Alle radici del Barolo (o quasi)

Il tema scelto per la cena prenatalizia del team (allargato) di Vinocondiviso è stato un super classico: il Barolo. E siccome troppo vasta poteva essere la scelta – fra gli undici comuni e le 170 MGA (escluse le menzioni comunali) – abbiamo scelto come linea guida il libro a firma di Armando Castagno, edito da Slow Wine, uscito a fine dello scorso anno, dal titolo “Alle radici del Barolo”.

Il volume, corredato dalle foto di Clay McLachlan e da una dettagliata parte storica introduttiva a cura di Lorenzo Tablino, consta di dieci interviste ad aziende della “prima generazione” del Barolo, ovvero antecedenti l’Unità d’Italia del 1861, in cui fondamentale fu il ruolo dello statista Camillo Benso Conte di Cavour; lo stesso Conte giocò una parte da indiscusso protagonista anche nella valorizzazione e affermazione del Barolo così come lo conosciamo (o quasi).

Avendo avuto l’opportunità di partecipare alla presentazione ufficiale del libro, ad Alba, ci piace ricordare quanto l’autore abbia sottolineato l’importanza dell’etimologia “radice” e quanto azzeccata ne fosse la scelta per il titolo. Radice deriva dal latino “radix”, ovvero ciò che è flessibile, pieghevole; effettivamente, osservando le radici, notiamo come esse siano in grado di piegarsi, di adattarsi alla terra più ostica con flessibilità. Radici profonde e solide anche per il Barolo, ma allo stesso tempo radici nuove, che traggono linfa dalle nuove generazioni, capaci di adattarsi ai tempi nel rigoroso rispetto dell’eredità ricevuta.

Partiamo quindi con i vini assaggiati, Barolo rigorosamente di produttori oggi ancora in attività le cui cantine sono state fondate prima del 1861 e quindi presenti nel libro di Castagno, non dimenticando di menzionare l’ottimo brasato con polenta a corredo e a seguire formaggi di stagionature diverse armoniosamente abbinati coi vari calici.

Barolo del Comune di Verduno 2018 – Fratelli Alessandria

Fratelli Alessandria, attiva già da metà 1800, si trova a Verduno e vinifica esclusivamente uve di proprietà da circa 15 ettari di vigne. Il vino che abbiamo nel calice ha un naso molto elegante, un bouquet di rose accompagnato da un bel frutto rosso fresco e un tocco di pepe bianco. Il sorso è caratterizzato in ingresso da un’ottima dolcezza di frutto, si dipana bene grazie ad una ragguardevole freschezza, il tannino è poco presente, alcol sotto controllo. Scorrevole e semplice (forse troppo? O forse è un vino che va aspettato almeno un lustro affinché possa farsi) ma molto godibile.

Barolo Acclivi 2017 – Comm. G.B. Burlotto

Restiamo a Verduno con Burlotto, altro nome storico di Langa. L’Acclivi è un Barolo ottenute dalle uve provenienti da vigne collocate a Verduno (Monvigliero, Neirane, Rocche dell’Olmo e Boscatto). Olfatto molto affascinante e complesso: roselline e radici, foglie secche e china, lampone e polvere di liquirizia. Il sorso è fitto, fresco e profondo, tannino giustamente in evidenza ma di grande finezza. Chiusura sapidissima e lunga ma soffice. Goloso.

Barolo 2017 – Oddero

Poderi e Cantine Oddero hanno una storia plurisecolare in quel di La Morra e attualmente vinificano dai 35 gli ettari di proprietà sia in zona Barolo sia in zona Barbaresco. Il naso di questo Barolo parte su note fresche di lampone e rose, poi una nota più austera di mineralità scura accompagnata da una curiosa nota di castagna/noce. Bocca serrata in una morsa acido-tannica ancora da amalgamarsi, chiude lungo e salato. Da attendere.

Barolo Paiagallo “Vigna la Villa” 1989 – Fontanafredda / Barolo “Vigna Gattinera” 1989 – Fontanafredda

Commentiamo insieme questi due vini, vecchietti per così dire, non solo perché sono entrambi di Fontanafredda e della splendida annata 1989, ma anche perché rappresentano plasticamente due delle traiettorie possibili di evoluzione del Barolo. Il Vigna la Villa è un vino autunnale a partire dalle note di sottobosco, funghi, tartufo, torrefazione e note affumicate, con un tannino che è diventato cremoso, splendidamente risolto in dolcezza, dalla texture raffinata e carezzevole. Il Vigna Gattinera invece evolve su note più chiare e speziate e ha una materia più asciutta e meno carezzevole, è l’acidità a risultare in primo piano per un sorso che rimane succoso e sapido. Due indomiti vecchietti che hanno ancora molto da dire.

Barolo Riserva 1971 – Borgogno

Borgogno è una realtà che non ha bisogno di presentazioni, cantina dalla storia antica, che oggi vanta di un parco vigne di oltre 30 ettari. Il Barolo Riserva che abbiamo degustato è di un’annata, la 1971, considerata eccezionale. Un vino di oltre 50 anni che ancora scalpita e maturo si concede su note di buccia di arancia e mandarino, eucalipto, lamponi in confettura, tartufo bianco, terra smossa…la bocca è di grande dinamica e allungo, energica benché risolta, in chiusura ci lascia su ritorni di sottobosco e frutta rossa. Un vino di grande fascino.

Alessandra Gianelli
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Diego Mutarelli
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Fiorano: quando il mito si fa esperienza

Iniziamo questo breve resoconto sulla serata “Il mito di Fiorano: storia, talento, cultura, memoria”, tenutasi in AIS Milano il 17 febbraio anticipando subito che tutti i nove vini, dalla 2015 appena messa in commercio fino alla 1987, hanno sorpreso la platea per la loro disarmante freschezza e la grande coerenza stilistica.

È stata una serata fortemente voluta dal relatore, Armando Castagno, particolarmente legato alla storia di Fiorano e  alla tenuta nel cuore dell’Appia Antica, di cui parlò già venti anni fa in un articolo uscito sulla famosa rivista Porthos, raccontando di un vino leggendario, il Fiorano Rosso, non più in produzione. Di contro, proprio mentre lui, con rammarico, scriveva ciò, Fiorano stava rinascendo grazie al Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi che aveva ereditato la tenuta e aveva deciso di riprendere l’attività vitivinicola.

Era il 2003 e la prima bottiglia del “nuovo” Fiorano rosso da lì a qualche anno sarebbe uscita sul mercato;  Armando ne tornerà a parlare non più con rammarico ma con vistoso entusiasmo nell’articolo “Fiorano, memorie e girandole”, uscito a settembre 2014 sulla rivista Vitae di AIS Lombardia. Leggendolo scoprirete che Alberico Boncompagni Ludovisi, principe di Venosa, ereditata dal padre la tenuta di Fiorano nel 1946, decide di impiantarvi cabernet sauvignon e merlot, per ottenere, negli anni Cinquanta, la prima bottiglia italiana da taglio bordolese, affidandosi per la gestione agronomica ed enologica a Giuseppe Palieri, pioniere della coltivazione biologica.

Sorpresi vero? Anche noi, ma vi sorprenderà ancora di più sapere che, una volta mancato Giuseppe Paglieri, a sostituirlo fu nientemeno che Tancredi Biondi Santi!

Torniamo al presente, continuando a stupirci: abbiamo volutamente virgolettato l’aggettivo nuovo accanto al Fiorano rosso che dal 2003 ha ripreso ad esistere in quanto nulla è cambiato rispetto alla fiabesca e antesignana avventura del Principe Alberico Boncompagni Ludovisi: immutati i vitigni (cabernet sauvignon e merlot), immutate le tecniche in vigna (a conduzione biologica), la vinificazione (in tini di legno) e l’affinamento (in botti  da 10 ettolitri).

Il classico che si fa contemporaneo; il mito che torna a esistere.

È stata una serata in cui inevitabile è stato il rimando all’arte, classica e contemporanea: non poteva essere altrimenti visto che sul palco oltre che Armando Castagno, (anche) storico dell’arte, era ospite l’attuale proprietario della tenuta Fiorano, Alessandrojacopo Ludovisi Boncompagni, appassionato di arte e titolare della galleria romana Gallerja Roma.

“Nonostante la mia laurea in economia, ho sempre nutrito un grande interesse per l’arte, in particolare quella classica per poi fortemente appassionarmi a quella contemporanea, una passione che è diventata lavoro, come quella di produrre vino” sintetizza il principe.

E mentre Armando citava un capolavoro della pittura trecentesca senese, “Maestà”, di Simone Martini e a seguire un grande artista contemporaneo, esponente dell’Arte Povera, Janis Kounellis, ecco che venivano pian piano serviti nove annate di Fiorano Rosso: 2015, 2013, 2012, 2009, 2003, 1993, 1990,  1988, 1987.

Le annate che abbiamo più apprezzato sono state la 2003 (la prima della nuova “era”), la 1987 e su tutte la 1988. Quello che più ci ha spiazzato, rileggendo la verticale che Armando fece nel 2014 e di cui riportò sulla rivista Vitae di AIS nell’articolo già citato, è la perfetta corrispondenza con quanto l’autore scrisse della 1988 (<<…vitale…carismatico…un tannino di splendida trama…>>) e la 1987 (<<Pur assaggiato dopo la 1988, e quindi sacrificato dal confronto ravvicinato, fa sfoggio di grazia e varietà da grande vino.>>)

Classico e contemporaneo in perfetta armonia.

Alessandra Gianelli
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Il pinot nero è la risposta?

“Cosa vuoi fare da grande?”

Quante volte ce lo siamo sentiti domandare, da piccoli. E quante volte ce lo siamo chiesti, da adulti.

courtesy of Alessandro Anglisani

L’Oltrepò sembra ancora alle prese con questa domanda, nonostante una storia vitivinicola che si perde fino ai tempi dell’Impero Romano; un territorio esteso, immenso se paragonato ad altre zone vinicole italiane, dove è scontata la presenza di tanti vitigni e la produzione di vini diversi; dove tuttavia non dovrebbero mai esser dati per scontati qualità e rigore nelle scelte aziendali, in vigna, in cantina, sul mercato. Di rigore ha parlato Armando Castagno, giornalista, scrittore e grande comunicatore del vino, al secondo evento organizzato dall’associazione “Oltrepò, terra di pinot nero” a Milano, lo scorso giovedì 2 dicembre, confrontandosi con Filippo Bartolotta, altro importante rappresentante della critica enologica in Italia e nel mondo: “rigore a livello associativo, di viticoltura, di produzione, su disciplinare, di comunicazione, di sostenibilità economica … (un rigore) speso per conoscere e far conoscere i frutti di un territorio dalle potenzialità enormi”.

Al termine del dibattito, tanti gli assaggi di pinot nero nelle sue due declinazioni – spumantizzato e vinificato in rosso – dei 23 produttori presenti; ne abbiamo scelti due che ci continuano a stupire per classe e qualità: il metodo classico Farfalla Cave Privée 2013 di Ballabio e il Giorgio Odero 2017 di Frecciarossa.

E che il Pinot nero sia veramente la risposta alla domanda iniziale, ce lo suggeriscono vini come questi.

Alessandra Gianelli
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Benefici e rischi di intraprendere un viaggio tra i vini di Borgogna

È da un po’ di tempo che un pensiero, un’idea, un impulso si è radicato nella mente e non se ne va più.

Ho provato a spostarlo e a rivolgere l’attenzione altrove, perché lo so come succede in questi casi: da vezzo che fluttua allegramente in testa, ben presto si trasforma in pensiero fisso, poi ossessione, e da lì è praticamente impossibile tornare indietro.  

Questo pensiero consiste nel desiderio di condividere un percorso che ho iniziato seriamente un anno fa attraverso le pagine e le bottiglie della Borgogna. Mi sono addentrata con la mente (e con il fegato) in questa regione meravigliosa senza rendermene conto, inizialmente studiando il libro di Camillo Favaro e Giampaolo Gravina, “Vini e Terre di Borgogna”. Una volta terminato, sono passata all’opera di Armando Castagno “Borgogna. Le vigne della Côte D’Or”. Allo stesso tempo ho degustato le bottiglie che riuscivo a trovare assieme al mio fidanzato, che aveva intrapreso già da tempo questo favoloso viaggio, e prendendoci per mano ci siamo buttati a capofitto in questa avventura. Sono convinta che vivere le esperienze nel bicchiere in compagnia, confrontandosi e imparando l’uno dall’altra, renda il processo conoscitivo ancora più completo e totalizzante e le abilità del degustatore ancora più affinate e intuitive.

Chambertin 2010 – Domaine Rossignol-Trapet

Le righe che state leggendo sono l’epilogo di una lotta piuttosto travagliata contro me stessa: prima di tutto, ho provato una stranissima preoccupazione ad affezionarmi così tanto all’argomento da non desiderare più bere altro. Un po’ come quando ti innamori, e non vedi niente se non gli occhi della persona amata. È dura rimanere saldi e obiettivi, ma essendo il vino il mio lavoro, non posso permettermi di diventare una persona limitata, con una visione dotata di un’unica e discutibile prospettiva, e che si fa trasportare da una sola tipologia di vino. E se non vogliamo parlare di sentimenti, possiamo benissimo parlare di soldi, perché come tutte le persone normali, non posso certo prendermi il lusso di bere Borgogna tutte le volte che vorrei.

Altri scrupoli, invece, sono dovuti al forte timore reverenziale verso questo territorio, che alle volte è paralizzante. Mi correggo, non si tratta di timore, quello che provo è rispetto, un assoluto rispetto non solo per il vino, ma soprattutto per la cultura che rappresenta, fonte di ispirazione dei vignaioli di tutto il mondo, desiderosi di portare nel mondo altrettanta bellezza. 

Eppure, nonostante tutto, sento che questa passione è ormai diventata preminente: più studio, più assaggio, più aumenta la consapevolezza di non averne ancora abbastanza, e allo stesso tempo faccio sempre più fatica a frenare la voglia di trasmettere la meraviglia di questo viaggio nel bicchiere. Il mio scopo non è quello di esibire le mie conoscenze, ma tentare di comunicare il beneficio che c’è nello studio approfondito dei vini di Borgogna, e di ascoltare il racconto delle persone che scrivono questa fortunata storia da quasi quattordici secoli, senza mai fermarsi. 

Uno dei vini che ha ispirato questo nuovo percorso è lo Chambertin 2010 di Rossignol-Trapet, assaggiato alla cieca un freddissimo sabato di febbraio. Celebre vigneto che dà il nome al villaggio di Gevrey-Chambertin, nel XVIII secolo era definito “il Re dei vini”, e anche oggi la sua magnificenza, il suo fascino e la sua energia sono universalmente riconosciuti e ambìti da tutti gli appassionati.

L’azienda Rossignol-Trapet è guidata dai fratelli Nicolas e David Rossignol, viticoltori che lavorano seguendo i principi della biodinamica da vent’anni, lavoratori minuziosi al punto da vinificare separatamente anche le parcelle più ridotte.

Questa bottiglia dell’annata 2010 è un vino dai tratti autunnali, con un naso soprattutto speziato, dove primeggiano sentori di rosmarino e tabacco biondo, con sfumature ferruginose ed ematiche. Pian piano che il vino si apre, si possono apprezzare dei rinfrescanti accenni balsamici, mentre il frutto è passato in secondo piano, lasciando spazio al sottobosco, che nella mia memoria olfattiva mi fa pensare al nebbiolo di Monforte o Serralunga. La bocca invece è più giovane e vibrante del naso, è energica, dotata di un nerbo acido che fa apprezzare la sua freschezza durante tutto il sorso.  Il finale è lungo e sapido. Esattamente un anno fa, invece, mi ritrovavo a bere il loro Gevrey-Chambertin Vielles Vignes 2012 e, a giugno 2018, l’annata 2015. Un vino frutto da parcelle ultracinquantenni, secondo me rispecchia bene le caratteristiche dell’appellation,  ovvero culla di vini piuttosto strutturati, austeri, freschi e con un tannino che non nasconde la sua presenza. La 2012 è risultata più elegante e suadente, mentre la 2015 più potente e all’epoca ancora molto giovane. Assaggiando il suo Chambertin, invece, ho sperimentato la superiorità leggendaria di questo Grand Cru, scoprendo che esiste un ventaglio di sfumature e di sensazioni inaspettate, una complessità che si evolve e si trasforma ogni volta che si ruota il calice. Ho terminato la bottiglia con un unico e solo punto di domanda, al quale non mi sono data una risposta: è normale che un Grand Cru di soli undici anni abbia un naso evoluto al punto da essere centrato su questi profumi terziari, mettendo da parte i fiori e il frutto? In realtà la soluzione al mio interrogativo è importante solo fino a un certo punto, perché la grande bellezza di questo vino sta nella sua freschezza e vitalità, che oggi lo rendono non solo riconoscibile, ma irresistibile.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi