Val delle Corti: Radda nel bicchiere

Quando abbiamo saputo che il Uain Clab del Ristorante Novanta di Bressana Bottarone (PV) aveva in animo di organizzare una degustazione dedicata ai Chianti Classico di Val delle Corti, alla presenza del produttore Roberto Bianchi, abbiamo segnato l’agenda con il circoletto rosso e ci siamo organizzati per essere presenti.

Quale migliore occasione infatti per approfondire il carattere dei vini dell’UGA (Unità Geografica Aggiuntiva) di Radda se non questa, con la possibilità di parlare con uno dei produttori di riferimento di tutta la denominazione?

I Chianti Classico di Radda sono tra quelli che negli ultimi anni hanno meno sofferto l’innalzamento delle temperature, questo in buona parte grazie alla maggior presenza di aree boschive rispetto ad altre aree geografiche del Chianti e ad un’altitudine media delle vigne di tutto rispetto (spesso oltre i 500 metri s.l.m. e con vette vicine ai 650 metri). Infatti, se fino a pochi lustri or sono queste caratteristiche pedoclimatiche davano origine a vini austeri e “duri”, bisognosi di affinamento e pazienza per essere degustati, oggi di contro la freschezza ariosa e la profonda “verticalità” dei vini di questa zona, decretano Radda come uno dei territori più à la page di tutto il Chianti Classico.

Val delle Corti è un’azienda agricola di Radda in Chianti, sono 5 gli ettari attualmente vitati, oltre a circa 600 olivi. L’azienda nasce nel 1974 per iniziativa di Giorgio Bianchi che decide di abbandonare Milano desideroso di un maggior contatto con la campagna e alla ricerca di ritmi di vita meno frenetici. Allora Val delle Corti era in abbandono e il lavoro fu incessante per ristrutturare gli edifici, recuperare le vigne, ripiantarne altre … Roberto Bianchi ci ha raccontato come la prematura scomparsa del padre Giorgio lo mise di fronte ad una scelta non facile per lui che in quel momento, ancora giovane, non si era mai occupato del vino se non “di riflesso”. Eppure la scelta – più emotiva che razionale crediamo – fu immediata e naturale: dedicarsi anima e corpo all’azienda ed al Chianti Classico, di cui Val delle Corti è senza ombra di dubbio diventata uno degli alfieri più rappresentativi.

Ecco cosa abbiamo bevuto.

Chianti Classico Riserva 2020: la riserva di Val delle Corti esce solo nelle migliori annate con uve (100% sangiovese) selezionate dai vigneti più vecchi del podere. Fermentazione spontanea in acciaio e affinamento di 30 mesi in barriques e tonneaux usati. Il vino che abbiamo nel calice si presenta di un bel rubino chiaro luminoso, olfatto estroverso di viola e sentori agrumati (arancia), poi esce anche un frutto carnoso (susina) e una nota minerale che ricorda il gesso. Non mancano i cenni balsamici. Sorso freschissimo e dinamico, dal tannino fitto e fine e dalla chiusura lunga e sapidissima. Una grande versione buona oggi ma che spiccherà il volo tra qualche anno.

Chianti Classico Riserva 2018: com’è giusto che sia il vino cambia a seconda delle annate e questa 2018 ha un profilo meno espressivo del millesimo 2020. Ci troviamo di fronte a un’impronta autunnale di foglie secche, sottobosco, fiori appassiti, cacao e lamponi schiacciati. Bocca succosa e scorrevole, dal tannino integrato e dalla materia innervata da acidità rinfrescante. Vino che spinge più sulla verticalità che sull’ampiezza. Chiude su ritorni di frutta rossa e liquirizia. Chianti Classico Riserva che si trova in ottima fase di beva.

Chianti Classico Riserva 2017: figlio di un’annata difficile, il vino si presenta dal colore più fitto dei precedenti. Naso di erbe aromatiche, balsamico, con frutta scura e una nota di cipria. Sorso ampio, caldo e voluttuoso, tannino risolto e acidità più in sottotraccia rispetto ai campioni precedenti. Chiude di buona lunghezza su ritorni di frutta e spezie. Vino (o bottiglia) un po’ sottotono, soprattutto a confronto con i suoi fratelli presenti in degustazione.

Chianti Classico 2016: la prima bottiglia purtroppo presentava un difetto di tappo (TCA). La sua sostituta è sembrata a chi scrive anch’essa con un problema di tenuta del tappo che ne ha senz’altro pregiudicato la performance. Non giudicabile.

Chianti Classico Riserva 2015: un’annata calda e siccitosa dà vita ad un sangiovese più scuro nel colore e nell’espressività. Marasca, balsamicità, corteccia, liquirizia al naso. Ingresso in bocca ampio e piuttosto caldo, la progressione è caratterizzata da maggior morbidezza rispetto agli altri campioni sin qui degustati. Chiude sapido e di ottima lunghezza. Interessante interpretazione dell’annata 2015.

Extra 2014: si tratta di una selezione di sangiovese atto a diventare Riserva. Singole barriques vengono considerate, in certe annate, portatrici di una peculiarità tale che si preferisce imbottigliarle separatamente rispetto al Chianti Classico Riserva. Il vino affina 12 mesi in più rispetto alla Riserva. Naso di frutti di rovo (mora), balsamico, pepe e asfalto. Sorso “polposo”, la materia è ricca e stratificata, il vino ha dinamica e verve acida. Vino ancora giovane, goloso nell’incedere e austero al centro bocca con tannini fitti ma maturi e saporiti. La chiusura è lunga su ritorni minerali e fruttati. Unicum.

Chianti Classico Riserva 2013: bottiglia conferita da Luciano, generoso partecipante alla degustazione che ha deciso di condividerla con i partecipanti. Il vino parte su curiose note di yogurt alla fragola e caffè, quindi si schiarisce senza però mai decollare del tutto. Anche il sorso, pur sapido e fresco, non convince appieno. Bottiglia non fortunata.

Diego Mutarelli
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Hasta La Tondonia Siempre!

Oggi condividiamo le impressioni di una coinvolgente degustazione dedicata ad uno dei vini spagnoli più iconici e rappresentativi: il Rioja Reserva Viña Tondonia di Lopez de Heredia.

Lopez de Heredia è uno storico produttore della Rioja Alta che produce vino dal 1877. Tondonia è un’unica grande vigna di ben 100 ettari situata nella destra orografica del fiume Ebro. Le varietà presenti sono quelle tradizionali della Rioja ovvero, per quanto riguarda i vitigni a bacca nera, tempranillo, garnacha, graciano e mazuelo; presenti anche i vitigni a bacca bianca viura e malvasia.

Rioja Lopez de Heredia

La degustazione

Champagne “Unique” – Pascal Mazet, per iniziare abbiamo “avvinato” i bicchieri con questo Champagne in formato magnum estremamente convincente. Un bellissimo colore vivace dai riflessi bronzo, per un olfatto di mela renetta, fiori secchi, scorza di cedro e una netta mineralità. Sorso di ottimo equilibrio, in fase di beva perfetta, con chiusura profonda, fresca e piuttosto lunga.

Champagne Mazet

Di seguito le quattro annate di Rioja Reserva Viña Tondonia da magnum:

2008: naso ampio e variegato di ciliegia, sangue, corteccia, pepe verde, fiori rossi (peonia). Bocca di polpa e freschezza, grande dinamica e progressione, tannini in chiusura fitti ma di grana sottile. Ritorni aromatici di fiori e frutta rossa, lunga e sapida la persistenza. Dinamica e sapore

2006: amarene, funghi secchi, arancia rossa e una bella nota balsamica. Sorso di ottima freschezza, forse meno stratificazione del 2008 ma la bevibilità è notevole e il tannino splendidamente risolto. Elegante.

2005: ahimè tappo!

2001: bellissimo vino dal naso mutevole che parte sulla frutta rossa fresca (ciliegia), per poi lasciar spazio ai fiori, agli agrumi, ad una parte balsamica e poi tornare sulla frutta matura che tende alla pesca sciroppata. La bocca è fresca, stratificata, profonda. Chiude lunghissimo su ritorni di frutta rossa, liquirizia e sale. Il vino della giornata

Rioja Gran Reserva “Classica” 2005 – Lopez de Haro

Il ringer prescelto è un Rioja Gran Reserva di Lopez de Haro, una scelta non scontata che ha tenuto testa ai vini precedenti. Rioja che parte su note scure e minerali che tendono persino al tartufo, poi esce fuori il frutto (mirtillo). Bocca di ottima progressione, tannini fini e fitti e freschezza integrata dialogano con la materia del vino possente e calda, il risultato è di grande armonia. Chiusura lunga su ritorni di frutta matura e liquirizia.

Diego Mutarelli
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Presentazione guida Slow Wine 2026: tra colpi di fulmine e conferme

Tauma e Brunello Riserva Le Potazzine

Sabato 18 ottobre a Milano è andato in scena l’evento dedicato alla guida Slow Wine 2026 che, insieme alla presentazione della pubblicazione edita da Slow Food Editore e alla premiazione delle aziende, è stata affiancata come di consueto da un evento di degustazione che ha coinvolto centinaia di aziende e migliaia di degustatori e appassionati.

È estremamente arduo effettuare un vero e proprio resoconto di un’evento così ampio e che ci ha permesso di effettuare diverse decine di assaggi (indispensabile l’uso della sputacchiera naturalmente!). Però non rinunciamo alla nostra missione che è quella di condividere, limitandoci, visto il contesto, alle impressioni e agli assaggi che hanno lasciato il segno più di altri.

I colpi di fulmine

Molti sono stati gli ottimi vini, d’altronde in degustazione erano presente solo vini di aziende premiate in guida, ma due vini ci hanno colpito particolarmente.

Tauma e Brunello Riserva Le Potazzine

Brunello di Montalcino Riserva 2019 – Le Potazzine, un vino che coniuga eleganza e potenza, il tutto accompagnato da un ventaglio aromatico complesso di viola, canniccio, mineralità e frutta rossa, di grande dinamica e dalla chiusura lunghissima e sapida. Altro vino ipnotico è stato il Cerasuolo d’Abruzzo “Tauma” 2024 – Pettinella, ottenuto da uve di montepulciano d’Abruzzo allevate in parte ad alberello in parte a spalliera. Il vino è un rosato, o meglio un color cerasuolo che richiama le “cerase”, quindi di un rosa non troppo scarico, che colpisce per personalità e originalità: al naso fragola, melograno, roselline, ciliegia, erbe aromatiche, un tocco affumicato…il sorso è di grande dinamica e pure di un certo grip, il vino resta scorrevole e dalla beva “facile”. Un grande vino che abbiamo voglia di assaggiare in un contesto più intimo, per dargli il giusto spazio e ascoltarlo in tutti i suoi dettagli che, pur in un “assaggio da fiera”, ci sono sembrati fuori dal comune.

Le conferme

Molti i vini assaggiati che hanno confermato le alte aspettative, si tratta di vini che abbiamo già degustato in molte occasioni ma di cui veniva presentata l’ultima annata. E si sa che l’annata ha un peso sempre più rilevante.

Slow Wine 2026 - le conferme

In Langa molti vini notevoli quali il Barolo Villero 2021 – Brovia, austero, fitto e profondo, il Barbaresco Albesani 2021 – Cantina del Pino, delicato e goloso, il Verduno 2024 Gian Luca Colombo, pelaverga speziatissima e salata, il Barolo Bricco delle Viole 2021 – G.D. Vajra, elegante e armonico, il Pelaverga Verduno 2024 – G.B. Burlotto, sapido e di grande dinamica.

La bandiera della Liguria è stata difesa con convinzione dell’ottimo Dolceacqua “Terrabianca” 2023 – Terre Bianche, da segnalare anche il Colli di Luni Vermentino Superiore “I Pini di Corsano” 2023 – Terenzuola, con vigne che si affacciano sul mare tra Liguria e Toscana.

Nel nord est grandi conferme quali il Soave Classico La Froscà 2023 – Gini, sapido e di grande mineralità, il Carso Vitovska Kamen 2022 – Zidarich marino, delicato ma presente, l’Ograde 2022- Skerk dall’intrigante aromaticità con una scorzetta d’arancia all’olfatto di grande impatto, il Morus Nigra 2022 – Vignai da Duline, un refosco fresco e profondo.

In Toscana si mantengono al top il Brunello di Montalcino 2020 – Gianni Brunelli di grandissima finezza, lo Scrio 2022 – Le Macchiole, syrah gustoso, speziato e fitto, il Brunello di Montalcino Riserva 2019 – Poggio di Sotto, austero e di ottima persistenza.

Per il centro sud citiamo l’Olevano Romano Cesanese Riserva 2021 – Damiano Ciolli, di ottima stratificazione, il Castelli di Jesi Verdicchio Riserva “Il Cantico della Figura” 2021 – Andrea Felici, di grande classe, l’Etna Bianco Montalto 2023 – Terre Nere, carricante sapido e ficcante.

Da attendere (con fiducia)

Non sempre è facile leggere vini messi da poco in commercio, soprattutto per tipologie o produttori che notoriamente danno il meglio di sé con il passare del tempo. Alcuni assaggi ci hanno mostrato vini di grande prospettiva che vale la pena acquistare e mettere in cantina almeno un lustro, prima di poterli godere appieno.

Slow Wine 2026

Si tratta ad esempio del Barolo Serra 2021 – Giovanni Rosso dal tannino fitto ma dalla materia sontuosa, lo stesso dicasi per il Taurasi Riserva 2013 – Perillo, un vino che sfiderà i decenni a venire, ma già intrigante nella sua speziatura che fa capolino in un corpo robusto e tannico. Il Brunello di Montalcino “Passo del Lume Spento” 2020 – Le Ragnaie è un altro vino che ha bisogno di tempo per distendersi, ma ci sembra avere tutte le carte in regola per offrire soddisfazioni. Il Barolo Monvigliero 2021 – G.B. Burlotto ha senz’altro bisogno di tempo, in questa fase appare piuttosto compresso e su note di radici e vegetali che devono ancora trovare la giusta armonia. Diamo credito e fiducia anche al Barolo “Sperss” 2021 – Gaja, che ora alterna una bella dolcezza al naso a cui fa da contraltare una bocca severa e tannica.

Le piacevoli sorprese

Eventi di questo tipo consentono di assaggiare vini che non capitano spesso nel nostro bicchiere o addirittura che ancora non abbiamo mai bevuto. A volte dunque si fanno “scoperte” piacevoli e sorprendenti.

Slow Wine 2026, le sorprese

È il caso per esempio del Dolceacqua Superiore Peverelli 2022 – Mauro Zino, vino che avevamo assaggiato tre anni fa (si trattava dell’annata 2019) e che conferma le ottime impressioni di allora con un frutto maturo rintuzzato da ottima verve di macchia mediterranea, marino e sapido. Interessante scoperta anche il sangiovese Altoreggi 2022 – Casanuova, Thilo Besançon, vino ed azienda che non avevamo ancora mai assaggiato. A chiudere le soprese dell’evento citiamo il Lambrusco di Sorbara Rosé – Silvia Zucchi, grintoso, di grande acidità e con una fragolina che in chiusura arrotonda il sorso.

Le delusioni

C’è stata anche qualche delusione, tra i molti assaggi, in particolare per quei vini sui quali riponevamo una grande aspettativa che non è stata soddisfatta.

Slow Wine 2026, delusioni

Purtroppo al momento dobbiamo citare tra i vini deludenti uno dei più importanti vini italiani, quali il Brunello di Montalcino 2019 – Biondi Santi, un vino che in questa fase appare svuotato del frutto, di grande acidità ma poco stratificato e con un apparente deficit di polpa. Kurni 2023 – Oasi degli Angeli è un altro celebre vino che ha deluso le nostre aspettative, appare con un residuo zuccherino veramente evidente, la morbidezza al sorso non è compensata a sufficienza da un tannino pur prorompente, ma il vino risulta a nostro gusto molle e poco gastronomico.

Diego Mutarelli
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Quinta do Noval, due assaggi da ricordare

Questa estate in Portogallo per turismo, non potevamo non dedicare un po’ di tempo anche all’assaggio di una tipologia di vino tra le più prestigiose del mondo, parliamo dei Porto, i vini fortificati che vantano una storia plurisecolare.

Tra i diversi vini degustati ci hanno particolarmente colpito due assaggi che vogliamo ricordare e condividere, come di consueto, su queste pagine.

Ci trovavamo a Vila Nova de Gaia, città sulla riva sinistra del fiume Duero posta esattamente di fronte alla città di Porto e facilmente accessibile attraversando l’imponente Ponte Dom Luís I. La visita della città è particolarmente istruttiva per gli enofili, a Vila Nova de Gaia infatti vi sono le cantine di affinamento e gli uffici commerciali delle più importanti aziende produttrici di Porto. C’è la possibilità di assaggiare i vini di molti produttori che hanno dei punti vendita proprio a Vila Nova de Gaia.

Abbiamo scelto di fermarci a degustare presso Quinta do Noval, prestigiosa azienda la cui storia risale all’inizio del XVIII secolo. L’azienda produce sia i vini della Valle del Douro (Douro DOC) sia i vini Porto, sui quali abbiamo concentrato i nostri assaggi. Ecco cosa abbiamo bevuto:

Porto Vintage 2003 – Quinta do Noval

E’ un vino ottenuto da diverse varietà, che possono variare da un anno all’altro ma che generalmente comprendono vitigni quali touriga nacional, touriga francesa, tinto cão, sousão, tinta roriz. Il vino è pressato con i piedi in vasche di granito (lagares) e affina 18 mesi in botti di rovere.

Il vino si presenta di un rosso rubino integro. Al naso riconosciamo prugna, cioccolato, menta, ciliegia, asfalto…sorso di grande morbidezza anche se il residuo zuccherino è appena percepibile. Sviluppo carezzevole e caldo, un tocco gentile di tannino in chiusura. Molto lungo su ritorni di frutta rossa e liquirizia dolce.

Vino molto buono che coccola il palato e lo seduce con una certa immediatezza.

Tawny Port Single Harvest Colheita 2012 – Quinta do Noval

In questo caso siamo di fronte ad un Porto Tawny millesimato che, a differenza del Porto Vintage, invecchia in botte fino alla messa in bottiglia. Il vino dunque sosta in legno molto a lungo (in questo caso 11 anni di legno prima dell’imbottigliamento) e sviluppa maggiori note di evoluzione.

Rosso rubino chiaro con riflessi granati il colore, al naso frutta secca (noce), fieno, uva passa, cannella, ciliegie disidratate. Sorso di grande intensità, ampio e potente, ma voluttuoso e carezzevole, l’acidità non manca per la tipologia ed il residuo zuccherino risulta molto attenuato. Lunghissimo e profondo, chiude su ritorni di cioccolatino alla ciliegia e sale.

Vino più cerebrale e complesso del precedente che ci ha conquistato!

Diego Mutarelli
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Raro Perpetuo ‘9 ‘0 ‘1 di Radovič, il terrano più elegante

Il terrano è un vitigno scorbutico, dall’acidità quasi indomabile e che dà origine in Carso a vini ruspanti e saporiti, riconoscibili e originali. Alcuni produttori da tempo vinificano il terrano con cura ottenendo risultati di tutto rilievo. E’ però la prima volta che incontriamo un terrano di questa eleganza e armonia.

Raro Perpetuo ‘9 ‘0 ‘1 – Radovič

Si tratta di un “esperimento” di Peter Radovič (esperimento che ci risulta verrà replicato) che assembla tre diverse annate di terrano (2019, 2020 e 2021) e che dà vita, in questo primo tentativo, a solo 270 bottiglie. La fermentazione avviene con lieviti indigeni ed una lunga macerazione sulle bucce, quindi il vino sosta in una botte di rovere esausta.

Il risultato è un vino di un bel colore rubino intenso con riflessi che vanno dal blu al porpora. Al naso si riconoscono netti i frutti di rovo (more, gelsi), quindi un tocco vegetale di canniccio/fieno e qualche spezie che rimanda al pepe verde e all’eucalipto.

Il sorso è gustosissimo, di buon volume, di una certa morbida avvolgenza il tutto però innervato da una scalpitante acidità che non deborda mai, anzi sostiene lo sviluppo come da dietro le quinte, senza rubare mai la scena alla dolcezza del frutto. Il vino è dinamico, leggero (12,5%) eppure di grande personalità. Il tannino in chiusura dà grip e allungo sapido.

Plus: un vino naturale dall’eleganza sopraffina.

Diego Mutarelli
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Au Chant de la Huppe 2022 – Henri Chauvet

gamay-pinot noir

Oggi parliamo di un altro vino di Henri Chauvet, produttore dell’Auvergne di cui abbia già parlato qualche tempo fa. Per qualche informazione sul produttore invitiamo a leggere quel post, qui proseguiamo invece parlando del vino che abbiamo assaggiato in questa occasione.

Henri Chauvet

Côtes d’Auvergne “Au Chant de la Huppe” 2022 – Henri Chauvet

Vino naturale ottenuto da gamay e pinot noir vinificati separatamente e poi assemblati e invecchiati in botti di legno esauste. Il vino ha un bel colore rubino chiaro di grande luminosità. Naso pulito ed espressivo di frutta rossa (fragola, arancia rossa), viola, mineralità scura, cola.

Sorso improntato sulla freschezza che, insieme ad un tenore alcolico piuttosto contenuto (11,5%), rendono la beva scorrevole e golosa. La delicata effervescenza presente nel vino appena versato (suggeriamo una caraffatura) svanisce dopo qualche minuto di attesa. Il vino è estroverso anche in bocca, tanta frutta rossa e dinamicità, tannino setoso, sottile scia sapida e chiusura su ritorni di fruttati e amarognoli che richiamano la radice di liquirizia.

Plus: vino ben fatto che metterà d’accordo sia i winesnob, che ne apprezzeranno l’eleganza e l’impronta borgognona, che gli intransigenti del vino naturale che ne riconosceranno la spontaneità.

Diego Mutarelli
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Faccia a Faccia: Lugana

Torniamo con la nostra rubrica “Faccia a Faccia” parlando questa volta del Lugana DOC, affiancando e confrontando due vini della denominazione ottenuti dal vitigno turbiana (trebbiano di Lugana).

Questa volta abbiamo assaggiato vis-à-vis due vini della medesima azienda, realtà che avevamo conosciuto ad un evento e che ci aveva colpito per l’impostazione elegante, rigorosa ed espressiva dei suoi vini. Si tratta di Montonale, azienda di Desenzano del Garda che possiede 35 ettari di vigna di varietà turbiana in prevalenza, affiancata però anche da alcune varietà a bacca rossa: cabernet sauvignon, merlot, marzemino, barbera e groppello.

Lugana “Montunal2024 – Montonale

Vino ottenuto da 100% turbiana, fermentazione spontanea e vinificazione in inox con affinamento di almeno 6 mesi sulle fecce fini con costanti bâtonnage.

Colore bianco paglierino con riflessi verdolini, il vino ha un profilo giovane e immediato, si muove elegantemente su rimandi aromatici di clorofilla, aneto, pompelmo e un’intrigante nota floreale dolce (gelsomino). Il primo impatto in bocca è quello della freschezza, ma non solo, il vino ha dinamica, allungo e progressione. Il risultato è una bevuta scorrevole senza però rinunciare ad una certa ampiezza. Chiude su ritorni sapidi e agrumati.

Lugana Montunal

Lugana “Orestilla” 2021 – Montonale

Anche in questo caso parliamo di un vino 100% turbiana che segue una vinificazione simile al vino precedente con un affinamento sulle fecce nobili di 8 mesi in questo caso. Orestilla nasce dall’omonimo vigneto di 2 ettari ed è dunque un cru aziendale che beneficia di un terroir particolare che conferisce al vino longevità e struttura. Assaggiamo dunque il vino a qualche anno dalla vendemmia per metterne alla prova anche l’evoluzione.

Il colore è un paglierino chiaro con riflessi verde-oro, il primo naso è delicatamente sulfureo, poi si apre, senza abbandonare mai il registro minerale, su note di scorza di agrumi, ananas, erbe aromatiche, burro alle erbe, frutta bianca poco matura (mela, pera). Il sorso è morbido e pieno, avvolgente, l’acidità è comunque ben presenta ma in filigrana nel corpo del vino, non prende mai il sopravvento. Il vino ha un certo calore alcolico ben bilanciato dalla chiusura sapida e con un intrigante pizzico di tannino. Vino ambizioso che riesce a coniugare eleganza e complessità.

Lugana Orestilla

Riflessioni conclusive

L’assaggio di questi due Lugana ci ha incuriosito e ci sprona ad approfondire un territorio non così presente nelle cantine degli eno-appassionati. Invece il Lugana sa sorprendere e soprattutto coinvolgere grazie ad un’eleganza che ha pochi uguali. Ci sono piaciute entrambe le versioni del vino, con il Montunal 2024 più sbarazzino e dalla vivace freschezza, che vediamo bene servito in aperitivo o con antipasti leggeri, e l’Orestilla 2021, vino che mostra le potenzialità del Lugana con un medio invecchiamento ed è più adatto a primi piatti a base di pesce, pesce in umido o crostacei. Non da ultimo, due vini che valgono il loro prezzo (circa 15 € per il Montunal, e circa 30 € per l’Orestilla).

Diego Mutarelli
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Visita presso Château-Figeac, al vertice del nuovo classement di Saint-Émilion

Durante le vacanze estive appena trascorse, di passaggio nei pressi di Bordeaux, abbiamo avuto modo di trascorrere qualche ora a Saint-Émilion, celebre terroir della rive droite. Eravamo molto curiosi di conoscere Château-Figeac, recentemente issatosi al vertice del classement di Saint-Émilion. Infatti a Saint-Émilion – diversamente da quanto succede nella rive gauche con un classement sostanzialmente immutabile dal 1855 – il classement viene rivisto ogni 10 anni. E l’ultima revisione del 2022 ha portato non poche sorprese:

  • l’uscita dal ranking, per propria decisione di non sottostare alla valutazione della commissione, di tre aziende celeberrime: Angélus, Ausone e Cheval Blanc
  • l’ottenimento del massimo riconoscimento tra i Premiers grands crus classés (A) di sole due aziende, ovvero Château Pavie (conferma del classement precedente) e, appunto, Château-Figeac (promossa al vertice della piramide qualitativa di Saint-Émilion).
Château Figeac

Il nuovo classement ha attribuito un riconoscimento a solo 85 aziende che sono state così suddividise:

2 Premiers Grands Crus Classés A

12 Premiers Grands Crus Classés

71 Grands Crus Classés

Se vuoi dare uno sguardo complessivo agli 85 Châteaux classificati visita pure il link ufficiale accessibile cliccando qui.

Château Figeac è un’azienda storica di Saint-Émilion, addirittura la sua presenza è attestata in epoca gallo-romana, quando era di proprietà della famiglia Figeacus. É posseduta dalla famiglia Manoncourt dal 1892, che con l’annata 2023, ha festeggiato infatti la 130sima vendemmia!

L’azienda possiede 54 ettari, di cui 41 a vigneto: cabernet franc, cabernet sauvignon e merlot in parti uguali; una presenza così bassa di merlot nella rive droite è piuttosto anomala e deriva dal terroir peculiare delle vigne di Figeac, che in buona parte è composto da graves (ghiaia e ciottoli), suolo ideale per il cabernet. Peraltro lo Château grazie alla presenza di 2/3 di cabernet nel proprio blend si avvantaggia di freschezza ed eleganza proprio in un periodo di riscaldamento climatico dove molte aziende si trovano in difficoltà a gestire un vitigno precoce come il merlot.

Abbiamo visitato la cantina e la sala di degustazione rinnovate nel 2021 e incastonate negli originari ambienti dello Château grazie ad una sorprendente opera di recupero architettonico. La nuova cantina si sviluppa verticalmente su tre livelli ed è amplissima e moderna; ricorda, per l’uso abbondante di vetro, acciaio e legno, una strana creatura metà piroscafo, metà astronave. Molto eleganti e luminosi gli spazi dedicati alle degustazioni con i clienti in cui siamo stati ospitati. Oltre alle foto che sotto riportiamo suggeriamo di visionare questo video per provare a camminare, seppur virtualmente, nella cantina.

L’azienda produce due bottiglie di vino rosso: il second-vin chiamato Petit Figeac (circa 40.000 bottiglie) ed il grand-vin Château Figeac (circa 120.000 bottiglie). Dopo una selezione molto accurata delle bacche la fermentazione avviene prevalentemente in vasche di acciaio inox (solo 8 sono di legno) e quindi il vino sosta in barriques (nuove al 100% per il grand-vin, mediamente 16 mesi), dove si svolge la malolattica. La cosa interessante da sottolineare è che solo in questo momento, dopo l’assaggio delle barriques e le prove di assemblaggio, si decide cosa ha la qualità per andare nel vino principale e cosa resta nel vino di ricaduta Petit Figeac. Non è dunque una selezione delle uve o delle vigne (ad esempio vigne più giovani nel second vin come accade in altri casi), ma proprio una selezione dei vini che decide anno per anno come sarà ottenuto il grand-vin.

I vini assaggiati:

Saint-Émilion Grand Cru Petit-Figeac 2021: una percentuale più alta di merlot (50%) rispetto al fratello maggiore ed un uso meno preponderante del legno nuovo. Si tratta di un second vin approcciabile anche in gioventù (ma durerà qualche lustro) che ora si presenta con un olfatto espressivo e caratterizzato da un certa dolcezza di frutto (ribes), ma anche fiori rossi, scatola di sigari ed un tocco erbaceo. Sorso ampio e voluttuoso ma l’acidità non manca, il vino è scorrevole dal tannino vellutato. Sapido in chiusura. Un vino che coniuga eleganza e dolcezza, la confezione è perfetta e di grande equilibrio senza alcun eccesso di morbidezza. Non è solo un vino di ricaduta insomma.

Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé Château-Figeac 2018: prugna, marasca, la dolcezza dello zucchero filato, ma anche spezie e frutta secca… il naso è piuttosto leggibile nonostante la relativa giovinezza. Il sorso è sorprendente nella sua intensità e volume, materico e denso eppure per nulla statico. Vi è infatti un’ottima progressione, l’acidità è l’architrave della costruzione enologica, il vino è largo sì, ma anche profondo e dal tannino ben integrato che solo in chiusura fornisce il giusto appiglio. Lunghissimo su note saline e di frutta rossa. Vino di impatto ma non dimostrativo, la materia possente non è fine a sé stessa ma funzionale ad un vino che vuole essere di grande prospettiva ma godibile anche in gioventù.

Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé Château-Figeac 2009: questo assaggio inizia a mostrare le potenzialità che l’evoluzione in vetro apporta ad un grande Bordeaux, il vino risulta più disteso e complesso del precedente, con sfumature affascinanti: baccello di vaniglia, confettura di more, scatola di sigari, sottobosco, ma anche cuoio, grafite, sangue e un tocco vegetale….Sorso sorprendentemente fresco, dal tannino fitto ma fine. Se il millesimo 2018 era avvolgente e potente, questo 2009, non certo esile, gioca maggiormente sull’eleganza ed il ricamo aromatico. La persistenza è notevolissima.

Diego Mutarelli
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Cinque amici a cena con cinque bottiglie

Monvigliero Burlotto

Metti cinque amici a cena con altrettanti vini bevuti alla cieca. Chiacchiere, divertimento e qualche interessante confronto sui vini degustati che di seguito proviamo a condividere.

Champagne Ambonnay Grand Cru Rosé – André Beaufort, uno Champagne rosé che abbiamo la fortuna di bere con una certa regolarità (e ne abbiamo parlato più volte anche su queste pagine, ad esempio in questo post) e che ogni volta ci ammalia. Il colore è un rosa aranciato di grande fascino, l’olfatto un tripudio di spezie, radici, agrumi amari, ma anche fiori dolci e lamponi maturi. Bollicina fitta ma sottilissima e delicata, il sorso è dolce e salato allo stesso tempo, grande freschezza, trascinante nella beva e lungo in chiusura su ritorni di agrumi e spezie. Si parte con il botto!

Fiano 2018 – Pietracupa, ottima riuscita per questo fiano di Pietracupa che alla cieca ha giocato a nascondino con i degustatori, che non lo hanno identificato così facilmente. Colore giallo dorato, naso di frutta gialla e cera d’api, scorza d’agrumi, nocciola. Asciutto e fitto nel sapore, profondo e articolato nello sviluppo, chiusura molto elegante e di ottima mineralità. Ancora una volta i bianchi irpini lasciano il segno.

Arbois Chardonnay “Les Follasses” 2022 – Michel Gahier, vino che appena versato non è perfetto, un tocco di volatile al naso copre i profumi tra i quali emergono ricordi di pompelmo, cerino spento, orzo. Il sorso è esuberante con una freschezza in primo piano e ancora da integrarsi nel corpo del vino. Chiude su ritorni di frutta bianca e sale. Vino scorbutico, forse si assesterà, ma era di certo lecito attendersi di più da un grande interprete del Jura.

Barbaresco Montestefano 2020 – Serafino Rivella, eleganza senza pari per il Barbaresco Montestefano di Rivella. Note di anguria, frutti rossi, rosa canina, spezie, menta…sorso saporito, l’acidità dona slancio e profondità, leggero nell’incedere, l’alcol è gestito alla perfezione, il tannino è pura seta. Snello, dissetante e persistente.

Barolo Monvigliero 2017 – Comm. G.B. Burlotto, olfatto di grande personalità, dapprima su radici e salamoia, poi si apre su note più espressive di sangue, cetriolo, susina…ma è in bocca che questo vino dimostra la classe che ormai gli è universalmente riconosciuta, il sorso è infatti dolce e tannico insieme, l’acidità è ben presente e perfettamente integrata nella materia, lo sviluppo è fitto nel sapore e innervato da un tannino a coste larghe. Sapidissimo.

Diego Mutarelli
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Un sorprendente vino bianco del Priorat

Terroir al Límit

Alla consueta degustazione alla cieca con amici è spuntata una bottiglia di vino bianco che mi ha colpito particolarmente. I degustatori, compreso il sottoscritto, non riuscivano a ricondurre quel vino ad alcuna denominazione bianchista europea. La sola convinzione che avevo su quel vino, a parte la sua bontà, era che fosse del Mediterraneo. Un vino dunque che poteva essere di molti paesi, ma che portava con sé inequivocabilmente il DNA transnazionale del Mediterraneo.

Terroir al Límit

Priorat Blanc “Terra de Cuques” 2017 – Terroir al Límit

Eravamo dunque al cospetto di un vino bianco della denominazione spagnola del Priorat. Il Priorat è una delle denominazioni più importanti di Spagna ma è nota soprattutto per i suoi vini rossi vigorosi e longevi. Il vino che abbiamo nel calice è invece un vino ottenuto da grenache blanc (60%) e pedro ximenez (40%). L’azienda che lo produce si chiama Terroir al Límit, un progetto biodinamico nato nel 2001 da Eben Sadie, importante enologo sudafricano, Dominik Huber, al tempo studente tedesco di economia, e Jaume Sabaté, investitore spagnolo. Dominik Huber ha portato avanti con determinazione l’azienda puntando tutto sul carattere mediterraneo dei suoi vini che definisce vini “più di infusione che di estrazione“, ovvero vini che cercano – in un territorio tradizionalmente incline all’alcol, al frutto e alla potenza – freschezza, eleganza e beva.

Il vino si presenta di un colore dorato con qualche velatura. Il naso è un caleidoscopio, si rincorrono note di frutta come nespole, fichi e mandorle, poi una mineralità netta tra la pietra focaia e la roccia, poi note più chiare di camomilla e menta, e ancora caffè e scorza d’arancia… il vino cambia continuamente nel calice ed è entusiasmante inseguirlo nelle sue evoluzioni, una complessità che definirei giocosa e non “prestativa” o artificiosa. Il sorso non smentisce la stratificazione e dinamica che l’olfatto introduce, il vino risulta mobile e saporito, la freschezza è ben presente e la chiusura è lunga e sapida su ritorni minerali e di erbe medicinali.

Diego Mutarelli
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