Henri Chauvet, il predestinato d’Auvergne

L’attributo “predestinato” – usato spesso a con una certa generosità dai giornalisti sportivi – mi è sempre sembrato ingiusto, scorretto, persino immorale. L’utilizzo che se ne fa in ambito giornalistico-sportivo, ad esempio, fa passare il messaggio che sia sufficiente il DNA, il talento, l’indole innata di cui l’atleta non ha alcun merito, a far diventare campioni. Ma è veramente così? Se persino il più grande atleta di tutti i tempi, il nuotatore americano Michael Phelps, si considerava “non il più forte, ma il più allenato”…ecco che il far credere che il talento basti a ottenere successo, nella vita come nello sport, è una grande menzogna (oltre che perfetto alibi per chi non ce la fa).

Mi smentisco subito però definendo “predestinato” Henri Chauvet, un ex manager del mondo bancario e assicurativo, degustatore appassionato, che abbandona la sua professione e nel 2021 (quindi pochi anni fa!), compra un domaine con vecchie vigne a Boudes, in Auvergne (un territorio non certo da Champions League del vino, per restare in ambito sportivo), ed in pochi anni ottiene attenzione, passaparola, corsa all’accaparramento dei sui vini (e relativi riflessi speculativi sul prezzo delle sue bottiglie), endorsement da parte di altri celebri vigneron come Allemand, Chave, Ganevat… come qualificarlo se non predestinato?

Il domaine attualmente possiede 13 ettari di vigna (spesso molto vecchia) di gamay, pinot noir, syrah, cabernet franc et chardonnay. L’impostazione è biodinamica e naturale (la certificazione bio è in arrivo in quanto l’azienda è in riconversione), vinificazione senza lieviti selezionati, ovviamente nessuna filtrazione e solfiti solo se strettamente necessario in fase di imbottigliamento. I vini che ne derivano tuttavia, a differenza dell’impostazione così intransigente, sono un mix perfetto di precisione, pulizia, espressività e gourmandise. Compreso il vino di cui parliamo oggi:

Côtes d’Auvergne Boudes Gamay 2022 – Henri Chauvet

Colore rosso rubino chiaro trasparente e dai bei riflessi porpora.
Olfatto intrigante di ribes, peonia e viola, argilla e una elegante affumicatura.
Appena versato il vino in bocca pizzica per un flebile residuo di anidride carbonica (leggo poi che l’uva fa 15 giorni di fermentazione a grappolo intero in contenitori inox, prima di passare in legno), dopo pochi secondi comunque la CO2 sparisce e lascia il posto ad un sorso gustoso e dinamico, il frutto è ben presente senza alcuna mollezza però, anzi lo sviluppo è supportato da un’acidità rinfrescante ed un tannino appena percepibile, materia e alcol (12%) sono contenuti, l’esito è una beva semplice e gourmande. La chiusura è su ritorni aciduli di ribes, fiori rossi e un tocco ravvivante di pepe. Persistenza delicata ma più che significativa.
Ha retto benissimo un arrosto di faraona ripieno.

Plus: vino naturale di ottima fattura e grande espressività, un gamay che però tende all’eleganza del pinot nero senza rinunciare alla sua indole glouglou.

Diego Mutarelli
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