La vitovska ha trovato un nuovo grande interprete: Radovič

Abbiamo parlato di vitovska con una certa frequenza in questi ultimi anni. Si tratta infatti del vitigno a bacca bianca più nobile del Carso e che, a nostro avviso, incarna al meglio una certa visione del vino bianco contemporaneo. I migliori interpreti riescono infatti ad ottenere vini bianchi minerali e freschi, poco alcolici e dalla grande beva, senza rinunciare a dinamica e stratificazione. Il tutto in un terroir non certo semplice, il Carso ha un clima siccitoso in estate e rigido in inverno, le vigne si trovano su pendenze notevoli e su un suolo fatto di roccia calcarea e poca terra, la bora soffia senza sosta…ma si sa, spesso il vino buono nasce dai contesti più sfidanti.

Da qualche tempo tra i migliori vignaioli del Carso, ovvero Zidarich, Vodopivec, Skerk, Kante, Skerlj…sì è affacciato il giovane Peter Radovič, dell’Azienda Agricola Radovič. Per maggiori informazione sull’azienda ti invitiamo a leggere quanto avevamo riportato in questo post dello scorso anno; dedichiamoci invece al vino ottenuto da vitovska, il Marmor.

Vino Bianco “Marmor” 2021– Radovič

Si tratta di un vino ottenuto da 100% vitovska, macerata 7 giorni in tini di pietra carsica, fermentazione spontanea, 12 mesi di affinamento in legno usato, 2 mesi in acciaio inox prima dell’imbottigliamento. Dell’annata 2021 sono state prodotte solo 1.022 bottiglie di Marmor.

Giallo paglierino con riflessi dorati il colore. L’olfatto è un fantastico ossimoro nordico-mediterraneo: macchia mediterranea e roccia, pesca bianca e pietra focaia, un tocco di scorza di agrumi. Sorso dalla trama fitta e saporita, il liquido è caratterizzato da alcolicità contenuta (12,5%) ma materia gustosa, si distende grazie ad un’acidità ben presente e ravvivante, dinamica e allungo sono quelli di un grande vino. Chiude su ritorni di agrumi e note salmastre.

Plus: vino profondo, fresco ed elegante, dalla beva trascinante che nasce dalla mano di un vignaiolo di talento che rispetta ed esalta l’espressione della vitovska del Carso.

Diego Mutarelli
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Due vini francesi per l’estate

Di recente abbiamo avuto l’occasione di visitare Temp Enoteca, un’apertura abbastanza recente (ottobre 2022) che va ad affollare l’ormai ricchissima proposta di enoteche con mescita a Milano. L’offerta è impostata prevalentemente sui vini naturali con una scelta notevole di prodotti italiani e, soprattutto, francesi.

Ecco cosa abbiamo assaggiato in una calda serata estiva.

Bourgogne Aligoté 2022 – Sylvain Pataille

La Borgogna bianca significa chardonnay naturalmente, ma l’aligoté è un vitigno che per la sua più semplice gestione in vigna (maturazione precoce e resistenza al gelo) resta, nelle annate meno favorevoli, un’àncora di salvezza per i viticoltori. La considerazione di vino comprimario, rispetto a sua maestà chardonnay, spesso ha purtroppo ottenuto il risultato di produrre vini poco interessanti, lineari e semplici, diluiti e dalle acidità poco aggraziate. Da qualche tempo non è più così e sempre più interpreti stanno dando le giuste attenzioni a questo vitigno ottenendo risultati più che decorosi. È il caso di Sylvain Pataille che a Marsannay da due diverse parcelle ottiene questo vino dal bel colore paglierino con luminosi riflessi dorati. Olfatto di grande ampiezza con pera acerba, floreale bianco, un tocco di mineralità sulfurea, zenzero. Il sorso è ampio e di buon volume, per nulla diluito anzi fitto di sapore, l’acidità ben presente compensa adeguatamente la materia che è sorprendentemente serrata e ricca. Dinamica e sale non mancano al vino che si distende bene nella chiusura, che risulta lunga su ritorni di sale e agrumi.

Il vino fermenta spontaneamente senza aggiunta di solforosa e affina in acciaio e barrique esauste prima della messa in commercio.

Vin de France “Le Ruisseau” 2023 – L’Anglore

Ci spostiamo nel sud della Francia poco a nord di Avignone, a Tavel, denominazione celebre dedicata ai vini rosati a base di grenache. Qui Eric Pfifferling, ex apicoltore riconvertito al vino, dà vita a L’Anglore, domaine ben conosciuto dagli amanti dei vini naturali. Il vino che abbiamo nel calice è ottenuto dal vitigno mourvèdre.

Rosso rubino chiaro appena velato, naso caleidoscopico di arancia rossa, fragole, scorza di agrumi, peonia, rosmarino, liquirizia, olive verdi… Sorso agile ma saporito, di grande freschezza e ottima dinamica, lo sviluppo è stratificato e si distende senza soluzione di continuità, tannino poco percepibile se non in chiusura che è saporita, lunga e su ritorni di frutta rossa e grafite.

Vino di grande originalità che si muove spontaneo e con grande libertà di espressione ma senza alcuna “sgrammaticatura”. Molto intrigante.

Diego Mutarelli
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Henri Chauvet, il predestinato d’Auvergne

L’attributo “predestinato” – usato spesso a con una certa generosità dai giornalisti sportivi – mi è sempre sembrato ingiusto, scorretto, persino immorale. L’utilizzo che se ne fa in ambito giornalistico-sportivo, ad esempio, fa passare il messaggio che sia sufficiente il DNA, il talento, l’indole innata di cui l’atleta non ha alcun merito, a far diventare campioni. Ma è veramente così? Se persino il più grande atleta di tutti i tempi, il nuotatore americano Michael Phelps, si considerava “non il più forte, ma il più allenato”…ecco che il far credere che il talento basti a ottenere successo, nella vita come nello sport, è una grande menzogna (oltre che perfetto alibi per chi non ce la fa).

Mi smentisco subito però definendo “predestinato” Henri Chauvet, un ex manager del mondo bancario e assicurativo, degustatore appassionato, che abbandona la sua professione e nel 2021 (quindi pochi anni fa!), compra un domaine con vecchie vigne a Boudes, in Auvergne (un territorio non certo da Champions League del vino, per restare in ambito sportivo), ed in pochi anni ottiene attenzione, passaparola, corsa all’accaparramento dei sui vini (e relativi riflessi speculativi sul prezzo delle sue bottiglie), endorsement da parte di altri celebri vigneron come Allemand, Chave, Ganevat… come qualificarlo se non predestinato?

Il domaine attualmente possiede 13 ettari di vigna (spesso molto vecchia) di gamay, pinot noir, syrah, cabernet franc et chardonnay. L’impostazione è biodinamica e naturale (la certificazione bio è in arrivo in quanto l’azienda è in riconversione), vinificazione senza lieviti selezionati, ovviamente nessuna filtrazione e solfiti solo se strettamente necessario in fase di imbottigliamento. I vini che ne derivano tuttavia, a differenza dell’impostazione così intransigente, sono un mix perfetto di precisione, pulizia, espressività e gourmandise. Compreso il vino di cui parliamo oggi:

Côtes d’Auvergne Boudes Gamay 2022 – Henri Chauvet

Colore rosso rubino chiaro trasparente e dai bei riflessi porpora.
Olfatto intrigante di ribes, peonia e viola, argilla e una elegante affumicatura.
Appena versato il vino in bocca pizzica per un flebile residuo di anidride carbonica (leggo poi che l’uva fa 15 giorni di fermentazione a grappolo intero in contenitori inox, prima di passare in legno), dopo pochi secondi comunque la CO2 sparisce e lascia il posto ad un sorso gustoso e dinamico, il frutto è ben presente senza alcuna mollezza però, anzi lo sviluppo è supportato da un’acidità rinfrescante ed un tannino appena percepibile, materia e alcol (12%) sono contenuti, l’esito è una beva semplice e gourmande. La chiusura è su ritorni aciduli di ribes, fiori rossi e un tocco ravvivante di pepe. Persistenza delicata ma più che significativa.
Ha retto benissimo un arrosto di faraona ripieno.

Plus: vino naturale di ottima fattura e grande espressività, un gamay che però tende all’eleganza del pinot nero senza rinunciare alla sua indole glouglou.

Diego Mutarelli
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15 sfumature di chenin blanc

Lo chenin blanc è proprio un vitigno eccezionale. Grazie alla sua versatilità può dar vita a vini di tutte le tipologie: spumanti, bianchi secchi, semi-dolci, passiti e muffati. Culla di questo vitigno è la Valle della Loira (dove è chiamato anche pineau de la Loire), anche se ha trovato una seconda patria in Sud Africa ed è ben presente anche in Australia e Sud America.

Le sue caratteristiche di longevità, mineralità e capacità di interpretare le diverse sfaccettature del terroir in cui è allevato, lo candidano in qualche modo ad essere la risposta francese al riesling tedesco.

In questo post raccontiamo di una splendida degustazione organizzata da appassionati bevitori che hanno messo mano alle loro cantine portando ciascuno una bottiglia di chenin. Ne è venuta fuori una panoramica molto interessante sul vitigno, con un bel mix di produttori storici, emergenti e vere e proprie star.

Prima Batteria – le annate recenti
Vin de France L’Esprit Libre 2020Thomas Batardière
Vin de France Les Guinechiens 2018 – Benoit Courault
Saumur Les Moulins 2020 – Domaine Guiberteau
Savennières Roche Aux Moines 2020Domaine Aux Moines

Batteria molto intrigante e giusta introduzione allo chenin. Vini piuttosto diversi che danno conto delle due correnti stilistiche e interpretative del vitigno. Da una parte i vini che cercano di esaltare le caratteristiche di acidità e mineralità tipiche del vitigno (Batardière e Guiberteau), dall’altra interpretazioni che vanno alla ricerca di maggior maturità e frutto (Courault e Domaine Aux Moines). Vince la batteria Domaine Guiberteau con un vino estremamente elegante, che miscela sapientemente rimandi agrumati, vegetali e di roccia per un sorso elegante e sapido.

Seconda Batteria – la maturità
Anjou Les Faraunières 2017Domaine Andrée
Vin de France Les Fouchardes 2018 – Ferme de la Sansonnière
Savennières Clos de la Coulaine 2002Château Pierre-Bise
Coteaux du Loir Vieilles Vignes Eparses 2015 – Domaine De Bellivière

Château Pierre-Bise non in formissima, probabilmente è iniziata la sua fase di declino a oltre 20 anni dalla vendemmia, mentre Ferme de la Sansonnière paga una ricchezza di frutto eccessiva con morbidezze gliceriche ben presenti anche al sorso. Molto buono l’Anjou di Domaine Andrée agrumato ed elegante, con le spezie a fare da contrappunto ed una bocca se vogliamo semplice ma succosa. La spunta l’ottimo vino di Domaine De Bellivière dal naso mutevole di propoli, miele, uva passa e sbuffi balsamici e un sorso ricco ma composto grazie ad una fantastica spalla acido-sapida.

Intermezzo sudafricano
Chenin Blanc Secateurs 2022Badenhorst Family

Vino semplice e ben fatto. Il naso è sulla frutta fresca (albicocca, pera), in bocca il vino risulta snello, di buona dinamica, sapido e di ottima lunghezza.

Terza Batteria – i pesi massimi
Saumur La Charpentrie 2014Domaine du Collier
Saumur Clos de l’Échelier 2014 – Domaine des Roches Neuves (Thierry Germain)
Savennières Fidès 2014Eric Morgat
Jasnières Calligramme 2011Domaine De Bellivière

La batteria se la giocano i vini di Domaine des Roches Neuves e di Eric Morgat. Il primo ha un olfatto delicato e fine di frutta bianca ed un tocco che ricorda la foglia di menta, ma è al sorso che ingrana con una materia strepitosa, mobile, fresca e succosa. Eric Morgat non è da meno, il naso è molto più aperto e sa di roccia e mare, sale e frutta gialla, bocca dalla materia fitta e chiusura lunghissima.

Quarta Batteria – le Superstar
Vin de France Les Noëls de Montbenault 2015 – Richard Leroy
Vin de France Les Nourrissons 2016 – Stéphane Bernaudeau

Eccoli qui i due vini che tutti aspettavamo, vini le cui quotazioni purtroppo rispecchiano l’enorme richiesta da parte degli appassionati di mezzo mondo. Due vini che fortunatamente non hanno deluso le aspettative. Il naso di Leroy è un ricamo tanto è fine: fiori, agrumi, fieno, una spolverata di zucchero a velo, mineralità…la bocca è di grandissima freschezza agrumata, succosa, profonda, lunghissimo in chiusura ma senza alcuna forzatura, senza eccessi muscolari, “potenza senza peso” direbbe qualcuno. Les Nourrissons è un altro vino eccellente, anch’esso su note eleganti di frutta bianca, menta, cetriolo, sedano con di contro un sorso intenso e fitto, saturante ma con grazia, dalla chiusura sapida lunghissima.

Quinta Batteria – chiusura in dolcezza
Montlouis sur Loire Les Grillonnières 2017 – François Chidaine
Montlouis sur Loire Les Lys 2009 – François Chidaine

La gara in famiglia tra i due vini di Chidaine è vinta da Les Lys grazie ad un naso accattivante di panettone, mango, frutto della passione, canditi, scorza d’arancia, con sorso semidolce perché equilibrato da un’acidità rinfrescante e da un tocco salino in chiusura molto elegante. Meno interessante Les Grillonnières più sulla frutta secca ma con un’alcol non così integrato tanto da pregiudicarne la beva.

Diego Mutarelli
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Pommard a confronto: lo stile può rappresentare il terroir?

Sabato di buon’ora mi sono avventurata in macchina per dirigermi a est, superando gli argini del Secchia per spostarmi in terra romagnola. Oltrepassando con sicurezza le pianure dove nascono le bollicine emiliane, ad un tratto l’orizzonte ha iniziato ad assumere un profilo più allegro e tondeggiante nei pressi di Imola. Il sole accarezzava i colli disegnati davanti a me, e mi sono chiesta se fosse il paesaggio a rendere così spontaneamente solari i romagnoli o se fosse invece il contrario. 

Destinazione Brisighella, un nome che è impossibile pronunciare senza sorridere, dove Roberto Frega dell’importazione Sartoria del Vino aveva organizzato un pranzo/degustazione a tema Pommard. Roberto, professore universitario a Parigi, ha abbracciato con passione il mondo del vino importando vini di nicchia dalla Francia, convincendo numerosi appassionati a seguirlo. Aveva organizzato una degustazione alla cieca ispirandosi ai Grands Jours de Bourgogne, la fiera dedicata ai vini di Borgogna, che si svolge in diverse giornate con location dislocate in base al villaggio di appartenenza dei produttori. Roberto ha quindi pensato di mettere a confronto diverse espressioni di Pommard, comune tra Beaune e Volnay, nella Côte de Beaune, famoso per i suoi rossi energici, strutturati e sorprendentemente longevi.

Nella prima batteria abbiamo assaggiato tutte 2021 nella categoria “village”.

  • Maxime Dubuet-Boillot, Les Deux Terroirs 2021: un vino dal colore concentrato nonostante l’annata classica, con sentori di propoli, rosmarino, paté di oliva, non lunghissimo, con una nota amaricante sul finale.
  • Vincent Dancer, Les Perrières 2021: produttore in forte ascesa, che declina i suoi vini attraverso uno stile più contemporaneo. Come insegna Armando Castagno, le vigne che portano nomi che evocano la pietrosità sono generalmente qualitative, e anche in questo caso si trattava della vigna di fronte agli Epenots, a valle attraversando la D973. Ho apprezzato i sentori delicati di fragolina e violetta, e una bocca rinfrescante e vivace.
  • Domaine Chantal Lescure, Les Vignots 2021: un vino proveniente dalla zona più fresca e ventosa del comune, lungo il cono di deiezione della Combe de l’Avant-Dheune. marcata l’impronta di legno, riconoscibile attraverso sfumature di liquirizia e vaniglia, che ritroviamo anche in bocca, oltre a una nota ematica forse dovuta a un’annata non troppo aggraziata.
  • Vin Noe, Rève Americain 2021: un vino decisamente pop, non solo nel nome e nell’etichetta. Era molto intenso al naso e non limpidissimo di colore, con sentori di piccoli frutti rossi molto freschi, probabilmente dovuti a una vinificazione a grappolo intero, assieme a una nota che mi ha ricordato la terracotta.

In seguito a una breve pausa in giardino a bere Chenin Blanc e Sorbara, abbiamo proseguito con i premier cru.

  • Domaine Clos de la Chapelle, Les Grands Epenots 2022: ho sempre difficoltà ad analizzare i vini non ancora “pronti”, tuttavia nonostante la giovane età di questa bottiglia il vino si è manifestato con intensi sentori floreali e con una totale assenza di note terrose, ma al contrario evocava solo freschezza e soavità. Non a caso, si tratta di una delle vigne più vocate del comune.
  • Clos du Moulin Aux Moines, Les Pézeroilles 2019: climat sopra gli Epenots, considerato un Pommard atipico perché solitamente slanciato e femminile. Si è presentato con una marcata espressione fruttata e vegetale (rabarbaro).  La bocca era molto più interessante del naso, e si sviluppava come un’onda, increspandosi all’entrata in una sensazione voluminosa, per poi svanire in piccantezza.
  • La Pousse d’Or, Les Jarolières 2019: climat posto a sud, a confine con Volnay. Inizialmente austero si è dimostrato comunque intrigante naso, con sentori di ginger e arancia. L’entrata in bocca è morbida, per poi svilupparsi in sapidità.
  • Joseph Voillot, Clos Micault 2019: climat peculiare per la sua posizione, essendo l’unico Premier Cru del comune situato a valle della D974 che attraversa la Cote d’Or. Apprezzo molto questo produttore, tuttavia si sa che ad assaggiare alla cieca si rimane a volte stupiti, altre perplessi.
  • Jean Luc Joillot, Les Petits Epenots 2019: vino abbastanza ferroso e più dolce in bocca, caratteristica probabilmente dovuta al legno.
  • Alain Jeanniard, Les Sausilles 2012: vigna situata a nord, a confine con il bellissimo Clos des Mouches di Beaune. Iniziamo a intravedere il fantastico potere d’invecchiamento dei vini di Pommard. Vino sapido, al naso assomiglia a Les Jarolières, che è sorprendentemente al lato opposto del comune. In bocca non ho percepito tannino ma solo sale, che riempie il sorso in un allungo leggermente addolcito.

Infine, fuori programma, abbiamo assaggiato Cassagne et Vitailles, Les Homs 2021, un 100% grenache della regione del Coteaux du Languedoc. Al naso è fruttato, (fragolina, lampone, pepe), in bocca dopo tutti quei pinot ho ritrovato una nota alcolica che però non predominava sulla freschezza e giovinezza, sue peculiarità principali.

Questa degustazione mi ha insegnato che lo stile del produttore è nettamente più evidente nel calice rispetto al luogo di provenienza, anche se quando si degusta la Borgogna, ci aspettiamo che emergano più le sfumature del territorio rispetto a qualsiasi altro aspetto, che sia l’uva, l’annata, o le tecniche di conduzione del vigneto e le pratiche in cantina. E se con la Borgogna possiamo comunque entrare in crisi per individuare una linea coerente che ci faccia risalire al luogo di provenienza, figuriamoci se possiamo fare delle congetture territoriali per i vini provenienti da zone più ampie o che ammettono diversi vitigni. Eppure, concentrarsi solo sullo stile del produttore può risultare limitante, anche se questo è ciò che più influenza il carattere del vino. Ragionare sulle bottiglie degustate alla cieca ci spinge inevitabilmente a considerare il luogo d’origine, sebbene molto spesso l’espressione del calice non corrisponderà a ciò che abbiamo studiato. Forse il motivo è l’importanza della comprensione della storia della comunità che rappresenta quel luogo.

Credo che si possa apprezzare la territorialità di un vino solo se si considera la cultura di chi lo custodisce. Senza la volontà di indagare le origini e le evoluzioni della storia in un territorio, si rischierebbe di considerare il vino come un semplice mezzo edonistico, o un esercizio di stile, cosa che anche io faccio volentieri a volte. Tuttavia, se l’intento è quello di testimoniare una cultura, è necessario spingersi oltre, rischiando, e arricchendo la nostra comprensione con interrogativi che spesso rimangono un mistero.

Elena Zanasi
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Chinon “La Croix Boissée” 2014 – Bernard Baudry

Su questi schermi, qualche anno fa, abbiamo già parlato di Bernard Baudry, uno dei domaine più interessanti che insistono sulla denominazione Chinon AOC, in Loira.

L’occasione per riparlarne ce la fornisce il vino che abbiamo ora nel bicchiere, un ottimo Chinon, 100% cabernet franc, vino che abbiamo acquistato ormai 7 anni fa in occasione di una visita in azienda. Il vino è ottenuto dalla vigna chiamata La Croix Boissé esposta in pieno sud su un terreno in prevalenza calcareo. Come esemplificato dalla foto sottostante, la vinificazione per parcelle del domaine cerca di esaltare le differenze delle vigne di provenienza dei singoli vini. Lo Chinon La Croix Boissée 2014 è stato ottenuto da una fermentazione spontanea di 20 giorni in cemento, per poi affinare in barrique per 2 anni, e quindi ancora in cemento per 9 mesi, prima di sostare in bottiglia fino alla messa in commercio.

i vini e i terroirs chez Bernard Baudry
Photo Credit: bernardbaudry.com
Chinon “La Croix Boissée” 2014 – Bernard Baudry

Chinon “La Croix Boissée” 2014 – Bernard Baudry

Rosso rubino luminoso e integro il colore. Olfatto di fruttini rossi e neri maturi (cassis, more, lamponi), fiori appassiti, tabacco, e poi ancora note fresche quasi agrumate che fanno pensare al kumquat, quindi sottobosco e spezie….

Ad un naso così mobile ed articolato segue un sorso energico, di buon volume e intensità, che però risulta succoso, dalla beva semplice grazie ad una freschezza “dissetante”. Il tannino si percepisce in fin di bocca, fitto e saporito. La chiusura, su ritorni di fruttini rossi, è elegantissima e lunga.

Plus: un vino ricco e potente, certo, ma goloso e fresco. Durerà ancora a lungo, ma perché attendere oltre?

Diego Mutarelli
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Degustazione infrasettimanale con TCA in agguato

Il tricloroanisolo (TCA) è l’ospite più detestato da qualsiasi appassionato di vino. E’ lui infatti il famigerato responsabile dei sentori di tappo nel vino. Veicolo del difetto è il tappo di sughero che è stato attaccato dal fungo parassita Armillaria mellea. Quando capita non c’è nulla da fare, il vino ne risulta compromesso senza via di scampo e tocca bere altro (e lavare bene il bicchiere dove ha sostato il vino incriminato).

A parte questo imprevisto – che onestamente non capitava da un po’ quindi non possiamo lamentarci troppo – la degustazione che condividiamo oggi è stata divertente e interessante. Cinque amici, altrettante bottiglie e qualche bel piatto di Mesté, enoteca ristorante di Milano che ha la pazienza di sopportarci con una certa regolarità.

Ecco cosa abbiamo bevuto:

Champagne Tradition Brut – Erick Schreiber. Si tratta di uno Champagne della Côte des Bar, 100% pinot nero, prodotto seguendo i principi biologici e biodinamici. Il conferitore lo ha tenuto in cantina qualche anno e l’ulteriore affinamento in vetro post sboccatura ha fatto bene al vino che è risultato molto espressivo e variegato su note di lamponi e scorza di agrumi, fiori appassiti e mineralità. Gustoso e saporito, potente ma equilibrato da un’acidità ben presente e integrata alla perfezione. Champagne da tutto pasto di ottima fattura.

Friulano 2022 – Vignai da Duline. Abbiamo parlato a più riprese di Vignai Da Duline (ad esempio qui), azienda friulana molto affascinante. Vino bianco potente ma elegante, con un olfatto giocato sulla roccia spaccata, una vena elegantemente vegetale (ortica, fieno), polline, frutta gialla…il sorso è morbido in ingresso, piuttosto ampio e di volume con un grande allungo sapido in chiusura. In questo millesimo gli manca forse un guizzo di freschezza ma ricordiamo che è un vino che svolge naturalmente anche la fermentazione malolattica e gioca le sue carte migliori sull’ampiezza e la persistenza.

Margaux 2005 – Château Bel Air Marquis d’Aligre. Tappo. Ahimè, un peccato non aver potuto godere di un bel Bordeaux alla giusta maturazione … ma ci rifaremo.

Chora Rosso 2022 – L’Acino. La Società Agricola L’Acino è un piccolo produttore di vini naturali della provincia di Cosenza. Il vino che abbiamo nel bicchiere è 100% magliocco, fermenta e affina in acciaio. Il naso è intrigante su note di melograno e fragola, ma anche qualche pungenza eterea (smalto). Il sorso è rapido e succoso, l’acidità è piuttosto prorompente e la chiusura un po’ rigida e decisamente tannica. Vino funky non adatto ai degustatori più “reazionari” ma che potrà intrigare gli amanti del vino spontaneo e istintivo.

Chianti Classico Riserva “Borro del Diavolo” 1999 – Ormanni. Ormanni è una nota e storica azienda del Chianti Classico (Poggibonsi). Questo vino è ottenuto da un vigneto pietroso esposto a sud nei pressi di un piccolo ruscello, il Borro del Diavolo appunto. Il vino che abbiamo nel calice è strepitoso fin dal colore perfettamente integro, l’olfatto è un luna park di sensazioni più dolci, come amarena e violetta candita, inseguite da note più evolute di terra, corteccia e cacao, ma anche alloro, arancia, dattero… Il liquido accarezza il palato, la materia fruttata lo pervade delicatamente, senza eccessi alcolici o sbavature, la freschezza accompagna il sorso che è sostenuto da un tannino risolto e quasi cremoso, lunghissima la scia sapida in chiusura. Eccellente.

Diego Mutarelli
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Un Fiano di Avellino…principesco!

Il fiano è, senza ombra di dubbio, uno dei grandi vitigni a bacca bianca del nostro Paese. E Lapio, in provincia di Avellino, uno dei territori in cui esprime al meglio le proprie potenzialità. Qui si trova Rocca del Principe, un’azienda agricola che da decenni si dedica al fiano, dapprima come conferitore a realtà più grandi (in primis Mastroberardino) ed poi, dal 2004, come produttore autonomo ed indipendente. L’azienda, guidata da Ettore Zarrella e Aurelia Fabrizio, dispone di 6 ettari di fiano e 1,5 ettari di aglianico.

Abbiamo assaggiato il Fiano di Avellino Tognano 2018. La vigna da cui è ottenuto il vino si trova in Contrada Tognano, intorno ai 550 metri di altitudine e con esposizione est, ed è considerata un vero e proprio grand cru della denominazione Fiano di Avellino. Le uve sono vendemmiate a fine settembre/inizio ottobre, fermentano e affinano a lungo in acciaio, sulle fecce fini, prima di riposare in vetro per minimo 12 mesi. La scelta aziendale è quella di mettere in commercio il vino con un anno di ritardo rispetto a quanto consentirebbe il disciplinare. Scelta che valorizza le notevoli capacità di evoluzione e longevità del vitigno.

Nel bicchiere abbiamo un vino giallo paglierino screziato da luminosi riflessi verde-oro. L’olfatto è complesso e articolato, di grande eleganza: è la magia dovuta alla permanenza sulle fecce del vino e alla lunga evoluzione in bottiglia (in questo caso beviamo il vino a quasi 6 anni dalla vendemmia). Agrumi, nespola, fieno, ma anche mandorla fresca, iodio, note vegetali di mentuccia e macchia mediterranea delineano un quadro aromatico che potrebbe far pensare a Chablis o alla Mosella… e invece siamo da tutt’altra parte ma in un territorio che non è certo da meno!

Sorso di grande freschezza e dinamica, il profilo “nordico” avvertito al naso lo ritroviamo anche in bocca, con un frutto limitato alla parte agrumata ed una tessitura innervata di acidità rinfrescante e saporita mineralità. La chiusura è di grande pulizia e persistenza.

Un grande vino che in questa fase appare ancora “giovane”, tra qualche anno potrebbe spiccare il volo e regalarci un vino di caratura mondiale, davvero principesco. L’ultima bottiglia di questa annata che riposa in cantina ci dirà se la profezia si avvererà!

Diego Mutarelli
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Verticale di Barolo 1995 – 2004: stappando il decennio del rinnovamento

I luoghi nascosti riservano sempre le sorprese migliori. Prendi un ristorante nella bassa modenese, ad esempio, specialmente se si trova a Finale Emilia, dove già il nome suggerisce un’idea di remoto, perso nella pianura a nord della città, a pochi passi dalla riva del Po.

La Trattoria Entrà è in realtà una locanda molto frequentata dagli amanti del vino e della buona cucina, dove il sapore di gnocco fritto e i profumi del ragù accompagnano con convivialità certe degustazioni epiche. Nelle migliori osterie il vino abbandona per un attimo la sua sacralità e torna ad essere cosa umana: non servono diplomi o attestati per poterne parlare, ma semplicemente la giusta apertura mentale per fare caso a tutte le sensazioni olfattive, tattili ed emozionali derivate dalla più sublime delle bevande.

Un giovedì di rientro da Vinitaly mi sono diretta da Antonio alla Trattoria Entrà per partecipare ad una speciale degustazione di Barolo preparata dal nostro amico Roberto. Una verticale dal 1995 al 2004, con l’unica eccezione per la 2002, ovvero una delle annate più sfortunate in Langa nel nuovo millennio. Abbiamo comunque assaggiato un vino nato in questa annata: tra poco vi svelerò quale e garantisco che non deluderà le alte aspettative.

Gli anni ’90 in Langa hanno scritto la storia di una rivoluzione. Era il periodo dei Barolo Boys, un gruppo di giovani vignaioli desiderosi di un riscatto rispetto alle generazioni precedenti troppo ancorate alle usanze e al detto “abbiamo sempre fatto così”. Dall’altro lato, invece, i fedelissimi alla tradizione non hanno vacillato davanti al successo delle barrique e del vino pronto subito, ma hanno continuato impavidi e fiduciosi a essere fedeli a loro stessi e alle botti grandi.

Non potevo perdere l’opportunità di fare un viaggio nello spazio, tra le dolci e ordinate colline della Langa, e nel tempo, ritornando al passato ad assaporare quel periodo di fermento. Con mia grande sorpresa ben presto ho capito che tra i 15 commensali solamente 3 facevano parte del settore, tutti gli altri erano appassionati italiani, disposti a pagare una discreta quota per farsi guidare in un’esperienza di gusto unica. Sono molto contenta di questo segnale, che confuta chi dice che il vino circola solo nelle tavole degli addetti ai lavori. Penso, infatti, che l’unico modo per salvare la crisi del vino sia riuscire a coinvolgere più persone in questa stupefacente passione.

La lista dei vini era stata fornita in precedenza, ma le bottiglie sono state servite alla cieca, in batterie di tre calici alla volta, in modo da metterci alla prova facendo una degustazione libera da pregiudizi.

Appena seduti ci hanno dato il benvenuto con salumi emiliani, schiacciata al forno e lo Champagne blanc de blancs 2002 di Pol Roger. A differenza del Barolo, questa annata in Champagne è stata preludio di imprese eccezionali e immense soddisfazioni. Il naso, sorprendente giovane e oltremodo complesso, conferma l’innegabile potenzialità d’invecchiamento dello chardonnay. I terziari sono appena accennati in un sorso dinamico e persistente, accompagnato da un corredo aromatico raffinato, ricco di fiori bianchi e frutta secca, assieme a un leggerissimo ricordo ossidativo. Infine la bolla elegante e intensa non lascia traccia di alcuna grassezza.

Elencherò i Baroli non seguendo la successione di servizio, ma in ordine cronologico dal più giovane al più vecchio, in modo da fornire una migliore idea del percorso storico.

Cappellano, Barolo Gabutti Piè Rupestris 2004. Intenso sia di colore, sia al naso, questo rinomato cru di Serralunga è un’esplosione di profumi, dalla ciliegia alla liquirizia, dal tartufo al lampone, dal goudron al bergamotto. Questo cru è situato a Serralunga, la cui conformazione fisica che si sviluppa su un crinale stretto e lungo, lo rende poco esposto ai venti freddi del nord. Il microclima è tendenzialmente caldo, tuttavia il suolo calcareo regala vini di una straordinaria freschezza. La bocca è infatti vibrante, con un tannino potente e scrupolosamente integrato. Il finale rilascia un retrogusto balsamico, un rimando di caffè e cioccolato bianco. Una grande eredità di Teobaldo Cappellano, babbo di Augusto, che oggi conduce l’azienda seguendo la stessa filosofia irriverente e caparbia. Vino indimenticabile.

Giuseppe Mascarello, Barolo Monprivato 2003.  Il vino più rappresentativo dell’azienda, situata a Castiglione Falletto, il cui suolo è anch’esso ricco di calcare attivo e marne limoso-argillose. Presenta il suo classico colore scarico e a una prima olfazione si riconoscono sentori di nocciola e sottobosco. All’assaggio prevale una certa dolcezza data dalla vaniglia, il tabacco biondo, e un’assenza totale di tannino intenerisce il sorso. L’annata non è molto fortunata e mi aspettavo un vino al tramonto del suo stadio evolutivo, invece ritroviamo nel bicchiere una certa vivacità, seppure un pelo troppo morbido e corto per i miei gusti.

Comm. G.B. Burlotto, Barolo Monvigliero 2001. Colore lieve e granato, che anticipa la degustazione di un vino evoluto. Al naso predominano i terziari, accompagnati dalla rosa. Dopo diversi minuti nel bicchiere si sprigiona una nota di pepe bianco che ritrovo spesso non solo in questo cru, ma nel comune di Verduno in generale, basti pensare al suo vitigno tipico, il pelaverga, il cui sentore principale è proprio il pepe bianco. In bocca il vino rimane fresco, con un tannino finale soavemente incalzante.

Giacomo Conterno Barolo Cascina Francia 2000. Primo cru di proprietà della famiglia, situato a Serralunga, e questa annata a Barolo è stata significativamente acclamata dalla critica, avendo ricevuto 100 punti da Wine Spectator.  Il vino fu realizzato ancora sotto la supervisione del babbo di Roberto, Giovanni, e rivela sentori al naso molto intriganti, intensi e variegati, che rimandano al tepore di un’annata calorosa: dall’arancia sanguinella al timo, addirittura note di frutta esotica come il mango o l’anguria, la gomma lacca, e infine un rimando leggermente vegetale. Nel suo ampissimo spettro olfattivo, manca solamente un rimando floreale. Il sorso è molto più rigoroso, rivelando con fierezza la struttura aggraziata e decisa dei grandi vini piemontesi, accompagnata dall’acidità che ne garantisce il dinamismo in bocca.

Bartolo Mascarello, Barolo 1999. Così come amava autodefinirsi, “tradizionalista nel vino e progressista in politica” (basti pensare alle iconiche etichette dell’annata precedente, che recitavano “no barrique – no Berlusconi”), il Barolo di Bartolo racchiude l’essenza di diversi cru: a Barolo due parcelle a Cannubi (Cannubi e Cannubi San Lorenzo) e Ruè, mentre Rocche dell’Annunziata a La Morra, e a Monforte Monrobiolo di Bussia. Il naso è costellato da spezie fresche, come il rosmarino, la maggiorana, l’alloro e l’anice stellato. In bocca si esprime con una finezza dovuta alla maestria dei migliori artigiani, il vino più elegante della degustazione e, per me, il migliore della serata. È fresco ma senza un’acidità troppo affilata, è ampio ma senza dimostrarsi pesante. È la dimostrazione che nel vino la grazia combacia con la misura.

Rocche dei Manzoni: Barolo Bussia Pianpolvere Riserva 1998. Un’annata importante, non solo dal punto di vista qualitativo, ma fu l’anno in cui Valentino Migliorini acquistò l’azienda Pianpolvere Soprano, una sottozona del prestigioso cru Bussia, a Monforte d’Alba. Il vino rispecchia uno stile decisamente moderno. Ciò non significa che il vino sia eccessivamente morbido, anzi, il tannino è ben presente e il sorso non è così voluminoso. È concentrato, con un naso evoluto che rilascia un sentore di caramello. Non è dotato di una lunghezza infinita ma la freschezza non manca e gli conferisce vitalità.

Ceretto, Barolo Bricco Rocche 1997. Un vino che è stato creato nel periodo di un cambio generazionale, dai fratelli Bruno e Marcello Ceretto ai loro figli: Lisa, Alessandro, Roberta e Federico. Quello dei Ceretto è un nome che è sinonimo di innovazione, basta ammirare il design della cantina a Castiglione Falletto, ai lati del cru in assaggio quella sera, oppure ai colori sgargianti della Cappella del Barolo, all’interno del cru Brunate, a La Morra: entrambi sono luoghi di pellegrinaggio per chi vuole assaporare l’energia positiva apportata da quegli anni rivoluzionari. Un nome che più piemontese di così non si può: “bricco” significa cima della collina, mentre “rocche” fa riferimento al risultato di un fenomeno geologico di erosione. Si tratta anche della più piccola MGA del disciplinare, estesa circa un ettaro. Il vino è intenso, balsamico, speziato: in una parola, moderno. Regala una grande freschezza in entrata, per poi lasciare lo spazio all’astringenza del tannino e terminare con una nuova freschezza finale.

Bruno Giacosa, Barolo Villero 1996. Cru adiacente a Bricco Rocche, di cui abbiamo appena parlato, eppure totalmente diverso nel bicchiere. Merito del genio di Bruno Giacosa, uno degli interpreti più raffinati di queste terre. L’etichetta ritrae la cantina fondata a Neive nel 1900, ed è proprio al Barbaresco che riporta il nostro cuore ogni volta che si parla di lui. Le bottiglie di Giacosa etichettate “Barolo” sono sicuramente molto prestigiose, e sono convinta che la loro particolare raffinatezza, così eterea e soave senza rinunciare alla sua consistenza, sia dovuta al fatto che a crearla sia stato un profondo estimatore di Barbaresco. Forse è per questa somiglianza che l’ho tanto apprezzato: il colore è chiaro e brillante, sembra molto più giovane dei suoi 28 anni. Carnoso nei profumi di peonia e amarena, il naso è esuberante e complesso, rivela note di muschio e sottobosco. La bocca invece è più agrumata, dal sapore di arancia sanguinella. Il tannino possiede una finezza rara, il sorso persiste a lungo. Il vino più elegante della serata.

Roberto Voerzio, Barolo la Serra 1995. Ero curiosissima di assaggiare il vino di questo Barolo Boy, nell’anno successivo al grande debutto in America del leggendario gruppo di giovani vignaioli irriverenti, grazie all’importatore Marc de Grazia, stabilendo uno stacco definitivo con la tradizione e le usanze delle generazioni precedenti, alla conquista del mondo attraverso il vino di qualità. Purtroppo, sono stata esaudita solo a metà perché, quando il vino mostra anche solo una lieve deviazione dal tappo, per me risulta impossibile da valutare.

Siamo stati ripagati con un vino fuori dal coro offerto da Antonio, come il Barolo 1988 della Cantina della Porta Rossa, azienda a me sconosciuta, originaria di Diano d’Alba. Il colore era scarico, con profumi che stavano virando verso i terziari. Vino anch’esso agrumato, con note di cioccolato bianco.

Abbiamo terminato la serata con altre due scoperte interessanti: Retzstadter Langenberg, Silvaner 1990 Spätlese, la cui evoluzione vira in note molto simili a quelle del riesling, e infine La Morandina, Moscato d’Asti 2020, perfetto con la crostata di amarene. A essere sincera ho trascurato i vini dolci, per rivisitare nuovamente alcune delle straordinarie bottiglie di Barolo, in modo da imprimere il più possibile nella mente il ricordo di questa serata prodigiosa.

Se siete arrivati fin qua, probabilmente vi aspetterete che tiri le somme premiando l’una o l’altra filosofia produttiva. Ovviamente non ho alcuna intenzione di farlo, anzi, preferisco osservare con ammirazione quegli anni di rinnovamento. La parola ‘rinnovamento’ abbraccia entrambi i metodi di produzione: da un lato, significa rimettere a nuovo, sostituendo ciò che è vecchio con ciò che è nuovo; dall’altro, implica la scelta di ripetere un’azione, di accoglierla di nuovo, magari con uno sguardo più fresco. È proprio il concetto e l’intenzione di rinnovamento che ha contribuito al grande successo del Barolo. Dopo tanti anni, questo vino è ancora capace di far sussultare il cuore e di ispirare le nostre riflessioni.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

11 e 12 maggio 2024, in assaggio 150 sfumature di Lambrusco

Condividiamo un interessante evento che si terrà l’11 e il 12 maggio 2024 nel Complesso Monastico San Benedetto Po (MN). Si tratta di Lambrusco a Palazzo, rassegna ormai giunta alla nona edizione ed organizzata da ONAV Mantova e La Strada dei Vini e Sapori Mantovani.

Saranno 50 le cantine partecipanti e si potranno assaggiare oltre 150 etichette tutte a base di lambrusco, o meglio della vasta famiglia dei lambruschi, parliamo di vini frizzanti e spumanti prodotti nelle province di Modena, Reggio Emilia, Mantova e Parma.

Da non perdere, inoltre, la visita al complesso monastico ed in particolare alla Sala Capitolare del Polirone, appena restaurata.

Qualche informazione organizzativa:

Lambrusco a Palazzo, sabato 11 maggio dalle 15.00 alle 20.30 e domenica 12 maggio dalle 13.30 alle 20.00; Complesso Monastico San Benedetto Po (MN).

Ingresso all’evento da acquistare in loco al costo di 13 €, ingresso ridotto per soci ONAV, AIS, FISAR, FIS, ASPI, WSET (11 €).
Masterclass

sabato 11 maggio ore 16.00 (10 euro) Lambrusco ‘Il Metodo Classico’ a cura di ONAV.
domenica 12 maggio ore 16.00 (10 euro) ‘I vitigni autoctoni della Via Emilia’ a cura delle Donne del Vino Emilia Romagna.

Redazione

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