO non dovrebbero entrare nel merito degli stili e delle espressioni che un vignaiolo cerca di enfatizzare, anche perché rischiano di fotografare un momento storico circoscritto, soggetto ad evoluzioni anche repentine. E lo abbiamo visto: vini bocciati perché magari avevano un colore troppo scarico (semplicemente per il fatto che in una certa fase si preferivano vini più carichi), salvo poi il ribaltarsi della situazione e delle preferenze di mercato a favore di vini più trasparenti e luminosi.

Diego Mutarelli
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Colbacco…che vini!

Del mio eno-tour in Umbria la tappa che attendevo con maggior ansia era quella ad una nuovissima, piccola realtà che ha mosso i primi passi con la vendemmia 2018. Siamo ad una ventina di chilometri a sud-ovest di Perugia. Un progetto neonato che già scalpita per farsi notare nel mondo dei vini naturali. Questa buona dose di “sfrontatezza” mi piace. 

La Cantina è Colbacco. Nasce dall’entusiasmo di 4 soci, personaggi che sembrano creati per un fumetto; diversissimi per fattezze, età e vissuto. Ad un primo colpo d’occhio potrebbero sembrare degli improvvisatori, ma ognuno porta con sé la sua solida esperienza nel mondo del vino. Sono ingranaggi incastrati perfettamente l’uno con l’altro: hanno fatto partire una macchina che sembra poter andare lontano. Il sogno che li unisce è l’amore per la loro terra e tradizione. Hanno cominciato nel più genuino dei modi: recuperando vecchie vigne abbandonate da incuria e crisi, piccoli fazzoletti di terra sparsi qua e là sulle colline adiacenti. In alcuni casi un blend di vitigni non identificati.

Ho pianificato la visita con Guido, uno dei soci, che mi ha accolta con grande entusiasmo ed ha coordinato l’incontro; sono le prime visite in cantina e desiderano essere tutti presenti. 

Ci ritroviamo così intorno ad un grande tavolo di pietra, sotto un vecchio Leccio che lascia cadere in continuazione grappoli di fiori secchi. Questo tavolo diventa un palco dove finiamo per mettere in scena uno spettacolo teatrale tra la farsa e l’assurdo. Nessuno l’aveva pianificato ma tutti rivestono un ruolo fondamentale nel loro essere personaggi così apparentemente distanti.  

Scendendo dall’auto, in lontananza, avevo visto i soci Colbacco rassettare la loro “sala degustazione”; cercando di ripulire foglie e fiori secchi con una scopa di fortuna. Queste attenzioni mi lusingano, ma sapessero quanto adoro questa essenzialità, non si preoccuperebbero dell’ordine e della pulizia. Questo contesto rende protagonista solo ed esclusivamente il vino e le loro storie: è perfetto.

Guido comincia il suo racconto partendo dal principio; dalla loro idea e da questo nome così curioso. Ma, quando ci si ritrova intorno ad un tavolo con un calice in mano, i discorsi prendo strade inaspettate ed i pensieri diventano pindarici. Metto insieme i pezzi del loro racconto sorso dopo sorso, tra racconti di cene goliardiche, suggerimenti di ristoranti e sbuffi di sigaretta che ogni tanto alcuni di loro accendono, avendo cura di allontanarsi dai calici. 

i vini Colbacco

Colbacco deriva dal carattere austero dei loro vini, non si piegano a nulla ed in alcuni casi sembrano ignorare le regole base della vinificazione scelte dall’enologo. Nascono così etichette come Quartoprotocollo, il merlot che “ha deciso lui come voleva essere”, scolpendo la sua indole già nei primi giorni di fermentazione. Poi Maracaibo, il cui nome discende dalla divertente e giocosa canzone che racconta anche una storia di ribellione. Questo vino, nell’idea originale, doveva essere la base di uno spumante, ma ha ignorato il loro volere e la seconda fermentazione non è mai partita. Infine Kalima, dea della guerra: mi pare di capire essere il loro figlio prediletto. Pur essendo il bianco, i soci fanno bramare la sua degustazione proponendolo per ultimo. Non sbagliano, il loro percorso di degustazione è un climax di sensazioni in cui Kalima è il gran finale, la chiusura da standing ovation. 

Il nome è Colbacco anche per una foto, destinata a diventare l’icona della cantina: uno dei nostri personaggi che pota a febbraio con il buffo cappello in testa. 

La scelta delle etichette e delle bottiglie, di grande originalità e dallo stile un po’ onirico, è studiata attentamente ed ha l’ambizione di descrivere il carattere dei vini, con la capacità di distinguersi sullo scaffale di un’enoteca. 

Maracaibo

Partiamo stappando Maracaibo, il colore è un rosato chiaretto quasi fosforescente quando colpito dalla luce. Un sangiovese in purezza dal naso molto ferroso, profumato di ribes e fragole. L’acidità è una lama gelata sulla lingua, riequilibrata dal calore alcolico che scende anche in gola. Rimane sul palato una sensazione di tensione metallica, chiude in persistenza con pepe e spezie. 

Con i primi calici si comincia a tagliare un po’ di pane, pancetta e formaggio. Questi profumi richiamano intorno al tavolo la morbida cagnetta Malvasia; gira in tondo al tavolo zampettando con discrezione e delicatamente poggia il muso sulle nostre gambe con occhi languidi, sperando in un bocconcino.

Passiamo al rosso, Quartoprotocollo, merlot 100%. Il bouquet è molto erbaceo, verde con note di sedano, ossigenandosi offre note di cacao e ancora la nota ferrosa incontrata nel rosé. L’entrata in bocca è inizialmente morbida e ruffiana, subito sferzata dall’acidità importante. Il tannino è sottile ma ben presente. Un’espressione inusuale e curiosa di questo vitigno. Vi stupirete se vi dico che per alcune caratteristiche mi ha ricordato un Poulsard di Jura. 

Si avvicendano al tavolo altri personaggi di questo buffa piece teatrale; arrivano mogli, padri. Ognuno è un pezzo della storia, un contributo vivo a questo nuovo progetto. 

Prima di aprire il bianco, uno dei soci, il signor Kurtz, barba lunga e piccoli occhiali tondi calati sul naso, mi lancia uno spunto di riflessione interessante sui vini naturali. Un tema che mi appare molto complesso ma che fortemente vorrei approfondire. Se il concetto di terroir ingloba al suo interno, non solo il legame con il territorio ma anche con la cultura e la mano umana di chi lo produce, nei vini naturali l’espressione stilistica e le scelte enologiche sono ancora più impattanti. Per questo, in alcuni casi, riconoscere un vino naturale alla cieca è così complesso. Quindi, verticalità e sensazioni metalliche di questi vini sono figlie dell’indole di quattro soci/amici, più che della terra su cui nascono? Approfondirò. 

Kalima

Finalmente arriva Kalima prodotto con Trebbiano, Malvasia, Grechetto e… boh! Come anticipato, nelle vecchie vigne recuperate, non tutte le piante sono state identificate. Colore dorato carico, l’impatto al naso è aromatico, insieme a scorza di arancio, tiglio e un fondo minerale di magnesia. In bocca è ricco, rotondo grazie anche alla piena maturazione in pianta dell’uva che lo rende persistente anche su frutta gialla matura. L’acidità è sempre netta e ben integrata. 

Facciamo un breve passaggio in cantina, piccola ma ordinata come una sala operatoria. Sul fondo sono accatastati i pochi cartoni che rimangono della piccola produzione del 2018. Ci salutiamo in modalità Colbacco Vini, con un bel selfie di gruppo. 

Guido tiene molto a mostrarci le vigne e farci conoscere la micro realtà in cui vive, lo seguiamo in macchina mentre ci indica dal finestrino i loro piccoli appezzamenti. Ci accomiatiamo davanti al castello di Spina, una piccola fortezza ora destinata a residenze ed esercizi commerciali, tra cui una chicca: il bellissimo negozio di fiori della moglie Annalisa. Racchiude al suo interno un’antica e grande macina per le olive. Annalisa ci racconta le ambizioni di far crescere il suo progetto mentre è intenta a realizzare un bellissimo bouquet di freschi fiori di campo coi colori accoglienti dell’Umbria. 

Sulla via del ritorno il paesaggio ci offre meravigliose colline vestite di girasoli e grano. Così, presi dall’entusiasmo “colbacchiano” accostiamo e ci concediamo una corsa in un campo di grano che sta per essere divorato da un tramonto di sfumature oro e turchese. 

Chiara EM Barlassina
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Provenza e Camargue: tra fiere e vigne (parte 2)

Seconda puntata di un resoconto di viaggio tra Provenza e Camargue. La prima puntata la trovi qui —> parte 1

Mi rimetto in macchina alla volta di Arles, sul confine con la Camargue. Le alture bianche di Provenza, ultima coda delle Alpi, degradano e si fanno sempre più rossastre. Anche la vegetazione si fa più bassa con la prevalenza di grandi arbusti. L’obiettivo è la fiera La Remise ad Arles. Non è solo una fiera di vini naturali, è un’immersione nel mondo di produttori che hanno abbracciato una filosofia di vita, la produzione di questi vini è solo la naturale conseguenza.

Dread che scendono lungo la schiena, abiti scoloriti al sole, facce arse dal lavoro in vigna e piedi scalzi: questo è l’identikit dei vignerons partecipanti. Gli assaggi sono impegnativi: mi imbatto in vini un po’ scomposti, ancora troppo giovani o con acetiche importanti. Ma quando arriva il calice giusto è una gioia. Assaggi così estremi ti obbligano a rimettere in ordine i tuoi parametri di degustazione, come se uscendo dal solito sentiero si scoprissero panorami mai immaginati. Queste alcune etichette e cantine che mi hanno più colpita e che mi piacerebbe riassaggiare in futuro.

– Le Temps des Reveurs, Provenza.

– Hydrophobia, Le debit d’Ivresse. Pirenei orientali, Occitania.

– Organe I Co, Domaine Carterole. Banyuls, Roussillon.

– Baran, L’Ostal, Sud Ovest

– Parole de Terre, Luberon 2017, Valle del Rodano.

– La Boulette de Schistes 2017, Ollivier Gauthier, Languedoc-Roussillon

Una vera e propria festa di condivisione, lontana da smartphone e social. La sera si cena con i produttori, le bottiglie avanzate dalla giornata ruotano di tavolo in tavolo grazie a divertenti negoziazioni e qualche regalo inaspettato. Gli assaggi sono tanti, forse troppi ma questa è una vera festa del vino.

L’ultimo giorno è dedicato al territorio della Camargue, il richiamo delle vigne è forte. Siamo in un piccolo areale della Vallée du Rhone, Costieres de Nimes. Sulla costa il paesaggio è quello di una pianura a perdita d’occhio fatta di acquitrini salmastri e paludi. È la casa degli iconici fenicotteri rosa e di cavalli bianchi che corrono allo stato brado. In queste sabbie strappate all’acqua affondano le radici le vigne dei vin de sable, veri estratti di mare. Risalendo nell’entroterra si incontra qualche dolce pendio, i terreni sabbiosi lasciano spazio a sedimenti rocciosi: sono i famosi “Galets Roules”, rocce sedimentarie di color ocra che raccolgono il calore del giorno e lo rilasciano di notte.

L’aria è leggera e marina, qui infatti arrivano i venti dalla costa che ammantano i vigneti e rendono i vini unici nel loro carattere.

Alla cantina Mas Mellet ci accolgono Emilie e Brice. Scarso il mio francese, poco il loro inglese ma il linguaggio del vino è universale e tanto basta a farsi trascinare nei loro racconti. 27 ettari, alcuni di vigne antiche con vitigni autoctoni della regione: Grenache Blanc, Roussanne, Vermentino, Viogner per i bianchi e Grenache, Syrah, Carignan e Mourvedre per i rossi.

Degusto le loro etichette: vini con grande spinta sapida, sia nei bianchi che nei rossi. Al naso i sentori sono quelli tipicamente speziati dei vigneti autoctoni della zona e quelli minerali della roccia. All’assaggio la sapidità è totalizzante, non diventa amaricante ma una vera e propria sensazione di saporito.

Le freschezze non prevalgono sulla sapidità ma bilanciano bene l’assaggio. Le persistenze sono lunghe ed evolute, anche nei vini più giovani.

Concludo con un veloce tour della cittadina di Arles: casette di pietra bianca ed imposte dalle tinte pastello. Qui ancora sono arrivate poche catene commerciali e le vetrine dei negozi hanno ancora il sapore dell’artigianalità tra profumerie, boulangerie e laboratori di ceramica. Nel cuore della cittadina una grande arena di epoca romana che sembra sproporzionata rispetto alla struttura minuta di ciò che la circonda.

Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles (ieri e oggi)

Un ultimo caffè dal sapore della storia, in piazza Forum, nel locale dove Van Gogh realizzo il dipinto “Terrazza del caffè la sera” a malincuore sono pronta per tornare a casa.

Ringrazio i miei compagni di viaggio: persone di straordinaria e sincera passione.

Chiara EM Barlassina
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Provenza e Camargue: tra fiere e vigne (parte 1)

Questo è il racconto di 4 giorni spesi tra Provenza e Camargue in un crescendo di esperienze sensoriali che hanno per filo conduttore la passione del vino.

Parto da Milano alle prime ore del mattino, mi lascio alle spalle un meteo un po’ instabile e già al confine con la Liguria si apre un bellissimo sole lungo tutta la strada panoramica. La natura qui è una bellissima varietà tra piante mediterranee e sempreverdi di altitudini maggiori. La roccia bianca mi accompagna fino al cuore della Provenza dove mi aspetta la prima tappa: Mandelieu per la fiera Vignerons Indépendants.

Salon des Vins des Vignerons Indépendants

Questa fiera è una rappresentanza di vignaioli francesi che hanno fatto propria la filosofia di vini biologici, biodinamici e naturali. Se dovessi riassumente in poche parole l’essenza della fiera, sceglierei queste parole: eleganza della natura.

Queste le etichette che più mi hanno colpita:

– il primo assaggio porta subito le aspettative a livelli d’eccellenza: Brut Nature Benoit Cocteaux uno champagne poco ruffiano e di acidità brillante prodotto con la riserva di 4 millesimi.

– Sancerre Les Bouffants, Christophe Moreaux. Conoscevo già la cantina ed altre etichette, ma questo assaggio mi ha stupito per la bellezza del bouquet di frutti e fiori chiari e per l’impatto fresco-sapido dell’assaggio.

– Cotes Catalanes IGP, Grenache Gris “Empreinte du Temps”, Domaine Ferrer Ribiere. Per me, la vera rivelazione di questa fiera. Una Grenache vinificata in stile Rancio, un naso dai sentori ossidati di grande appealing. Sorprende l’assaggio: non riporta le note ruffiane del naso ma dona grande senso di equilibrio e pulizia.

– Cotes du Roussillon Rouge, Tanawa 2017, Rousdellaro. L’affinamento in legno è presente ma ben integrato, dona una bella sensualità al naso. Divertente ed insolito.

– Crémant de Loire, 1500 blanc de blanc, Chateau de Plaisance. Una bollicina cremosa dalla bella persistenza.

– Concludo con Medoc 2015, Chateau de l’Aubier un Bordeaux che risulta meno impegnativo rispetto all’idea standard della denominazione ma di grande piacevolezza con le tipiche note fruttate e vegetali. Quasi un “entry level” di Bordeaux.

L’esercizio sui profumi, per chi ha la passione del vino, è fondamentale: la seconda tappa è quindi a Grasse, capitale mondiale del profumo. Qui vengono create le fragranze più ricercate al mondo, secondo una tradizione secolare. Grasse è una cittadina di salite, discese, scale e stradine strette tra casette colorate. Al laboratorio di Molinard mi perdo in decine di profumi naturali: fiori, spezie, pietre.

Due ore di esercizio per creare dei cassettini della memoria olfattiva: un bottino per le prossime degustazioni alla cieca.

Chiara EM Barlassina
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(continua…)

Ci vediamo a Vinissimo? 11 e 12 maggio 2019 a Biassono (MB)

Nel secondo fine settimana di maggio torna, per la seconda edizione, Vinissimo. La cornice sarà ancora il verde dei giardini di Villa Verri, a due passi da Monza.

Noi di Vinocondiviso ci saremo ed assaggeremo con curiosità le aziende espositrici ovvero produttori di vini biologici, biodinamici, naturali e vini PIWI da vitigni resistenti.

Vinissimo, 11-12 maggio 2019

Molti dei vigneron presenti sono poco conosciuti, ci aspettiamo di fare qualche bella scoperta!

La lista degli espositori la trovi qui: Produttori presenti a Vinissimo 2019

Durante il week-end di Vinissimo sarà possibile partecipare gratuitamente a degustazioni guidate, gite nella vigna didattica di Biassono e, su prenotazione, ai 2 incontri culturali nel nostro “Salotto del Vino”.

Sabato 11 Maggio: “Incontro sui Vitigni Resistenti” con la partecipazione dell’Azienda Nove Lune (BG) e della nostra Alessandra Gianelli.

Domenica 12 Maggio: “Incontro sul Vino Biologico” con la partecipazione dell‘Azienda Tocco d’Italy e di Pio Rossi della Scuola Agraria del Parco di Monza.

Il costo di ingresso è di soli 10 € ma 100 nostri lettori avranno uno sconto del 20%, di seguito tutti i dettagli per approfittarne:

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Ci vediamo a Vinissimo!

Due vini naturali a confronto

Oggi ti parlo di due vini del filone cosiddetto “naturale”, ovvero vini prodotti da vigneron che hanno un approccio non interventista in vigna ed in cantina.
Quindi vendemmie manuali, condotta della vigna con criteri biologici o biodinamici, rinuncia a pesticidi di sintesi, erbicidi o insetticidi.
In cantina si opta per fermentazioni spontanee senza aggiunta di lieviti o enzimi, senza il controllo delle temperature, rinunciando ad additivi e correttori, e limitando il più possibile l’utilizzo di solforosa, che comunque in imbottigliamento è consentita.
Insomma, il controllo (in tutte le sue forme) nella filosofia naturale è visto come un’azione che toglie autenticità – potremmo dire verità – al vino, che deve invece rispecchiare, costi quel che costi, il territorio ed il millesimo di provenienza.

I risultati?
A volte straordinari – possono definirsi naturali (prima che questo termine avesse il significato “politico” che assume oggi) – molti dei migliori vini del mondo.
Altrettanto spesso però i vini risultano poco aggraziati, spigolosi, l’olfatto può presentare note animali o la pungenza della volatile.
Al di là delle buone intenzioni insomma, come sempre, bisogna saper distinguere e valutare senza pregiudizi ma anche senza partigianeria.

Inizio a raccontarti di un vino della maison Ligas, azienda vitivinicola che si trova nel nord della Grecia, in Macedonia. Ligas è senz’altro uno dei riferimenti della filosofia di vino naturale in Grecia, dichiara di ispirasi
persino ai principi della permacultura di Fukuoka e della sua “agricoltura del non fare”.

Assyrtiko 2017 – Maison Ligas

Vino vinificato con macerazione sulle bucce in acciaio e poi affinato sia in acciaio sia in barrique usate (da Selosse). Nessuna aggiunta di solforosa.

Il vino si presenta giallo dorato luminoso e trasparente.
Primo naso sul leggero idrocarburo, a seguire alghe, scorza d’arancia, fiori bianchi e tanta macchia mediterranea. Poi ancora sensazione marine e di bergamotto.
Ingresso in bocca brusco, decisamente secco ma di una certa ampiezza. Lo sviluppo è piuttosto rapido con tannino percepibile e finale piuttosto alcolico e un po’ troppo amaro (erbe amare).

+ vino decisamente interessante al naso, con dei richiami marini e agrumati di grande finezza

– irruente in bocca, avrei preferito uno sviluppo meno rapido e più graduale. La chiusura è furiosamente sapida (plus) ma anche piuttosto amara

L’altro vino di cui ti parlo viene invece dalla Spagna, una Spagna “minore” dal punto di vista vitivinicolo, la regione della Mancia.
L’azienda si chiama Bruno Ruiz, 65 gli ettari di proprietà condotti in regime biodinamico. Parco vigne decisamente vecchio e dedicato a vitigni autoctoni come Tempranillo, Tinto Velasco e Airén.

Airén ‘Pampaneo Ecologico’ 2017 – Esencia Rural – Bruno Ruiz

Vino macerato 2 mesi in acciaio da viti ad alberello di oltre 100 anni.

Il colore del vino richiama l’ambra.
Olfatto spiazzante e complesso: agrumi, panpepato, erbe officinali, spezie…una girandola di profumi che si inseguono e cambiano di continuo.
Al palato è molto intenso, saporito, salato, con progressione entusiasmante fatta di leggerissima astringenza, noti dolci/amare, acidità vivacissima.
Chiude con ottima persistenza su ritorni di caramella al rabarbaro.

+ Vino complesso e divertente, da scoprire ad ogni sorso e da seguire in un crescendo di sorpresa.

+ Originale e spiazzante ma godibilissimo

Tipografia Alimentare: un nuovo posto a Milano dove farsi sorprendere da vini e cucina.

Tipografia Alimentare è il nome di un nuovo bistrot che ha aperto a Milano in zona Gorla. Approfittando di una pausa pranzo sono andato a curiosare e… non me ne sono pentito!

Tipografia Alimentare
Tipografia Alimentare

Un semplice e lineare arredamento retrò riadatta una vecchia tipografia facendola diventare un accogliente bistrot di stampo nordeuropeo. Il locale promette artigianalità e originalità sia nella proposta gastronomica sia nella scelta dei vini, prevalentemente naturali.

La sera la cucina è chiusa quindi ti consiglio, se vuoi gustare il menu della Tipografia, di organizzarti per il pranzo, ne vale la pena! La proposta è limitata ma molto interessante e fa ampio uso di verdure e spezie, ma non è certo un posto per soli vegetariani. Il menu è così suddiviso in 5 categorie: Insalata / Proteina / Verdura / Crostone del giorno / Dolci e Frutta.

Ho esitato a lungo, nella sezione Proteina, tra “Tartare di pecora, piselli, tarassaco, maionese” (12 €) e “Uovo cremoso, senape, luppolo, ortica, aglio orsino” (5 €), optando infine per quest’ultimo. Piatto goloso, con l’uovo che si accompagnava benissimo all’ortica. Molto interessante.

Ho poi scelto, dalla sezione Verdura, “Carote, sommacco”, lo vedi in foto: due carote di Polignano cotte al forno con il sommacco, una spezia ottenuta dai frutti di una pianta presente sia in Medio Oriente sia in sud Europa (in Italia in particolare nelle province di Trapani e Palermo). Il tutto sormontato da rondelle di carota e ancora da sommacco. Il gusto acidulo della spezia si sposa benissimo con la dolcezza della carota. Piatto sorprendente, un assoluto di carota che mi ha lasciato a bocca aperta: buonissimo!

Peraltro abbinamento perfetto con il vino che ho scelto, Attention Chenin Méchant 2016 – Nicolas Reau, uno chenin di grande personalità: agrumi e mare appoggiati su un leggero sottofondo mielato. Acidità succosa ma non aggressiva in bocca per un finale profondo, aggraziato e salatissimo.

#Enozioni2018: i migliori assaggi all’evento AIS Milano

#Enozioni2018 a Milano

L’AIS Milano inizia il 2018 con il passo giusto: #Enozioni2018. Si è trattato di un evento di ben tre giorni (26-27-28 gennaio 2018) interamente dedicato al vino. Tra cene di gala, premi, seminari e banchi di assaggio.

#Enozioni2018 a Milano
#Enozioni2018 a Milano

Ho partecipato ai due banchi di assaggio del 28 gennaio: uno dedicato ai vini naturali e l’altro ad un Giro d’Italia attraverso il vino con aziende agricole selezionate a cura dell’AIS.

Oggi ti racconterò solo dei vini che mi hanno colpito maggiormente nel corso dei banchi di assaggio per una volta non troppo affollati e che davano l’opportunità di un tranquillo dialogo tra degustatori e produttori.

Nella sezione dedicata ai vini naturali molti i bicchieri di interesse.

Rkatsiteli 2016 - Pheasant's Tears
Rkatsiteli 2016 – Pheasant’s Tears

 Il colpo di fulmine l’ho avuto per un vino georgiano. Si tratta del Rkatsiteli 2016 di Pheasant’s Tears: il vino fermenta e affina nelle anfore interrate tipiche della Georgia (Qvevri). E’ un vino che può spiazzare ma proprio per questo mi ha rapito. Il colore è dorato con riflessi color ambra, evidente lascito della lunghissima macerazione a grappoli interi. Il naso è molto complesso: mandorla amara e miele, si gioca con una lieve ossidazione mai prevaricante, poi fiori dolci e scorza di arancia. Al sorso il vino è decisamente tannico anche considerando che ci troviamo al cospetto di un orange wine. La morsa tannica non blocca però lo sviluppo, anzi dà sapore e sostiene una progressione dettata da acidità e sapidità. La chiusura è lunghissima su ritorni di radice di liquirizia.

Altro vino molto intrigante il Priorat Muscat 2014 di Terroir al Lìmit, un vino biodinamico spagnolo in cui le caratteristiche aromatiche del vitigno di partenza passano decisamente in secondo piano. I giallo oro del bicchiere offre al naso albicocca fresca, erbe aromatiche, uva passa e fiori appassiti. Il vino è ampio ed agile allo stesso tempo. La grande dinamica in bocca lascia sul cavo orale una scia salata, in vino risulta denso in sapore ma snello al sorso.

Per chiudere con i vini stranieri non può mancare lo Champagne g.c. Extra-Brut Shaman 13 – Marguet, un vino ottenuto da un blend di pinot noir (in prevalenza) e chardonnay che unisce complessità, droiture e personalità ad una facilità di beva disarmante.

Passando ai vini italiani mi ha colpito per la seconda volta di seguito (la prima volta era stato al Live Wine 2017, qui il resoconto) il Catarratto Saharay 2015 di Porta del Vento. Molto centrati e golosi anche i Dolceacqua 2016 di Maccario Dringenberg, in particolare il Luvaira, già in beva in questo momento, ed il Curli che invece risulta più compresso ma di grande prospettiva, ci scommetto!

Un plauso anche ai convincenti vini Marta Valpiani, in particolare al “Rosso” Romagna Sangiovese Superiore 2015 e al “Crete Azzurre” Romagna Sangiovese anch’esso 2015: vini floreali, “ciliegiosi” e sfaccettati, sapidi e dal tannino fitto e fine, con una complessità speziata in più a favore del Crete Azzurre.

Giornata ricca di assaggi interessanti a #Enozioni2018, non mancherò di certo alla prossima edizione ad inizio 2019 e naturalmente ti terrò informato dell’evento!