Pommard a confronto: lo stile può rappresentare il terroir?

Sabato di buon’ora mi sono avventurata in macchina per dirigermi a est, superando gli argini del Secchia per spostarmi in terra romagnola. Oltrepassando con sicurezza le pianure dove nascono le bollicine emiliane, ad un tratto l’orizzonte ha iniziato ad assumere un profilo più allegro e tondeggiante nei pressi di Imola. Il sole accarezzava i colli disegnati davanti a me, e mi sono chiesta se fosse il paesaggio a rendere così spontaneamente solari i romagnoli o se fosse invece il contrario. 

Destinazione Brisighella, un nome che è impossibile pronunciare senza sorridere, dove Roberto Frega dell’importazione Sartoria del Vino aveva organizzato un pranzo/degustazione a tema Pommard. Roberto, professore universitario a Parigi, ha abbracciato con passione il mondo del vino importando vini di nicchia dalla Francia, convincendo numerosi appassionati a seguirlo. Aveva organizzato una degustazione alla cieca ispirandosi ai Grands Jours de Bourgogne, la fiera dedicata ai vini di Borgogna, che si svolge in diverse giornate con location dislocate in base al villaggio di appartenenza dei produttori. Roberto ha quindi pensato di mettere a confronto diverse espressioni di Pommard, comune tra Beaune e Volnay, nella Côte de Beaune, famoso per i suoi rossi energici, strutturati e sorprendentemente longevi.

Nella prima batteria abbiamo assaggiato tutte 2021 nella categoria “village”.

  • Maxime Dubuet-Boillot, Les Deux Terroirs 2021: un vino dal colore concentrato nonostante l’annata classica, con sentori di propoli, rosmarino, paté di oliva, non lunghissimo, con una nota amaricante sul finale.
  • Vincent Dancer, Les Perrières 2021: produttore in forte ascesa, che declina i suoi vini attraverso uno stile più contemporaneo. Come insegna Armando Castagno, le vigne che portano nomi che evocano la pietrosità sono generalmente qualitative, e anche in questo caso si trattava della vigna di fronte agli Epenots, a valle attraversando la D973. Ho apprezzato i sentori delicati di fragolina e violetta, e una bocca rinfrescante e vivace.
  • Domaine Chantal Lescure, Les Vignots 2021: un vino proveniente dalla zona più fresca e ventosa del comune, lungo il cono di deiezione della Combe de l’Avant-Dheune. marcata l’impronta di legno, riconoscibile attraverso sfumature di liquirizia e vaniglia, che ritroviamo anche in bocca, oltre a una nota ematica forse dovuta a un’annata non troppo aggraziata.
  • Vin Noe, Rève Americain 2021: un vino decisamente pop, non solo nel nome e nell’etichetta. Era molto intenso al naso e non limpidissimo di colore, con sentori di piccoli frutti rossi molto freschi, probabilmente dovuti a una vinificazione a grappolo intero, assieme a una nota che mi ha ricordato la terracotta.

In seguito a una breve pausa in giardino a bere Chenin Blanc e Sorbara, abbiamo proseguito con i premier cru.

  • Domaine Clos de la Chapelle, Les Grands Epenots 2022: ho sempre difficoltà ad analizzare i vini non ancora “pronti”, tuttavia nonostante la giovane età di questa bottiglia il vino si è manifestato con intensi sentori floreali e con una totale assenza di note terrose, ma al contrario evocava solo freschezza e soavità. Non a caso, si tratta di una delle vigne più vocate del comune.
  • Clos du Moulin Aux Moines, Les Pézeroilles 2019: climat sopra gli Epenots, considerato un Pommard atipico perché solitamente slanciato e femminile. Si è presentato con una marcata espressione fruttata e vegetale (rabarbaro).  La bocca era molto più interessante del naso, e si sviluppava come un’onda, increspandosi all’entrata in una sensazione voluminosa, per poi svanire in piccantezza.
  • La Pousse d’Or, Les Jarolières 2019: climat posto a sud, a confine con Volnay. Inizialmente austero si è dimostrato comunque intrigante naso, con sentori di ginger e arancia. L’entrata in bocca è morbida, per poi svilupparsi in sapidità.
  • Joseph Voillot, Clos Micault 2019: climat peculiare per la sua posizione, essendo l’unico Premier Cru del comune situato a valle della D974 che attraversa la Cote d’Or. Apprezzo molto questo produttore, tuttavia si sa che ad assaggiare alla cieca si rimane a volte stupiti, altre perplessi.
  • Jean Luc Joillot, Les Petits Epenots 2019: vino abbastanza ferroso e più dolce in bocca, caratteristica probabilmente dovuta al legno.
  • Alain Jeanniard, Les Sausilles 2012: vigna situata a nord, a confine con il bellissimo Clos des Mouches di Beaune. Iniziamo a intravedere il fantastico potere d’invecchiamento dei vini di Pommard. Vino sapido, al naso assomiglia a Les Jarolières, che è sorprendentemente al lato opposto del comune. In bocca non ho percepito tannino ma solo sale, che riempie il sorso in un allungo leggermente addolcito.

Infine, fuori programma, abbiamo assaggiato Cassagne et Vitailles, Les Homs 2021, un 100% grenache della regione del Coteaux du Languedoc. Al naso è fruttato, (fragolina, lampone, pepe), in bocca dopo tutti quei pinot ho ritrovato una nota alcolica che però non predominava sulla freschezza e giovinezza, sue peculiarità principali.

Questa degustazione mi ha insegnato che lo stile del produttore è nettamente più evidente nel calice rispetto al luogo di provenienza, anche se quando si degusta la Borgogna, ci aspettiamo che emergano più le sfumature del territorio rispetto a qualsiasi altro aspetto, che sia l’uva, l’annata, o le tecniche di conduzione del vigneto e le pratiche in cantina. E se con la Borgogna possiamo comunque entrare in crisi per individuare una linea coerente che ci faccia risalire al luogo di provenienza, figuriamoci se possiamo fare delle congetture territoriali per i vini provenienti da zone più ampie o che ammettono diversi vitigni. Eppure, concentrarsi solo sullo stile del produttore può risultare limitante, anche se questo è ciò che più influenza il carattere del vino. Ragionare sulle bottiglie degustate alla cieca ci spinge inevitabilmente a considerare il luogo d’origine, sebbene molto spesso l’espressione del calice non corrisponderà a ciò che abbiamo studiato. Forse il motivo è l’importanza della comprensione della storia della comunità che rappresenta quel luogo.

Credo che si possa apprezzare la territorialità di un vino solo se si considera la cultura di chi lo custodisce. Senza la volontà di indagare le origini e le evoluzioni della storia in un territorio, si rischierebbe di considerare il vino come un semplice mezzo edonistico, o un esercizio di stile, cosa che anche io faccio volentieri a volte. Tuttavia, se l’intento è quello di testimoniare una cultura, è necessario spingersi oltre, rischiando, e arricchendo la nostra comprensione con interrogativi che spesso rimangono un mistero.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Varcando la porta settentrionale della Côte d’Or: Marsannay

Prima appellation che si incontra entrando nella Côte d’Or da settentrione è Marsannay, che nei suoi oltre 240 ettari abbraccia tre comuni (Chenôve, Marsannay-la-Côte e Couchey), ed è famosa per i suoi vini polposi e fruttati. Si può dire che sia un’appellation ancora sottovalutata, probabilmente perché sue bottiglie non possono vantare della dicitura “Premier Cru” in etichetta, ma mi piacerebbe invitare il lettore a prestare attenzione alla qualità dei vini di questo territorio, perché di recente quattordici climats sono stati effettivamente promossi a questo prestigioso riconoscimento, che sarà completato nel giro di pochissimo tempo.

Per imparare a conoscere meglio Marsannay abbiamo assaggiato alla cieca due bottiglie di due differenti climats che presto diventeranno Premier Cru, nella stessa annata e per mano dello stesso produttore.

i due vini, Marsannay 2018, in assaggio

L’annata è la 2018: consapevoli del fatto che in Borgogna la 2018 è stata molto calda, non abbiamo indugiato più di tanto prima di stappare, confidenti anche nel fatto che Marsannay produca vini che puntano molto sulla piacevolezza di frutto e che quindi possano essere apprezzati fin da giovani.

Il Domaine in questione è Bart, proprietario di circa 21 ettari dislocati soprattutto a Marsannay, è uno dei produttori più rappresentativi e rispettati del territorio.

I vini che abbiamo assaggiato sono due pinot noir, questo va precisato perché a Marsannay si coltiva anche chardonnay, pinot blanc, in minima parte pinot gris e in passato il territorio era addirittura interamente coperto dal gamay, col quale si produceva abbondantemente il rosato per i ristoranti di Dijon.

Oggi la coltura del gamay è stata abbandonata praticamente ovunque, ma non la tradizione dei vini rosati, tant’è che Marsannay è l’unica AOC dell’intera Borgogna ad ammettere la dicitura “rosé” in etichetta.

Marsannay: mappa dei lieux-dits (Credits: Vitevini.com)

Il primo vino assaggiato è Les Longeroies: situato a Marsannay-la-Côte, non lontano da Chenôve, si tratta di un vigneto molto vasto (oltre i 34 ettari), composto da due lieu-dits: Dessus de Longeroies, la parte più alta, più sassosa e che produce vini più eleganti, mentre Bas de Longeroies è più ricca di argilla, che apporta più sostanza al vino e forse per questo i produttori amano spesso unire nel vino le due parcelle. Devo dire che la versione di Bart mi ha molto colpita, lo si potrebbe definire come un tipico Marsannay, con le sue note fruttate succose ed accattivanti, ma la sua piacevolezza non è assolutamente banale, al contrario si gioca nel dettaglio, che invita il degustatore a perdersi nel calice per tentare di imparare a conoscerlo fino in fondo.

Il secondo vino porta un nome a dir poco eccezionale: Au Champ Salomon: il terzo re di Israele, simbolo di giustizia e fermezza, in un lontano passato ha ispirato il nome del famoso vigneto situato a Couchey, il motivo è dovuto al fatto che anticamente in queste terre venivano impiccati i fuorilegge. Questo vino si presenta in maniera totalmente diversa rispetto al primo: le terre in cui crescono le vigne hanno una base argillosa con venature di ossido di ferro, che donano nel calice note ferruginose ed ematiche che lo fanno risultare più austero e solenne, con sentori speziati di liquirizia e alloro che lo rendono più oscuro e meditativo rispetto alla celebre e allegra estroversione di questa appellation. Anche in bocca, pur mantenendo un’acidità sostenuta, l’ho trovato di una profondità lunga e inaspettata.

Credo che sia proprio la differenza così abissale tra le due bottiglie a rivelare la caratteristica più emblematica e affascinante della Borgogna intera: quando nonostante la stessa mano e la stessa annata, anche nelle zone meno blasonate, è sempre il terroir ad apportare al vino risultati dalle sfaccettature diametralmente opposte. Un mistero mai banale e impossibile da risolvere, col quale l’uomo non può fare altro se non attingervi il proprio piacere.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Il pinot nero oltre i confini della Borgogna

Alcuni vitigni nascono in un preciso punto del mondo e lì rimangono per sempre, senza spostarsi. In altri casi, certe varietà abbandonano le origini per intraprendere un lungo viaggio che li spingerà ad adattarsi in angoli diversi del pianeta, senza mutare tuttavia la loro genetica. Latitudini diverse, suoli imparagonabili, stagioni opposte, pendenze, pianure, laghi, boschi, vento, mare. Non esiste una condizione pedoclimatica identica ad un’altra, eppure quella piccola vite riuscirà a fare di quel paesaggio la sua casa, e il vino che ne deriva avrà impresso il segno indelebile di quel preciso territorio.

Capita spesso, tuttavia, che una volta davanti al bicchiere, si giunga alla conclusione che le performance migliori provengano dai terroir d’origine. A volte i produttori si ostinano a far crescere un’uva in un luogo non esattamente vocato, ma sedotti da una sorta di “terra promessa” cedono al tentativo di replicare un territorio e una tradizione che non gli appartengono.

Questo avviene innumerevoli volte quando si parla di pinot nero.

Inizierò dicendo che dovremmo smettere di paragonare le espressioni di pinot nero di Borgogna a quelle di altri territori.

Non serve che io dica che crescere il pinot nero sia un’impresa alquanto audace da compiere: è uno dei vitigni più ostici e sensibili da domare perché soffre il troppo caldo, l’umidità, le estati eccessivamente secche, è soggetto a muffe e funghi, se viene vendemmiato presto risulta verde e amaro e se raccolto troppo tardi l’uva potrebbe risultare molle. Le caratteristiche pedoclimatiche del terroir devono essere incastrate alla perfezione per poter dar vita ad un grande vino, infatti già nel Medioevo i monaci cistercensi furono spinti a fare una mappatura dei loro vigneti, classificando i terroir migliori che poi sarebbero diventati Grand Cru e Premier Cru.

Quando si tratta di pinot nero, ogni minima peculiarità del territorio ha un’incidenza determinante nel bicchiere, e addirittura verrebbe da chiedersi se i profumi varietali siano rilevanti quanto l’espressione del terroir. Probabilmente la risposta a questa domanda rappresenta già un primo motivo per disincentivare i tentativi di imitazione della Borgogna.

Inoltre, non dimentichiamoci che c’è una bella differenza tra imitazione e ispirazione: la prima porta al concepimento di brutte copie, di caricature, mentre la seconda spinge a interpretare al meglio ciò che realmente si possiede, senza tentare di cavare sangue da una rapa.

Uno dei pochi esempi in cui l’ispirazione ha avuto la meglio nella realizzazione di un grande pinot nero italiano è sicuramente Podere della Civettaja. Siamo in Toscana, in Casentino, le cui altitudini e i terreni calcarei e ricchi di scheletro consentono la coltivazione di questo vitigno. Ho assaggiato recentemente la 2016 e, complice sia l’annata eccezionale sia un po’ di tempo di affinamento in bottiglia, ho avuto il piacere di bere un ottimo vino.

Pinot Nero 2016 – Podere della Civettaja

Rosso rubino di media intensità, al naso si ritrova uno stile più sul riduttivo che sull’ossidativo, con sentori di frutta freschissima, ciliegia, ribes, lampone, rosa canina, poi spicca una nota minerale di pietra bagnata, sottobosco, pepe bianco. In bocca colpisce per la sua freschezza autentica e schietta, che fa venire voglia di berlo e riberlo, oltre alla sua lunga persistenza lievemente sapida. Nessun paragone con la Borgogna: questo vino è autenticamente italiano, finalmente.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Aubert de Villaine a ruota libera tra biodinamica, difesa del terroir e prezzi nell’intervista su Le Figaro

Il post in oggetto è un consiglio di lettura, non sono così frequenti le interviste di Aubert de Villaine del Domaine de la Romanée-Conti.

Aubert de Villaine
Aubert de Villaine – credits: Le Figaro Vin

Di seguito estrapolo solo un paio di passaggi dall’articolo che ti consiglio ovviamente di leggere per intero: intervista Aubert de Villaine Le Figaro

 

Exprimer le terroir passe, bien entendu, par le respect des sols. Nous savons peu de chose quant à son mode de fonctionnement. Il héberge de très nombreux micro-organismes, de la surface jusqu’à la roche mère. Pour le nourrir sans le dénaturer, il faut, par exemple, trouver le bon compost : il ne s’agit pas d’enrichir les sols, mais de leur apporter de la vie biologique. De même, nous avons beaucoup réfléchi sur nos méthodes de travail dans la vigne, sur les labours… C’est ensuite assez naturellement que nous sommes passés à la biodynamie. Nous avons débuté, à la fin des années 1990, des expérimentations sur 6 hectares. Puis nous avons converti l’intégralité du domaine en biodynamie en 2006. Comme il était compliqué de mener de front la bio et la biodynamie, il a fallu faire un choix.

(credits: intervista Aubert de Villaine Le Figaro)

e ancora:

Regardez la vente du Domaine Bonneau du Martray. Même si le prix de vente n’a pas été divulgué, les chiffres qui circulent (entre 100 et 200 millions d’euros) sont absolument affolants, et sans aucun lien avec l’économie. Ces niveaux de transaction mettent en danger l’équilibre de la Bourgogne et l’avenir des domaines familiaux. S’ils sont retenus comme références par l’administration fiscale pour l’ISF ou les transmissions, cela conduira à la vente des domaines familiaux au profit de grands groupes ou de riches industriels. L’Etat doit ici assumer ses responsabilités. Il faut absolument que le fisc admette de prendre en compte des valeurs basées non sur le prix, mais sur la rentabilité économique.

(credits: intervista Aubert de Villaine Le Figaro)

Grasberg 2010 Marcel Deiss: l’Alsazia senza compromessi

Il Domaine Marcel Deiss si trova a Bergheim, nel cuore dell’Alsazia, e non si è mai accontentato di essere una delle aziende storiche della zona (la famiglia si occupa di vigna dal 1744!). In una zona in cui il vitigno è, in genere, ben evidente in etichetta (in passato, per i grand cru, era persino obbligatorio indicarlo in etichetta), la scelta dei Deiss è stata controcorrente. Hanno cioè deciso di puntate tutto sul terroir abbracciando la biodinamica e, soprattutto, riscoprendo l’antica pratica della complantation, una pratica agronomica che consiste nel piantare in una stessa vigna differenti varietà raccogliendole e vinificandole contemporaneamente.

Alsace Grasberg 2010 - Marcel Deiss
Alsace Grasberg 2010 – Marcel Deiss

 

Alsace Grasberg 2010 – Marcel Deiss

Il colore è oro antico. L’olfatto è invitante ma non sfacciato, anzi di dipana con misura ed eleganza: arancia, buccia di limone, rosa, menta, calcare, tocchi speziati.

La bocca è morbida e abboccata, si sviluppa con suadenza ma anche con una certa rapidità, arrivando un po’ bruscamente ad una chiusura piuttosto calda, caratterizzata da un retrolfatto di uva passa sotto spirito. La persistenza c’è ed è innervata da ottima scia sapida e agrumata.

Un po’ di ossidazione fa capolino in un vino interessante ma da cui mi aspettavo di più.

85

Per la cronaca: il vino è ottenuto da Riesling, Pinot Gris e Gewurztraminer.

Diego Mutarelli
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