Il comune di San Casciano in Val di Pesa è l’avamposto settentrionale dell’areale del Chianti Classico. Ha visto la sua fortuna con Antinori, attraverso brand come Tignanello e ancora di più Solaia. Sebbene la storia vitivinicola di questa terra abbia radici antiche, in passato i viticoltori erano soprattutto conferitori di uve. Al giorno d’oggi, invece, si respira un’aria nuova, fatta di ricerca e aspirazione verso la migliore espressione di sangiovese, desideroso di affermarsi per quella che è la sua identità e la sua impronta nel territorio. Finalmente le aziende di qualità hanno la possibilità di affermarsi e di diventare rappresentative per il loro comune e la denominazione.
In questo contesto di romanticismo agronomico sorge l’azienda vinicola La Sala, che oltre alla distesa di ulivi e bosco possiede una trentina di ettari vitati dislocati tra le località Montefiridolfi e Sorripa.
Francesco Rossi Ferrini ha acquisito la proprietà nel 2014 e da subito ha intrapreso un percorso all’insegna del biologico e della sostenibilità, contando sul supporto di collaboratori giovani e affezionati a questo luogo.
Visitando la cantina e percorrendo la terra lungo i filari a Montefiridolfi, si percepisce la continua ricerca verso la perfezione. “Perfezione” non certo intesa come aggiustamenti e miglioramenti artificiali in cantina, ma come indagine sopraffina in campagna e in cantina, dialogo con la natura, aspirazione verso un’armonia e un equilibrio eccezionali.
All’assaggio diversi elementi fondamentali sono degni di nota. Il primo riguarda il Chianti Classico e la Riserva, poiché se oggi le mode vanno verso la sottigliezza, i colori trasparenti e le strutture esili e “pinotteggianti”, al contrario questi vini sono concentrati, composti da luci ed ombre, sono fatti di materia e per questo non risultano per nulla banali ed anzi piacevolmente gastronomici.
Il Campo all’Albero è un blend di merlot e cabernet sauvignon. Al naso privilegia la purezza del frutto, sia rosso che viola, seguito da sentori minerali e speziati, come la bacca di vaniglia.
In bocca è fresco, concentrato, il tannino fa sentire di più la sua presenza rispetto agli altri vini, anche per la giovane età di questa 2019.
Infine, il Chianti Classico Gran Selezione il Torriano, un vino che imprime nel calice l’impronta esatta del terroir, in un bouquet raffinatissimo dove si esalta la viola e fiori carnosi come la peonia, il tutto avviluppato da note minerali e di sottobosco, con un frutto rosso in sottofondo che invoglia all’assaggio. La trama tannica è fitta ma funge da sostegno al sorso, non è soverchiante. Il finale lungo, rinfrescante e sapido.
C’era una volta un pilota di aeroplani, che un bel giorno planò leggero su un luogo speciale.
Un posto chiamato Cerbaiona, a Montalcino, più precisamente sul versante nord-est, dove il galestro e la sabbia abbondano nel terreno e lo rendono perfetto per il sangiovese. È lì che Diego Molinari assieme alla moglie Nora crearono la loro azienda, coltivando dagli anni Settanta un appezzamento di appena 3,2 ettari, del quale 1,7 dedicato al Brunello.
Brunello di Montalcino 2008 – Cerbaiona
Con lo scorrere del tempo, e dopo aver mostrato al mondo la sua magia, Diego volò via da questa terra, ma prima di farlo vendette la sua amata Cerbaiona nel 2015 a un gruppo di investitori americani, affinché il frutto del suo lavoro continuasse a vivere anche dopo di lui.
Chi nella vita terrena ha fatto grandi cose, lascia ai posteri l’opportunità di farsi rivivere attraverso le proprie opere. E così, in una serata avvolta da un velo di dolce nostalgia, ho incontrato la magia creata da Diego Molinari negli anni in cui lavorava attivamente in vigna e in cantina.
Dopo aver tolto via la polvere dalla bottiglia di Brunello di Montalcino trovata in cantina, affondo il verme nel sughero, tiro su con decisione e delicatezza il tappo ancora perfettamente integro e verso il vino nel calice, lasciando effondere nell’aria i vapori di questa 2008.
Subito un caldo aroma di amarena matura, una nota ematica, un fiore carnoso. E poi il profumo di sottobosco, di cuoio, di resina di pino e tartufo nero.
La sensazione è quella di addentrarsi nella boscaglia una giornata autunnale, con il sole che penetra tra i rami.
Un vino nella sua piena maturità, ma allo stesso tempo vivace e desideroso di mostrarsi in tutta la sua bellezza.
L’assaggio comprova questa energia che al naso si cela appena dietro un certo candore autunnale e decadente: un’acidità prorompente si riversa in bocca ad ogni sorso con ampiezza e slancio, ritmato da un tannino raffinatissimo, che lo rende potente e aggraziato allo stesso tempo. Un vino raro, cupo e vitale, unico come l’occasione di berne una bottiglia, la manifestazione immortale di un gesto d’amore.
Sull’esempio dei grandi vini francesi, anche in Italia è nata recentemente la tendenza a classificare i vigneti cercando di esaltare le loro caratteristiche pedoclimatiche, in modo da comunicare al consumatore la singolarità di quel preciso appezzamento vitato e di conseguenza l’unicità dell’esperienza degustativa che ne deriva.
Questo trend è iniziato “recentemente” per modo di dire, visto che nella terra del Barolo le indicazioni di “Bussia” e “Rocche di Castiglione”, quelle che oggi definiamo Menzioni Geografiche Aggiuntive (MGA), comparivano già in etichetta nel 1961.
I terreni tufacei e ciottolosi di fronte al cratere dell’Amiata a Castelnuovo dell’Abate (Montalcino)
Dal momento che la suddivisione dei vigneti in Piemonte è cosa ben nota e che funziona benissimo in un rapporto trasparente col consumatore, oggi mi piacerebbe parlarvi della Toscana, dove effettivamente esiste da tempo l’idea di valorizzare il territorio sottolineando le sue peculiarità, anche se in realtà le soluzioni ipotizzate finora non sono state all’altezza di una comunicazione chiara, coerente e universale.
Innanzitutto, sarebbe molto più semplice far trasparire l’espressione del terroir se si utilizzasse un solo vitigno. Mi riferisco a quelle denominazioni famose per la loro vocazione alla produzione di sangiovese, spesso sedotte, però, dalla possibilità di aggiungere un ventaglio non troppo ristretto di varietà internazionali, ottenendo così un’alterazione delle qualità tipiche del vitigno in quel territorio.
Le terre rosse del Cerretalto (Montalcino)
Non è così semplice: seppure ultimamente sia aumentata una certa inclinazione al monovitigno, anche per semplificare il rapporto con il consumatore, in realtà la predilezione a vinificare e imbottigliare una varietà in purezza appartiene solo a una piccolissima parte della tradizione vitivinicola toscana. Pensate che fino a pochi anni fa il disciplinare non permetteva l’utilizzo del sangiovese al cento per cento né nel Chianti Classico né a Montepulciano, e le regole sono cambiate solo recentemente, tra il 1994 e il 1996.
L’opzione di assemblare diverse uve non nasce come scelta di marketing, o almeno non solo. È stata innanzitutto una necessità, sia per il fatto che il sangiovese non cresce bene ovunque, sia perché questo vitigno è a volte spigoloso, troppo acido, scarico di colore, quindi ha avuto bisogno di essere “aggiustato” con uve complementari. E così, col passare degli anni, questa consuetudine si è trasformata in tradizione: pensiamo a Carmignano e l’importanza del cabernet, o uva francesca, che viene unito al sangiovese da più di trecento anni.
Vista su La Conca d’Oro (Panzano in Chianti)
Oltre al dibattito sul giusto uvaggio, in Toscana l’obiettivo di una chiara valorizzazione della vigna è intralciato da un certo timore, provato da numerose aziende, che non vedono di buon’occhio un’eventuale classificazione di vigneti di rango superiore rispetto ad altri di rango inferiore, come avviene in Borgogna per i Grand Cru, i Premier Cru, i Villages e via discorrendo. Del resto, quale produttore di punto in bianco ammetterebbe mai che la vigna del vicino di casa è migliore della propria? Infine, questa pericolosa tendenza all’autoreferenzialità non riguarda solo la terra, ma anche la storia delle varie famiglie e aziende. Troppo spesso nella comunicazione, a partire dalle etichette per finire ai siti web, si cede alla tentazione di concentrarsi sulla storia della famiglia, trascurando l’importanza del territorio. Non dico che la storia non sia importante, ma ormai agli appassionati preme di più conoscere la vigna, piuttosto che sentirsi ripetere per filo e per segno il racconto di cosa sia successo ad ogni generazione che si è succeduta nella gestione aziendale. Io credo che oggi, a meno che non si parli di Barone Ricasoli, Biondi Santi e pochi altri, bisognerebbe fare in modo che la terra sia la protagonista, e che la storia sia un supporto sempre fondamentale, ma di sottofondo.
I fossili marini di epoca pliocenica di Vigna Bossona (Montepulciano)
Oggi più che mai è necessario rivelare al mondo che i vini toscani sono fondamentalmente vini di territorio e che l’eterogeneità è la vera bellezza della Toscana. Il consumatore di oggi è molto più preparato e consapevole rispetto a ieri, conosce già le differenze tra le aree vinicole più importanti, e adesso non aspetta altro che appagare la sua curiosità nella scoperta delle pittoresche sfumature di questi luoghi nel bicchiere.
Pensiamo all’areale di Radda nel Chianti Classico, alla sua altitudine, alla roccia calcarea del terreno e ai boschi circostanti che danno al sangiovese una freschezza e una bevibilità unica. O alla zona di Castelnuovo dell’Abate a Montalcino, a quella sua suadente nota sapida e agrumata unica al mondo. Pensiamo alla finezza e all’eleganza della collina di Montosoli, oppure all’energia e vitalità dei vini che provengono dai terreni sabbiosi e argillosi della zona di Cervognano a Montepulciano. Un discorso diverso andrebbe fatto magari per la zona di Bolgheri, dove la “maison” ha un appeal molto più impattante rispetto al terroir, proprio come a Bordeaux, ma anche qua troviamo elementi unici che varrebbe la pena raccontare, come l’ossido di ferro della vigna del Sassicaia e le argille blu del Masseto.
Esempi di una comunicazione chiara in etichetta
Esempi di una comunicazione chiara in etichetta
Questi sono solo degli esempi per sottolineare quanto sarebbe importante valorizzare i dettagli dello splendido e variegato patrimonio di cui disponiamo.
Se non ci sono ancora le condizioni per arrivare ad una vera e propria zonazione, anche se interessanti studi e tentativi in tal senso sono stati fatti, l’auspicio è quello che si vada nella direzione di una maggiore attenzione verso le sottozone – comuni dei più importanti territori toscani, sia in etichetta, ma anche più in generale nella comunicazione. Si coglierebbe infatti il duplice obiettivo di valorizzare la qualità e varietà del vino toscano e orientare l’evoluto consumatore moderno.
C’è un vino che durante queste festività si è imposto alla mia attenzione. Proprio così: si è imposto facendosi notare sgomitando tra le altre bottiglie e mettendole in secondo piano grazie alla sua vibrante luminosità e con la sua classe cristallina.
Si tratta del Rosso di Montepulciano di Poderi Sanguineto I e II, storica azienda di Montepulciano (Acquaviva) che nel millesimo 2018 ha prodotto un Rosso di Montepulciano veramente squisito. Il vino è ottenuto da sangiovese (prugnolo gentile) per l’80% con canaiolo nero e mammolo a completare il blend. Vinificazione tradizionale, con fermentazione spontanea e affinamento in botti grandi di Slavonia e Allier per circa 12 mesi.
Rosso di Montepulciano 2018 – Poderi Sanguineto I e II
Il vino si presente in una sfavillante veste rosso rubino.
Il naso è sorpreso dapprima da vividi profumi di frutta come ciliegia e ribes nero, poi si fa strada il bergamotto accompagnato da una freschissima viola. In sottofondo una nota accennata di rotella di liquirizia. Il tutto in una cornice di pulizia e precisione veramente encomiabile.
L’ingresso del vino nel cavo orale è caratterizzato da impeto di frutta ma senza alcuna mollezza, dinamica e progressione accompagnano il sorso che è fresco e succoso, ampio e profondo. Inutile dire che la bevibilità è una naturale conseguenza della composta piacevolezza del vino. Il tannino è presente con trama sottile, la chiusura è sapida e su piacevoli ritorni ferrosi. La mineralità si accentua nel bicchiere del giorno successivo.
Plus: questo Rosso di Montepulciano non è un piccolo Nobile, ma un vino completo e identitario fatto di eleganza e scorrevolezza, sapore e spessore.
Lo sapevate che il sangiovese è l’uva più diffusa in Italia e una delle uve più coltivate al mondo? Dal momento che esistono diversi tipi di sangiovese, stiamo parlando di tanti vitigni o di uno solo? Che cosa accomuna il sangiovese e il nerello mascalese (oltre al fatto che fanno rima, si intende)?
Oggi vi racconterò le origini misteriose di questo vitigno, che nel suo diffondersi si insediò in gran parte dello Stivale per poi approdare finalmente in Toscana, terrà in cui trovò la sua massima espressione.
Ho forse lasciato intendere che il sangiovese non abbia origini toscane? Beh, con ogni probabilità è così: numerose ricerche sostengono infatti che ebbe origine nell’Italia meridionale, grazie alla scoperta dell’eccezionale somiglianza genetica tra il sangiovese e certi vitigni del sud, come il gaglioppo in Calabria, o il frappato e il nerello mascalese in Sicilia.
La verità è che la storia del sangiovese è antichissima, addirittura millenaria e la sua dote più straordinaria sta proprio della sua predisposizione a mutare, ad adattarsi e a trasmettere al suo corredo genetico le varianti fenotipiche che ha acquisito (epigenetica). Inoltre, non va sottovalutato il lavoro dell’uomo, che ha coltivato e preservato queste differenze. L’epilogo di questo racconto darwiniano? Un patrimonio genetico che consente di parlare di un unico vitigno, e tantissime varianti, per l’esattezza 125 cloni che si esprimono diversamente a seconda del territorio di appartenenza, col quale hanno stabilito un rapporto così profondo da risultare inscindibile. Perciò, quando parliamo di sangiovese di Romagna, di prugnolo gentile o di morellino, pur avendo proprietà organolettiche ben distinte, ci riferiamo ad un’unica grande famiglia che possiede precise caratteristiche appartenenti a tutte le sue varianti.
Di seguito alcuni esempi fotografici di diversi cloni di sangiovese:
Un’uva dall’ottima vigoria, dotata di buone capacità di adattamento, tuttavia richiede condizioni pedoclimatiche precise per esprimersi al meglio, vale a dire terreni poveri e ben drenanti, una ventilazione costante e temperature elevate per la sua maturazione ottimale, essendo piuttosto tardiva. Ecco una delle ragioni per cui il sangiovese spesso viene tagliato con altre varietà, per comodità o tradizione: perché semplicemente non cresce bene proprio ovunque. Un altro motivo per il quale si fa ricorso a vitigni complementari è per ammorbidirlo, colorarlo, addolcirlo. Il sangiovese non è di certo un vino piacione, al contrario è dotato di un’ottima acidità e tannini fitti; gode di gradazioni zuccherine alte ed è povero di antociani, per questo non sarà mai particolarmente colorato, se vinificato in purezza.
masterclass sulle diverse espressioni di sangiovese – Collisioni a Barolo, luglio 2019
Ecco le peculiarità generali di quest’uva straordinaria, in grado nelle sue espressioni migliori di sfidare i decenni all’interno della sua bottiglia. Il compito dell’uomo ora è quella di proteggere questo preziosissimo bagaglio culturale attraverso una viticultura che non accetta compromessi e il rispetto per la tradizione, con il supporto di disciplinari chiari e severi e tramite una giusta comunicazione. Il primo passo per compiere questa missione gloriosa è comprendere che sussiste un patto tra il sangiovese e la terra che lo ha accolto. Non esiste il Brunello senza Montalcino, non esiste il Vino Nobile senza Montepulciano, non esiste il vino Chianti Classico senza il territorio del Chianti Classico. È la diversità la vera bellezza, la scintilla che ha scatenato infinite sfumature, portando alla luce l’estrema eterogeneità del territorio italiano: il nostro patrimonio, la nostra unicità.
E così, faticosamente e con prudenza, anche le degustazioni della piccola redazione di Vinocondiviso si riaffacciano alla ricerca di un’impossibile normalità. L’ultima degustazione pre-Covid19 è un ricordo indelebile: Beaujolais e fagiano.
Abbiamo deciso di ricominciare da tre vini, per un aperitivo lungo fatto di chiacchiere e riflessioni intorno al bicchiere. Aperitivo a base di stuzzichini vari, focaccia al formaggio e strudel di melanzane fatti in casa.
Ecco cosa abbiamo bevuto:
Asolo Prosecco Superiore Extra Brut Vecchie Uve 2016 – Bele Casel
In apertura abbiamo scelto un Asolo Prosecco del tutto fuori dal comune. Ottenuto da un vecchio vigneto nella zona di Monfumo, dalle pendenze proibitive e con uve dimenticate. Non solo glera dunque ma anche rabbiosa, marzemina bianca, perera, bianchetta trevigiana. Anche la vinificazione è fuori dall’ordinario: charmat lungo, un anno sulle fecce fini, un anno di autoclave e ancora un anno in bottiglia. Insomma, dimenticate i prosecco di 30 giorni in autoclave! Il naso è delicato ed elegante, si riconoscono la pera acerba, gli agrumi, la salvia ed un leggero tocco affumicato. Sorso verticale, non possente ma elettrico e vibrante grazie ad un’acidità citrina che percorre il palato e sgrassa la bocca invitando ad un nuovo assaggio.
Champagne Special Club 2002 – Pierre Gimonnet
Non tutti sanno che la menzione “Special Club” è esclusiva di un’associazione di circa 30 produttori, RM di champagne, che decidono, solo nelle migliori annate, di imbottigliare questa selezione tutti nella stessa bottiglia ma con la propria etichetta. Questo Special Club di Pierre Gimonnet lo stappiamo ad almeno 10 anni dalla sboccatura (purtroppo non riportata in etichetta). Il colore è un bel giallo dorato luminoso, il naso è decisamente ricco: frutta gialla, pasticceria, note lattiche, spezie. La bocca è equilibrata, l’acidità è ben integrata in una materia di tutto rispetto, il sorso resta agile e dalla chiusura piacevolmente salata. Champagne non certo da aperitivo, richiederebbe abbinamenti più arditi per dare il meglio di sé.
Chianti Classico 2017 – Tenuta di Carleone
100% sangiovese per questo vino, pura espressione di Radda in Chianti. Vino giovanissimo fin dal colore, rosso rubino luminoso con riflessi porpora. Naso di ciliegia, macchia mediterranea, agrumi e mineralità scura. Succoso e acido l’ingresso in bocca, si sviluppa bene sia in ampiezza che in profondità, il vino chiude lungo su una gustosa scia sapida. Vino mutevole e divertente, goloso e austero al tempo stesso. Ancora giovane, benché sia già estremamente godibile. Darà il meglio di sé tra qualche anno.
Ci auguriamo tutti che questo aperitivo sia solo l’inizio di future degustazioni da condividere!
La partecipazione al Vinitaly è sempre qualcosa di estremamente stimolante e coinvolgente. Difficilissimo farne però un riassunto e condensarne in poche righe il senso. Ho per questo deciso di limitarmi a fornire solo un parziale ma interessante punto di vista.
Vinitaly 2019: Young to Young
Tra i numerosi eventi e convegni che si sono tenuti presso Verona Fiere, Vinocondiviso ha partecipato a Young to Young, quello che voleva essere un momento di confronto tra giovani vignaioli e comunicatori del vino. Il tutto moderato Paolo Massobrio e Marco Gatti.
Ecco i vini degustati e qualche dettaglio sulle aziende produttrici presenti.
Chiara Condello si trova nelle colline di Predappio, tra i 150 e i 300 metri slm, ed è completamente dedita alla cura e vinificazione del Sangiovese. Il vino assaggiato è un’anteprima non ancora in commercio. Luminoso il rosso rubino, al naso un fruttato di ciliegia e mela rossa, poi minerale scuro e viola. Bocca molto intensa, succosa e concentrata, il sorso è però agile e di grande dinamica. Progressione in bocca senza soluzione di continuità con una chiusura sapida e calda, ma compostissima. Retrolfatto in cui torna la frutta rossa con un tocco piacevolmente astringete, un probabile ricordo della macerazione a grappolo intero di parte delle uve che danno origine a questo Sangiovese di Romagna fuori dal comune.
Buttafuoco dell’Oltrepo’ Pavese Storico “Vigna Costera” 2013 – Francesco Maggi
Francesco Maggi si trova a Canneto Pavese, Vigna Costera è un appezzamento di circa 2 ettari vitati con i vitigni tipici del Buttafuoco, ovvero croatina (in maggioranza), barbera, uva rara e vespolina. Le uve vengono vinificate contemporaneamente. Rosso rubino appena trasparente sull’unghia, al naso prugna sotto spirito e mora, poi catrame e rose appassite, in chiusura le spezie in formazione (cardamomo). Bocca ampia e intensa in ingresso, dolce di frutto, la progressione è dettata dal tannino della croatina che è perfettamente domato. Chiude su un retrolfatto di cioccolato fondente e frutta rossa.
Amarone della Valpolicella Classico 2015 – DolceVera
DolceVera è una giovane azienda di Negrar, sono 5 gli ettari vitati e, per ora, solo 10.000 bottiglie prodotte. L’Amarone in assaggio è di un rosso rubino compatto, naso etereo di frutta sotto spirito, alloro, mallo di noce, pepe…bocca di una grande morbidezza, è un rincorrersi degli aromi sentiti al naso ma anche caffè, cioccolata, spezie e amarena. La chiusura è calda e lunga ma per nulla stucchevole grazie ad una scia sapida che dona allungo e croccantezza.
Oggi ti racconto di una verticale che copre un intero decennio del vino simbolo di Giovanna Morganti (Podere le Boncie): Le Trame. In quel decennio Le Trame era ancora un Chianti Classico. A partire dall’annata 2011 – immagino per qualche polemica con il Consorzio e per prendere le distanze dalla maggior parte dei produttori della zona (come peraltro fatto anche da Montevertine) – il vino è uscito dalla DOCG in favore della semplice IGT.
Verticale Le Trame
A Castelnuovo Berardenga Giovanna Morganti cura in biologico i suoi 5 ettari di vigna piantata ad alberello su suolo sassoso e calcareo (sangiovese, colorino, mammolo e foglia tonda). Il non interventismo in vigna prosegue anche in cantina: la fermentazione spontanea avviene in tini aperti per circa 20 giorni e non viene utilizzata alcuna pompa meccanica (se non per i travasi), le uve sono follate a mano. L’affinamento prosegue per due anni in botti di rovere ed il vino non subisce alcuna filtrazione.
Preferisco non dilungarmi nella descrizione minuziosa di ciascuna annata degustata, mi limiterò a qualche cenno della annate più convincenti.
Mi sembra invece interessante, per una volta, partire dalla fine, ovvero dal fil rouge che ho ritrovato nei vini dei diversi millesimi.
Le Trame è un vino piuttosto scorbutico in gioventù, con tannini piuttosto fitti ed acidità pronunciata; un invecchiamento di una decina d’anni giova senz’altro al vino che acquisisce armonia e compiutezza. Si tratta però di un vino che non cerca alcun compromesso, non è aggiustato in alcun modo e, con carattere e personalità, riflette ed interpreta la singola annata. Vini molto diversi dunque eppure accomunati da un profilo olfattivo di frutta di rovo e fiori rossi, note ematiche e mineralità ferrosa, terra smossa e spezie. La bocca, come detto, ha un profilo succoso e acido, tannino ben presente ma polpa e sapidità non mancano mai.
I migliori vini sono risultati quelli delle annate 2004 (elegantissimo, succoso e soavemente floreale), 2007 (vino molto energico, verticale e con grande spalla acida, evolverà ancora per un bel po’) e 2008 (risolto, forse all’apice, ma che goduria!) seguiti dagli ottimi (ma quasi opposti come profilo) 2001 e 2002. Discreti il 2003 ed il 2010 (quest’ultimo potrebbe migliorare parecchio) mentre meno convincenti il 2005 ed il 2009 (entrambi piuttosto sgraziati). L’annata 2006 è stata inficiata da un tappo non perfetto, ahimè.
Eccoci al secondo produttore che ho visitato approfittando di una breve vacanza in Maremma. Se hai perso la prima puntata di questo resoconto la puoi trovare qui di seguito: Valdonica.
Casteani (Gavorrano)
Mario Pelosi, ingegnere e manager di lungo corso, recupera e ristruttura un’area in passato sfruttata da una società mineraria per i giacimenti di lignite e carbone presenti nel sottosuolo. Dal 2002, oltre a creare il wine resort, recupera circa 15 ettari di vigneto e oliveto. Casteani si presenta in questo modo come una “nuova” realtà vinicola della Maremma ma con una storia agricola che affonda le radici nel XIX secolo. I vitigni messi a dimora sono principalmente sangiovese e vermentino, oltre ad alicante, merlot, syrah e viognier.
Mi presento in azienda senza molto preavviso e ciò nonostante vengo accolto dalla giovane enologa che mi accompagna per una rapida ma appassionata visita.
Molto bella la cantina, su due piani: al piano inferiore la luminosa, spaziosa e pulita zona di vinificazione ed una più raccolta area dedicata all’affinamento. Noto subito accanto a botti e barrique anche qualche anfora di terracotta.
Casteani: cantina di affinamento
L’azienda, pur di piccole dimensioni, produce una gamma piuttosto ampia. Di seguito ti riporto i miei assaggi che, come di abitudine, mi ripropongo di approfondire ulteriormente con le bottiglie comprate in loco per una degustazione più attenta.
Monteregio di Massa Marittima “Sessanta” 2011 – Casteani
Vino Spumante Brut “Piccabòn” 2016 – Casteani
Vino spumante charmat ottenuto da uve vermentino, chiamato in toscana anche Piccabòn. Il vino è piacevole e sorprendente: naso molto fine di frutta bianca, agrumi, floreale elegante; la bollicine è sottile e carezzevole. Nel complesso il vino risulta dissetante e ben fatto, giocato sulla semplicità che però non scade mai nel banale.
Maremma Toscana Sangiovese “Spirito Libero” 2015 – Casteani
Spirito Libero è la linea di Casteani prodotta senza solfiti aggiunti. In etichetta sono riportati infatti i solfiti liberi e totali presenti naturalmente nel vino dopo la fermentazione (3 mg/l di anidride solforosa libera e 6 mg/l di totale). Il vino è ottenuto con un metodo brevettato, chiamato Purovino, che si avvale dell’utilizzo dell’ozono.
Il vino che ne risulta è ben fatto, stappato da qualche ora ma decisamente pimpante, tannino ben dosato e sapidità decisa.
Monteregio di Massa Marittima “Sessanta” 2011 – Casteani
Sangiovese ed alicante per questo vino profondo e austero. Il 50% della massa affina 12 mesi in barrique di secondo e terzo passaggio, la restante parte in acciaio. L’affinamento è ultimato da ulteriori 12 mesi in vetro. Il vino risulta fruttato con l’apporto del legno ben calibrato, senza alcuna concessione dolce/amara. La persistenza è molto buona grazie ad un tannino croccante ma fine.
Non sono riuscito invece ad assaggiare, ma ho provveduto ad acquistarne una bottiglia, l’interessante vino ottenuto da affinamento in anfora di terracotta, il Maremma Toscana Syrah “Marujo”…stai sintonizzato su Vinocondiviso, non dimenticherò di parlartene non appena avrò l’occasione di degustarlo!