C’era una volta un castello dove abitava un conte

Tranquilli, non racconteremo una favola in preda ai fumi dell’alcool: vi parleremo di una storia (di resistenza) e di una piccola realtà, Torre degli Alberi, nell’Oltrepò Pavese, specializzata nella produzione esclusivamente di metodo classico a base pinot nero.

L’azienda, condotta da Camillo Dal Verme insieme al figlio Filippo, 3,5 ettari di pinot nero in regime biologico si trova a Ruino, a 500 metri di altitudine; i vigneti sono i più alti dell’Oltrepò Pavese, ragione per cui, come detto, si è scelto di utilizzare le uve di pinot nero per spumanti con seconda rifermentazione in bottiglia.

Una simile altitudine inoltre fa sì che l’azienda sia l’ultima ad iniziare la vendemmia (solitamente due settimane dopo le aziende di prima collina) e che opti per la pratica della fermentazione malolattica, assolutamente atipica in Oltrepò Pavese, dove il problema è soprattutto mantenerla, l’acidità.

Abbiamo degustato, delle cinque etichette aziendali, il Torre degli Alberi Metodo Classico Brut, millesimo 2017, sboccatura giugno 2022, più di quattro anni sui lieviti, fermentazione solo in acciaio e, appunto malolattica svolta. Al naso la fanno da padrone classiche note di fragoline di bosco, crema pasticciera, pan brioche ma anche mentuccia e scorza di limone; al sorso troviamo cremosità e avvolgenza, ma anche una freschezza non scontata. Comprato all’evento FIVI dell’Oltrepò Pavese del 6 Maggio 2023 a € 17 si aggiudica a mani basse il titolo di vino “dall’ottimo rapporto qualità prezzo”.

Ma torniamo al titolo, perché, se non avete già smesso di leggere, vi starete chiedendo il nesso: la sede aziendale è proprio in un castello e i titolari sono proprio … dei nobili, i Conti Dal Verme. La famiglia è molto nota in provincia da oltre ottanta anni in quanto il padre di Camillo, Luchino, chiamato il conte Partigiano, si distinse per efficaci azioni di Resistenza a capo della Brigata “Antonio Gramsci” nella zona di Casteggio e poi di Milano; al termine del conflitto decise di restare al castello di Ruino, una delle sue residenze, senza entrare in politica. Sino all’età di 103 anni, non smise mai di farsi testimone della Resistenza e paladino della libertà; a chi gli chiedeva come fosse riuscito lui, nobile e cattolico, a virare verso una apparente direzione opposta rispondeva: “non ho mai saputo quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per tutti noi, per la libertà di ciascuno di noi”.

Luchino e il suo castello (Photocredit: Effigie Edizioni)

Brindiamo quindi a Luchino e tutti gli eroi e le eroine della Resistenza, oggi e non certo solo il 25 Aprile.

Alessandra Gianelli
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Saladini Pilastri: un pezzo di storia del territorio Piceno

Recentemente ho avuto il piacere di visitare l’Azienda Agricola Saladini Pilastri a Spinetoli, un piccolo paese della provincia di Ascoli Piceno, invitato gentilmente e guidato in maniera egregia dall’enologo Fabio Felicioni.
L’esperto winemaker ha esordito narrandomi la storia e le origini dei Conti Saladini Pilastri, una nobile famiglia ascolana che vanta più di mille anni di storia.

La fervente attività vitivinicola ha sempre contraddistinto la nobile famiglia con la nascita circa tre secoli fa dell’azienda agricola dei Conti Saladini Pilastri. Il  vino che si produceva veniva ceduto dai mezzadri ai Conti perché lo invecchiassero nelle botti di rovere di proprietà. L’attuale cantina fu costruita accanto alla vecchia in modo da accentrare tutta la produzione.

Dagli anni settanta, mi spiegava l’enologo, furono impiantati i nuovi vigneti che ho avuto la fortuna di visitare in loco testando anche la tipologia di terreno.

Poi successivamente vennero effettuati investimenti per migliorare le diverse fasi della lavorazione e produzione portando avanti l’idea di una coltivazione biologica di tutte le vigne attraverso l’utilizzo di prodotti naturali come zolfo e rame o con insetti utili. La scelta in vigna è stata quella delle basse rese per ottenere una qualità elevata del prodotto finale.

Di ritorno dalle vigne ci siamo addentrati all’interno della cantina dove antiche botti in cemento ancora in uso fanno compagnia a una bottaia con in bella mostra le barrique e le botti più grandi.

All’interno di una struttura adiacente alla cantina ho potuto degustare in compagnia del Sig.Felicioni alcuni dei vini aziendali, ovvero, l’Offida Passerina docg “Roccolo” 2022, l’Offida Pecorino docg “Comes” 2022 e il Rosso Piceno Superiore doc “Piediprato” 2020.

Passerina Offida docg “Roccolo” 2022. Esprime un colore giallo paglierino di grande luminosità e un elegante bouquet floreale e fruttato che richiama il territorio. Il finale leggermente sapido dona un’eleganza e una struttura al di fuori della norma.

Pecorino Offida docg “Comes” 2022. Un vino territoriale dai sentori tipici di erbe aromatiche come rosmarino e salvia impreziosito da un tocco di anice. Il frutto tropicale risulta evidente con un finale lungo e contraddistinto da una buona sapidità e mineralità. Ne risulta un vino molto equilibrato con tenore alcolico ben bilanciato dalla spalla acida e dalla sapidità.

Rosso Piceno Superiore doc “Piediprato” 2020. Un rosso dal colore brillante sintomo di un ottimo stato di salute del vino. Sentori di frutti a bacca rossa con un accenno speziato ed eleganti sentori terziari con in evidenza una ricercata nota di grafite (matita temperata). Un tannino giovane ma non troppo ruvido rende il vino molto accattivante e solo il tempo lo renderà meno esuberante e astringente lasciando spazio ad un versione ancora più raffinata, con un gusto più morbido e levigato.

La storia e un tocco di modernità fanno dell’azienda Agricola Saladini Pilastri un pilastro del territorio Piceno.

Walter Gaetani

Smaragd Riesling trocken Loibner 2019 – Weingut Knoll

Siamo senza dubbio in una della zone vinicole più belle del mondo, la Wachau, in Austria sulle rive del Danubio a ovest di Vienna, patrimonio Unesco. Qui vengono prodotti alcuni tra i più grandi bianchi a base riesling e grüner veltliner.

In questo splendido scenario ha sede la famiglia Knoll che, oltre a occuparsi della vigna, possiede anche il bellissimo ristorante Loibnerhof, sulle rive del fiume, andateci in estate e mangiate all’aperto in mezzo al meleto, indimenticabile!

I vini con la dicitura Smaragd sono un po’ i “gran cru” della zona, questo Riesling 2019 (etichetta splendida con raffigurato, come per tutte le bottiglie aziendali, Sant’Urbano patrono dei vignaioli) è ancora giovanissimo ma già splendido al naso con note freschissime di ananas, albicocca, roccia, mineralità bianca, lievi idrocarburi (lo zafferano uscirà tra qualche tempo), bocca di stupenda materia e “acida rotondità”… lasciatelo riposare ancora almeno un lustro un cantina.

L’ho abbinato nel corso di un’ottima cena triestina (Ristorante Menarosti, per chi passasse da quelle parti, locale storico in centro, consigliatissimo) ad un piatto di capesante e canestrelli al forno e ad una magnifica granseola, prosit!

Gregorio Mulazzani
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Due Arbois contro la gentrificazione dei vini del Jura

Il termine gentrificazione sta ad indicare la trasformazione di un quartiere popolare di una grande città in una zona abitativa di pregio e di moda. Il processo da una parte riqualifica la zona, e ha dunque connotazioni positive, dall’altra porta con sé anche delle conseguenze negative in quanto stravolge la composizione sociale del quartiere a causa dell’aumento repentino dei prezzi delle abitazioni.

La gentrificazione è purtroppo all’opera anche nel mondo del vino. Alcuni territori, fino a pochi anni fa poco considerati dal mercato, hanno subito in pochi lustri una “riscoperta” che ha portato i vini di queste regioni ad affrontare irragionevoli aumenti di prezzi. E così, l’appassionato che prima apprezzava questi vini ancora lontani dalle luci della ribalta, ora rischia di non poterseli più permettere. Il Jura sta senz’altro vivendo un processo di questo tipo. Fino ai primi anni del nuovo millennio i vini del Jura sono rimasti nell’ombra per moltissimi consumatori, lontani com’erano da quello che chiedeva il mercato in quella fase, ovvero vini rotondi, rassicuranti, enologicamente irreprensibili. Ad un certo punto i grandi buyer hanno invece iniziato a ricercare e proporre vini identitari, originali, spontanei, riconoscibili. La richiesta di quei vini – che prima in pochi volevano e cercavano – è schizzata alle stelle e di conseguenza, seguendo l’inesorabile legge di domanda e offerta, sono schizzate alle stelle anche le quotazioni. In Jura questo processo è in atto da qualche anno e alcuni produttori sono diventati improvvisamente oggetto di collezionismo e speculazione…qualche nome? Domaine Renaud Bruyère et Adeline Houillon, domaine Pierre Overnoy, domaine des Miroirs, domaine Ganevat, domaine Labet…

E’ bene precisare che tale dinamica non è “spinta” dai produttori, ma “tirata” dal mercato. Per non arrenderci a questo ineluttabile processo, negli ultimi giorni abbiamo assaggiato alcuni vini giurassiani lontani da riflettori e dunque ancora accessibili. Oggi ti parliamo di due dei vini che ci hanno colpito maggiormente, due Savagnin di Arbois.

Arbois Savagnin ouillé 2019 – Domaine de La Pinte

Il domaine de La Pinte si trova ad Arbois e dispone di 34 ettari di vigne la metà delle quali dedicate al savagnin (non mancano, in ordine decrescente di ettari vitati poulsard, chardonnay, trousseau e pinot noir). L’azienda opera in regime biologico ed è attualmente in conversione biodinamica. Il vino che ci troviamo nel bicchiere è 100% savagnin ouillé, quindi vinificato con le botti colme senza ricercare i sentori ossidativi tipici dei vini cosiddetti “typé” (vinificati in botti scolme) e del vin jaune. Frutta bianca, fiori di campo, nocciole, cerfoglio, a bicchiere fermo un ricordo di frutta esotica…sorso energico, potente e guizzante, un’acidità con i superpoteri tiene a bada i 15% di titolo alcolometrico. Persistenza infinita.

Arbois Savagnin ouillé “En Guille Bouton” 2021 – Domaine Grand

Il domaine Grand si prende cura di 11 ettari in regime biologico. Anche in questo caso stiamo degustando un savagnin ouillé. Il primo naso è prepotentemente minerale (calcare, roccia), poi si susseguono sentori delicati ed eleganti di frutta bianca, nocciole fresche, spezie in formazione. Sorso di grande dinamica, il vino risulta fresco e stratificato, per nulla rapido nello sviluppo, ma anzi articolato e profondo. Chiusura lunga e salatissima.

Diego Mutarelli
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Beaujolais “Madame Placard” 2019 – Yvon Métras

Abbiamo già parlato più volte di Beaujolais su queste pagine. Lo rifacciamo oggi dopo l’assaggio di un vino che ci ha molto colpito. Si tratta del Beaujolais Villages di un produttore artigiano fondamentale per la zona: parliamo di Yvon Métras che per primo seguì, negli anni ’80, il manipolo di produttori naturali innovatori – Jean Foillard, Marcel Lapierre, Jean-Paul Thévenet e Guy Breton – che si dedicarono a produrre vini di qualità in un territorio allora dedito prevalentemente ai vini novelli a base gamay (il celeberrimo beaujolais nouveau). Per un sintetico approfondimento sulla regione leggi questo nostro post.

Métras segue i suoi 5 ettari di vigna dando vita a poche e contese bottiglie di Beaujolais Villages e Beaujolais Cru (Moulin à Vent e Fleurie). Abbiamo assaggiato il vino che non ricade in alcun cru e che è chiamato “Madame Placard”, annata 2019. Si tratta di un vino vinificato in cemento con macerazione semi-carbonica a grappolo intero, senza solfiti aggiunti.

Beaujolais “Madame Placard” 2019 – Yvon Métras

Colore rubino chiaro con riflessi porpora, la velatura rende la veste ancor più accattivante.

L’olfatto, dopo una iniziale e brevissima riduzione, si apre su una macedonia di fragole, ribes e lamponi, poi una nota floreale molto fine (violetta) e quindi, da ultimo, un’intrigante arancia sanguinella.

Il sorso è fantastico per dinamicità, freschezza e scorrevolezza, il vino non è per nulla banale però, anzi l’acidità solletica il palato ed accompagna un tannino a grana finissima appena accennato. La chiusura è sapida e di buona lunghezza su ritorni di ribes e arancia.

Ha retto bene l’abbinamento con un arrosto di pollo ma, potendo, provatelo con un bel pollo ruspante alla diavola!

Diego Mutarelli
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Manzoni bianco: il connubio perfetto tra il riesling renano e il pinot bianco

Oggi parliamo del vitigno Manzoni bianco che nasce negli anni ‘30 del secolo scorso per opera del Prof. Luigi Manzoni, Preside della Scuola di Enologia di Conegliano Veneto, una tra le più antiche ed importanti scuole del vino nel mondo. In quegli anni le ricerche in viticoltura erano concentrate sull’individuazione di nuovi vitigni con l’obiettivo finale di trovare varietà più resistenti alle malattie.

Il Professore decise di intraprendere la via dell’impollinazione dedicando anni di ricerche a generare nuovi vitigni impollinando i fiori di un vitigno con quelli di un’altra varietà. Le sue riconosciute competenze di agronomo e le sue conoscenze genetiche lo portarono a generare un numero elevato di “incroci” quindi di nuovi vitigni: nascono nuove varietà che possiedono il patrimonio genetico delle piante da cui sono stati generati ma che sono a tutti gli effetti nuovi vitigni. Nel suo impianto sperimentale il Professore creò l’incrocio 6.0.13, conosciuto e chiamato semplicemente Manzoni bianco, ottenuto incrociando riesling renano e pinot bianco e dove la serie di numeri sta a indicare l’appezzamento, il filare e la vite “incrociata”.

In degustazione presentiamo il Manzoni Bianco IGT Marca Trevigiana “Le Conche” dell’azienda Salatin. Ai piedi del’altopiano del Cansiglio, un altopiano prealpino tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia, a cavallo tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone in una zona vocata alla vite già dal XV secolo, nasce questo vino nobile e raffinato che prende il suo nome da una particolare conformazione del terreno: Le Conche.

Dopo qualche ora di macerazione a freddo il mosto viene separato dalle bucce a mezzo di una pressatura soffice. Una piccola parte affina in barrique mentre il resto in acciaio con lunga lisi sulla feccia fine.

Alla vista si presenta di un colore giallo paglierino con riflessi leggermente dorati, il vino non è filtrato e quindi la leggera velatura che ti aspetti è ben visibile. All’olfatto è intenso e complesso, con note minerali, di panificazione e di frutta matura che fanno pensare all’albicocca, all’ananas e alla pesca gialla. In bocca ritroviamo l’intensità avvertita in fase olfattiva con un gusto avvolgente, sapido e con un finale lungo che richiama la frutta matura avvertita al naso. Si tratta di un vino di bella struttura, dal profumo delicato e intenso al tempo stesso, di discreta gradazione, dal gusto pieno, armonico, corposo, elegante e saporito.

Un vino in grado di accompagnare diversi piatti come minestre, risotti e zuppe e primi piatti a base di pesce. La sua struttura consente altresì l’abbinamento ai secondi piatti a base di carni bianche e pesce.

Però si può anche osare!

Propongo l’abbinamento con una pizza al formaggio “tipica ascolana” e salamino nostrano. Il vino in questo caso esalta la materia prima della pizza: il formaggio pecorino.

In chiusura si può affermare che il Manzoni bianco si difende molto bene tra due giganti della viticoltura della regione Veneto come la garganega, vitigno principale del Soave e la glera, vitigno del bel noto Prosecco.

Walter Gaetani

Tre vitigni e una pergola: 33/33/33 biodinamico campano da scoprire!

Oggi parliamo di un vino bianco decisamente originale, si tratta del 33/33/33, Campania IGT Bianco 2017 di Vallisassoli.

33/33/33 è un vino ottenuto da un unico vigneto di un ettaro allevato con il sistema di pergola avellinese, in cui convivono tre vitigni che in parti uguali – come suggerisce il nome del vino – confluiscono nel prodotto finale.

La scelta più spontanea è stata quella di vinificare insieme le tre varietà a bacca bianca simbolo della Campania, o meglio dell’avellinese: fiano, greco e coda di volpe.

Ci troviamo in Valle Caudina, in provincia di Avellino ma al confine con la provincia di Benevento, ed è qui che Paolo Clemente dedica tutte le sue energie a quella singola pergola di un ettaro piantata dal padre. L’azienda segue i dettami della biodinamica (certificazione Demeter). La fermentazione è spontanea, vinificazione in serbatoi di acciaio inox, nessuna chiarifica ma affinamento sulle fecce fini piuttosto prolungato. Poco più di 2.000 le bottiglie prodotte.

Il colore è un bel giallo oro antico. Il naso è molto intrigante, si susseguono macchia mediterranea, nocciola, castagna affumicata, nespola, il tutto accompagnato sullo sfondo da sentori marini di alghe/battigia.

In bocca il vino si muove agile, delicato, ma di grande personalità, i 13% di titolo alcolometrico sono perfettamente gestiti grazie ad una materia ricca ed equilibrata, in cui il lavorio delle fecce fini gioca un ruolo importante donando slancio e spessore al sorso. In chiusura la sapidità è molto netta (è il greco che gioca la sua parte) e i ritorni sono di frutta, roccia e mare.

Abbinamento territoriale azzeccato con una pasta, patate e provola affumicata.

Diego Mutarelli
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La potenza è nulla senza controllo: Cavariola 2015

Quando nel 1994 l’agenzia di comunicazione Young&Rubicam coniò lo slogan pubblicitario “La potenza è nulla senza controllo” non credo proprio immaginasse il successo di questo motto, diventato vero e proprio modo di dire.

Ho ripensato a quegli anni e mi è venuta in mente l’immagine, a suo modo innovativa e provocatoria, di Carl Lewis ai blocchetti di partenza sui tacchi a spillo, mentre degustavo l’Oltrepò Pavese Rosso Riserva Cavariola 2015 di Bruno Verdi.

Si tratta di un rosso fermo dell’Oltrepò ottenuto da un blend tipico del territorio, ovvero croatina (almeno 60%), barbera, ughetta di Canneto e uva rara. Cavariola è un vero e proprio cru, cioè una singola vigna dell’azienda Bruno Verdi con una pendenza media del 35% e conseguente disposizione dei filari a giropoggio. L’età delle viti è importante, con esemplari che superano agevolmente i 70 anni di età. In cantina il vino si ottiene con fermentazione spontanea in tonneaux, affinamento per 20 mesi in barrique e almeno 10 mesi in bottiglia.

Rosso rubino compatto con riflessi bluastri, fin dal colore appare giovanissimo. Olfatto ricco e variegato: confettura di more e mirtillo, cioccolatino Mon Chéri, cannella, chiodi di garofano, cuoio, sentori balsamici.

Bocca calda e morbida in ingresso, satura il palato di frutto scuro, cioccolato e spezie, il vino ha però ottima mobilità, con grip tannico presente accompagnato da una sorprendente freschezza. Si sviluppa senza strappi con un’ottima progressione che porta ad una chiusura lunga, rinfrescante e sapida.

Plus: vino vigoroso, alcolico (15,5%), potente eppure, come da incipit, “controllato”. La dinamica, l’energia e l’acidità supportano il sorso facilitandone la beva. Potrà evolvere molto favorevolmente, anzi consiglio chi lo avesse in cantina di attenderlo almeno un lustro.

Diego Mutarelli
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Qualche bella bottiglia assaggiata a Live Wine 2023

Sono ancora divertenti e didattiche le fiere del vino? I banchi di assaggio? I saloni enogastronomici?

La risposta è molto soggettiva naturalmente, e dipende anche dalla curva di esperienza che ciascun appassionato di vino sta attraversando. Quando si è alle prime armi ci si getta sugli eventi vinosi con entusiasmo bulimico, ci si esalta per la possibilità di assaggiare molte cose e conoscere i produttori e si corre volentieri il rischio di assaggiare tanto e capirci poco. Quando ci si fa più smaliziati ed esperti si tende a snobbare questi eventi per masterclass o degustazioni mirate. Da qui in poi le strade divergono: qualcuno inizia a bere solo per edonismo e si concentra su poche etichette dal “valore sicuro”, altri non rinunciano al piacere della scoperta, dell’incontro con nuovi produttori e tipologie di vino, sprezzanti del pericolo di imbattersi in vini poco interessanti, noiosi o imprecisi.

Dopo la mia visita al Live Wine 2023 di Milano, da quest’anno riservato ai soli operatori, la mia risposta alla domanda iniziale è dunque affermativa. Sì, alle fiere del vino si impara e ci si diverte ancora. A patto di lasciarsi coinvolgere, di essere capaci di accogliere la serendipità, la scoperta fortuita, che è pronta a sorprenderci tra i banchetti dei diversi produttori.

Di seguito ti racconto dei vini che mi hanno colpito di più, alcuni di questi di produttori che non avevo ancora mai provato.

L’azienda Agricola Caprera si trova in Abruzzo, tra il Parco Nazionale del Gran Sasso e quello della Maiella a 400 metri s.l.m, in questo territorio oltre alla vigna alleva e custodisce grano, ulivi, bosco. Tra i vini assaggiati di questa azienda due sono quelli che mi hanno particolarmente colpito. L’ottimo Cerasuolo d’Abruzzo “Sotto il Ceraso” 2020, ottenuto da una vigna di 90 anni, vendemmiato la prima metà di ottobre e affinato in acciaio e tonneaux, è fine ed elegante, un cerasuolo di montagna che però pinotteggia nel suo incedere fresco e nel frutto rosso vivace, il sorso è succoso, vibrante, lungo e gustoso su ritorni di ciliegia e sale. Sorprende per finezza e leggiadria anche il Montepulciano d’Abruzzo “Le Vasche” 2020, tipologia che spesso eccede in tratti muscolari e alcolici, e qui invece è fresco ed equilibrato, ma sapido e di grande persistenza.

Non conoscevo l’Azienda Agricola Antonio Ligabue che in Valcamonica produce vini naturali senza aggiunta alcuna di solforosa. Tra i vini assaggiati mi ha stupito il Vino Rosso “Minègo” 2007, una barbera ultracentenaria che ha maturato 31 mesi in botti di 500 litri, integrità sbalorditiva, per un vino dal frutto vivo, dal sorso profondo e dall’incedere aristocratico. Di interesse anche il Vino Bianco “BLE” 2021, da petite arvine, che si propone con accattivanti sentori di pesca gialla e delicato vegetale, per uno sviluppo fresco e dinamico.

Istinto Angileri è un’azienda agricola di Marsala che non avevo mai provato e che ha presentato una gamma di alto livello, nessun vino men che esemplare. Dal Terre Siciliane IGP “Principino” 2021, un grillo di grande carattere da una vigna affacciata sul mare che integra perfettamente il suo generoso tenore alcolico (14%) in una materia ricca e stratificata, all’affusolato zibibbo secco Terre Siciliane IGP “ZETA” 2021, per arrivare al salatissimo Rosato IGP Terre Siciliane “Ro.Sa.” 2021 ottenuto dall’originale vitigno autoctono parpato.

Altra azienda siciliana di interesse, seguita dal medesimo enologo di Istinto Angileri, è Nuzzella. L’Etna Rosso “Selmo” 2020 è ottenuto da nerello mascalese dal versante Nord-Est dell’Etna, di grande piacevolezza pur se dal profilo austero che si dipana tra frutta rossa, erbe di montagna e rimandi minerali, sorso con più fibra che polpa, ottimo sviluppo e chiusura minerale.

Per chiudere torniamo al nord, in Valle d’Aosta, con la Maison Maurice Cretaz, produttore biodinamico che presenta una “rocciosa”, floreale e sapida petite arvine, si tratta del “Lie Banques” 2021, in rosso stupisce il “BOS Monot” 2019, un nebbiolo di montagna che sa di melograno, ribes ed erbe aromatiche, dall’impatto gustativo piacevolmente “elettrico”, dal tannino croccante e saporito.

Ebbene sì, alle fiere del vino si possono ancora fare belle scoperte, purché si sposi la filosofia di quel tale che disse “preferisco avere una mente aperta alle novità che una mente chiusa dai dogmi.”

Diego Mutarelli
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La Cantina di Enza a salvaguardia del vitigno coda di volpe rosso

Oggi parliamo di Enza Saldutti, titolare dell’azienda La Cantina di Enza, e del suo vino “Volpe rossa” prodotto dal vitigno coda di volpe rosso, varietà a rischio estinzione in Irpinia che Enza protegge e difende dall’oblio continuando a vinificarla in purezza.

Ci troviamo nel comune di Montemarano che sorge nell’area della Valle del Calore. È un borgo di quasi 3.000 abitanti, situato a 820 metri sul livello del mare e a 25 km da Avellino. È una zona molto vocata per il maestoso vitigno aglianico che in queste terre ha trovato il suo terroir d’elezione riuscendo a offrire il meglio di sé e a sprigionare la sua potenza tannica.

È qui che Enza, donna determinata e decisa come il suo territorio, sta lavorando e portando avanti una passione che è soprattutto tanta fatica e lavoro in vigna. Il terreno infatti, situato ad una altitudine di 400 mt, è di natura argillosa e richiede molte ore di lavoro per un suolo unico e che ha spesso bisogno di cure e attenzioni particolari. Stiamo parlando di un vino biologico e naturale e, riportando la citazione di un lavoratore della terra di altri tempi di mia conoscenza, diviene vitale ascoltare e captare tutti i segnali che il terreno e il vigneto può mandarci: “la vigna non può parlare”…mi diceva sempre…”sei tu che devi capirla!”

Prima di passare alla degustazione un cenno al coda di volpe rosso, una varietà a rischio estinzione in Irpinia dove i vigneti sono in genere condotti nelle forme tradizionali a starseto (pergola avellinese) oppure, come nel caso in questione, con il sistema “vecchia raggiera”.

Coda di volpe, deriva dal latino “Cauda Vulpium”, per la caratteristica forma del grappolo lunga, affusolata e compatta che ricorda appunto la coda della volpe. Le viti sono a piede franco quindi non innestate ed hanno un’età media di 70 anni. La data di inizio vendemmia si colloca verso metà novembre e può protrarsi sino ai primi giorni di dicembre con una modalità manuale di raccolta delle uve in cassette. La macerazione sulle bucce dura 15-20 giorni e una particolare attenzione viene dedicata alla fase di estrazione poiché è ricca fenoli.

In degustazione presentiamo il Volpe Rossa 2014.

All’esame visivo si presenta di un colore rosso rubino intenso con riflessi aranciati. Al naso si avvertono note di frutti rossi, amarena e fragola ma anche di spezie e vaniglia con delle note di lavanda che impreziosiscono di un tocco floreale il bouquet. Al palato si può apprezzare un sorso caldo e avvolgente con una trama tannica di tutto rispetto e un’acidità che ben si bilancia con l’importante tenore alcolico.

La sosta in barrique di rovere francese (24 mesi) si indovina dal netto richiamo alle spezie in fase di assaggio, con evidenti note balsamiche e di macchia mediterranea con il mirto in evidenza. Il tannino è vibrante con un finale lungo di matrice speziata (chiodo di garofano).

L’esiguo numero di bottiglie prodotte, 250 circa, ci fanno pensare che questo nettare rappresenti non solo l’identità di una cantina e di un produttore ma la difesa di una memoria storica patrimonio di tutta l’Irpinia.

Complimenti ad Enza Saldutti!

Walter Gaetani