Del mio eno-tour in Umbria la tappa che attendevo con maggior ansia era quella ad una nuovissima, piccola realtà che ha mosso i primi passi con la vendemmia 2018. Siamo ad una ventina di chilometri a sud-ovest di Perugia. Un progetto neonato che già scalpita per farsi notare nel mondo dei vini naturali. Questa buona dose di “sfrontatezza” mi piace.
La Cantina è Colbacco. Nasce dall’entusiasmo di 4 soci, personaggi che sembrano creati per un fumetto; diversissimi per fattezze, età e vissuto. Ad un primo colpo d’occhio potrebbero sembrare degli improvvisatori, ma ognuno porta con sé la sua solida esperienza nel mondo del vino. Sono ingranaggi incastrati perfettamente l’uno con l’altro: hanno fatto partire una macchina che sembra poter andare lontano. Il sogno che li unisce è l’amore per la loro terra e tradizione. Hanno cominciato nel più genuino dei modi: recuperando vecchie vigne abbandonate da incuria e crisi, piccoli fazzoletti di terra sparsi qua e là sulle colline adiacenti. In alcuni casi un blend di vitigni non identificati.
Ho pianificato la visita con Guido, uno dei soci, che mi ha accolta con grande entusiasmo ed ha coordinato l’incontro; sono le prime visite in cantina e desiderano essere tutti presenti.
Ci ritroviamo così intorno ad un grande tavolo di pietra, sotto un vecchio Leccio che lascia cadere in continuazione grappoli di fiori secchi. Questo tavolo diventa un palco dove finiamo per mettere in scena uno spettacolo teatrale tra la farsa e l’assurdo. Nessuno l’aveva pianificato ma tutti rivestono un ruolo fondamentale nel loro essere personaggi così apparentemente distanti.
Scendendo dall’auto, in lontananza, avevo visto i soci Colbacco rassettare la loro “sala degustazione”; cercando di ripulire foglie e fiori secchi con una scopa di fortuna. Queste attenzioni mi lusingano, ma sapessero quanto adoro questa essenzialità, non si preoccuperebbero dell’ordine e della pulizia. Questo contesto rende protagonista solo ed esclusivamente il vino e le loro storie: è perfetto.
Guido comincia il suo racconto partendo dal principio; dalla loro idea e da questo nome così curioso. Ma, quando ci si ritrova intorno ad un tavolo con un calice in mano, i discorsi prendo strade inaspettate ed i pensieri diventano pindarici. Metto insieme i pezzi del loro racconto sorso dopo sorso, tra racconti di cene goliardiche, suggerimenti di ristoranti e sbuffi di sigaretta che ogni tanto alcuni di loro accendono, avendo cura di allontanarsi dai calici.

Colbacco deriva dal carattere austero dei loro vini, non si piegano a nulla ed in alcuni casi sembrano ignorare le regole base della vinificazione scelte dall’enologo. Nascono così etichette come Quartoprotocollo, il merlot che “ha deciso lui come voleva essere”, scolpendo la sua indole già nei primi giorni di fermentazione. Poi Maracaibo, il cui nome discende dalla divertente e giocosa canzone che racconta anche una storia di ribellione. Questo vino, nell’idea originale, doveva essere la base di uno spumante, ma ha ignorato il loro volere e la seconda fermentazione non è mai partita. Infine Kalima, dea della guerra: mi pare di capire essere il loro figlio prediletto. Pur essendo il bianco, i soci fanno bramare la sua degustazione proponendolo per ultimo. Non sbagliano, il loro percorso di degustazione è un climax di sensazioni in cui Kalima è il gran finale, la chiusura da standing ovation.
Il nome è Colbacco anche per una foto, destinata a diventare l’icona della cantina: uno dei nostri personaggi che pota a febbraio con il buffo cappello in testa.
La scelta delle etichette e delle bottiglie, di grande originalità e dallo stile un po’ onirico, è studiata attentamente ed ha l’ambizione di descrivere il carattere dei vini, con la capacità di distinguersi sullo scaffale di un’enoteca.

Partiamo stappando Maracaibo, il colore è un rosato chiaretto quasi fosforescente quando colpito dalla luce. Un sangiovese in purezza dal naso molto ferroso, profumato di ribes e fragole. L’acidità è una lama gelata sulla lingua, riequilibrata dal calore alcolico che scende anche in gola. Rimane sul palato una sensazione di tensione metallica, chiude in persistenza con pepe e spezie.
Con i primi calici si comincia a tagliare un po’ di pane, pancetta e formaggio. Questi profumi richiamano intorno al tavolo la morbida cagnetta Malvasia; gira in tondo al tavolo zampettando con discrezione e delicatamente poggia il muso sulle nostre gambe con occhi languidi, sperando in un bocconcino.
Passiamo al rosso, Quartoprotocollo, merlot 100%. Il bouquet è molto erbaceo, verde con note di sedano, ossigenandosi offre note di cacao e ancora la nota ferrosa incontrata nel rosé. L’entrata in bocca è inizialmente morbida e ruffiana, subito sferzata dall’acidità importante. Il tannino è sottile ma ben presente. Un’espressione inusuale e curiosa di questo vitigno. Vi stupirete se vi dico che per alcune caratteristiche mi ha ricordato un Poulsard di Jura.
Si avvicendano al tavolo altri personaggi di questo buffa piece teatrale; arrivano mogli, padri. Ognuno è un pezzo della storia, un contributo vivo a questo nuovo progetto.
Prima di aprire il bianco, uno dei soci, il signor Kurtz, barba lunga e piccoli occhiali tondi calati sul naso, mi lancia uno spunto di riflessione interessante sui vini naturali. Un tema che mi appare molto complesso ma che fortemente vorrei approfondire. Se il concetto di terroir ingloba al suo interno, non solo il legame con il territorio ma anche con la cultura e la mano umana di chi lo produce, nei vini naturali l’espressione stilistica e le scelte enologiche sono ancora più impattanti. Per questo, in alcuni casi, riconoscere un vino naturale alla cieca è così complesso. Quindi, verticalità e sensazioni metalliche di questi vini sono figlie dell’indole di quattro soci/amici, più che della terra su cui nascono? Approfondirò.

Finalmente arriva Kalima prodotto con Trebbiano, Malvasia, Grechetto e… boh! Come anticipato, nelle vecchie vigne recuperate, non tutte le piante sono state identificate. Colore dorato carico, l’impatto al naso è aromatico, insieme a scorza di arancio, tiglio e un fondo minerale di magnesia. In bocca è ricco, rotondo grazie anche alla piena maturazione in pianta dell’uva che lo rende persistente anche su frutta gialla matura. L’acidità è sempre netta e ben integrata.
Facciamo un breve passaggio in cantina, piccola ma ordinata come una sala operatoria. Sul fondo sono accatastati i pochi cartoni che rimangono della piccola produzione del 2018. Ci salutiamo in modalità Colbacco Vini, con un bel selfie di gruppo.

Guido tiene molto a mostrarci le vigne e farci conoscere la micro realtà in cui vive, lo seguiamo in macchina mentre ci indica dal finestrino i loro piccoli appezzamenti. Ci accomiatiamo davanti al castello di Spina, una piccola fortezza ora destinata a residenze ed esercizi commerciali, tra cui una chicca: il bellissimo negozio di fiori della moglie Annalisa. Racchiude al suo interno un’antica e grande macina per le olive. Annalisa ci racconta le ambizioni di far crescere il suo progetto mentre è intenta a realizzare un bellissimo bouquet di freschi fiori di campo coi colori accoglienti dell’Umbria.

Sulla via del ritorno il paesaggio ci offre meravigliose colline vestite di girasoli e grano. Così, presi dall’entusiasmo “colbacchiano” accostiamo e ci concediamo una corsa in un campo di grano che sta per essere divorato da un tramonto di sfumature oro e turchese.
Chiara EM Barlassina
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