Virtù etiche e virtù vitivinicole: Benvenuto Brunello 2019

Se qualcuno chiedesse la mia opinione su una bella annata come la 2019 a Montalcino, che cosa potrei rispondere in modo da non risultare banale?

Sabato 25 novembre ho avuto la fortuna di potermi accomodare in uno dei tavoli sistemati nel chiostro del Consorzio del Brunello di Montalcino e di assaggiare in anteprima la nuova annata che sarà disponibile sul mercato a partire da gennaio 2024.

Faccio una doverosa premessa, visto che non scrivo su questi canali da un po’: se qualcuno chiedesse la mia opinione su un Brunello, probabilmente lo farà sapendo che il sangiovese fa parte del mio lavoro da una decina d’anni, tuttavia non sono di Montalcino, anzi non sono nemmeno toscana, e se spesso questa la sento come una condanna divertente, allo stesso tempo credo che le mie radici siano sufficientemente lontane da permettermi di mantenere la giusta distanza e un certo senso critico.

Ora, come direbbe Soldati, vino al vino, quindi torniamo a ciò che conta davvero. Seduta al mio tavolo, con sei bicchieri davanti, ho avuto circa tre ore a disposizione per farmi un’idea del frutto di anni di lavoro da parte dei produttori di quest’angolo di Toscana.

Leggendo la lista dei vini a disposizione, ho notato diversi elefanti nella stanza, o meglio nel chiostro, certi grandi assenti, perciò ho provato ad accogliere questa mancanza con positività, visto che solo così avrei degustato in maniera più democratica, senza precipitarmi sulle bottiglie che solitamente prediligo. Andando a memoria, la 2019 è stata un’annata calda e soleggiata e allo stesso tempo di grande equilibrio, soprattutto nell’ultima fase di maturazione dell’uva, dove le escursioni termiche hanno permesso una vendemmia di quantità e di qualità. Fare vino e fare filosofia li vedo procedimenti molto simili, dopotutto ogni cantina ha una sua storia e una sua filosofia di produzione. Non solo, produrre un buon vino presuppone la ricerca della virtù, o meglio dell’aretè greca, vale a dire l’indagine sull’essenza bella e buona di ciascuna cosa, che sia un’uva, un territorio o una particolare annata, in modo da plasmare e rendere questi elementi ciò che devono essere.

I greci dicevano poi che l’esercizio della virtù va fatto katà métron, secondo misura, perché l’armonia non prevede esagerazioni, e a mio avviso i produttori sono più inclini ad applicare questa regola nelle annate difficili, quando il calcolo, la misura e la proporzione in vigna e in cantina fanno la differenza. Se l’annata invece è molto buona e ricca di promesse, l’estro sarebbe invogliato ad estrarle tutte. Sono tanti gli esempi vinicoli in cui la tentazione di estrapolare in abbondanza ha preso il sopravvento, e il risultato è sempre smisurato. Basti pensare alla concentrazione di alcune bottiglie di Gran Selezione di Chianti Classico, seppure questa sia la denominazione che prediligo come espressione di sangiovese al giorno d’oggi, oppure alla predominanza del legno in certe espressioni di Brunello di Montalcino in un’annata straordinaria come la 2016. L’unico mio timore quando mi sono seduta a quel tavolo di degustazione era proprio la mancanza della giusta misura.

Ho capito solo lavorando nel mondo del vino il vero significato di questo senso di misura talmente importante nell’antichità. Con l’orologio alla mano ho dato inizio alla prima batteria di assaggio. Calice dopo calice, ho scoperto vini molto aperti e disponibili, già equilibrati e piacevoli, alcuni più timidi di altri per via della gioventù, in altri casi invece ho notato una certa esuberanza nei sentori dati dal legno, sperando sempre che il tempo riesca a placarla un poco. Lo scopo di questa mia indagine era quello di scovare un filo conduttore tra gli assaggi, e non ho fatto una gran fatica a trovarlo: la raffinatezza del tannino, setoso perché giunto alla giusta maturazione, accompagnato da profumi molto freschi, che contenevano e bilanciavano il tenore alcolico, infine una concentrazione movimentata dall’acidità. L’equilibrio, la giusta misura, l’armonia, sono dopotutto il mantra dei più elevati pensieri filosofici.

Se ogni indagine porta in ogni caso al sommo bene, ho deciso di accogliere con un certo stupore e meraviglia i vini che si sono distinti per la loro finitura garbata, e mi scuso se in tre ore non ho fatto in tempo ad assaggiare tutto ciò che avrei voluto.

Lisini (etichetta nera), era da qualche anno che aspettavo mi meravigliasse come una volta, l’ho trovato sfaccettato nei profumi, con piacevoli note di frutti di bosco e un tannino poco timido, promessa di una grande longevità.

Pietroso, ho chiesto una seconda bottiglia perché la prima non mi convinceva. Eccoci finalmente. Dinamico e rigoroso allo stesso tempo, dal gusto pieno, squisitamente floreale.

Tassi Vigna Colombaiolo, nonostante lo stile riduttivo che apprezzo spesso nel sangiovese ho ritrovato comunque un frutto dolce e un tannino morbido e succoso, in equilibrio con l’acidità.

Talenti Selezione Piero, colore concentrato, mi ha sorpresa il frutto blu che ho ritrovato sia al naso che in bocca. Spesso tendiamo a pensare che la frutta così scura sia l’anticamera dell’opulenza, in realtà in questo caso si trattava di un mirtillo freschissimo e croccante.

Casanova di Neri (etichetta bianca), peccato non essere ancora riuscita ad assaggiare il Brunello Giovanni Neri, tuttavia anche qua è facile scoprire un’interpretazione incline al gusto baroleggiante, nella sua accezione più elegante e positiva.

Sesti, ho particolarmente apprezzato il suo centro bocca, voluminoso ma mantenendo sempre quel senso di proporzione proprio di un vero Brunello.

– Infine come ogni anno voglio dedicare lo spazio a un Rosso di Montalcino che mi ha stupito più di tanti Brunelli, ovvero il Rosso 2021 di Gorelli, così succoso e piacevole, dal naso salino e il tannino di velluto.

“Ogni arte e ogni indagine persegue un qualche bene,
e per questo il bene è stato definito ciò cui tutto tende.”

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Assaggi FIVI alla Fiera di Bologna

Cambia il posto ma non l’eccitazione fanciullesca che ci pervade ogni volta che andiamo al mercato FIVI; diciamo subito che Bologna Fiere ha saputo gestire al meglio i quasi mille vignaioli FIVI, i tantissimi visitatori, i loro carrelli e la tanta voglia di incontrarsi ad un appuntamento oramai irrinunciabile.

E siccome siamo in Romagna eccovi subito due espressioni di sangiovese della zona; abbiamo iniziato con un rifermentato rosato di Stefano Berti: fresco, profumato senza scadere in note stucchevoli a dispetto del nome, Rossetto, un vino che  ci porta subito su una lunga e sabbiosa spiaggia della vicina riviera.

Il secondo sangiovese era tanto che volevamo assaggiarlo, complici la lettura, sulla rivista AIS Viniplus, di una verticale a firma di Armando Castagno. L’articolo lo trovate a questo link. Siamo nel cuore della collina romagnola, a Bentinoro dove, da vigneti di sangiovese piantati ad alberello su un tipico sasso locale – lo spungone, matrice calcarea ricca di fossili marini, “starter naturale” di freschezza e sapidità – nasce  Fermavento dell’azienda Giovanna Madonia; abbiamo provato l’ultima annata in commercio, la 2021: affinata in acciaio e barrique, ci ha colpito per l’equilibrio fra note fruttate e delicata speziatura al naso e per un allungo fresco ma  deciso in bocca.

E ora passiamo ad un piccolo produttore della Franciacorta, Rizzini: due ettari di chardonnay, solo millesimati con lunghissimi affinamenti; i due spumanti in degustazione, rispettivamente un Brut Nature 2016 e un Extra Brut 2010, spiccano per carattere, eleganza e grande freschezza.

Rimandendo su Metodo Classico sempre a base chardonnay, andiamo in Trentino, da una nuova realtà di due giovani fratelli, Tommaso e Luca Moser e la loro azienda Resom, che eravamo andati a conoscere proprio nelle sue fasi embrionali; è stato quindi un grande piacere, a distanza di qualche anno, vederne i progressi e finalmente degustare il vino che avevamo visto sur lies nella loro cantina. Brek, millesimo 2019, mostra il lato più immediato dello chardonnay, con le sue note floreali e di frutta gialla; l’ottimo rapporto qualità prezzo ci spingono a consigliare ancora di più questo Trento DOC.

Nei nostri due giorni in fiera abbiamo spaziato dal prié blanc di Morgex, della Valle d’Aosta, al bianchello della Valle del Metauro, nelle Marche, fino all’aglianico del Vulture e restiamo con la certezza che il mercato FIVI, ovunque sia, è sempre una garanzia.

Alessandra Gianelli
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Faccia a Faccia: Dogliani

Il “Faccia a Faccia” di oggi è dedicato ad una denominazione-vitigno. Parliamo infatti di due vini Dogliani DOCG, 100% dolcetto, vitigno che con Dogliani ha stretto un legame molto antico: la presenza della varietà su queste colline sembra essere stata accertata già nell’anno Mille, mentre risale al 1593 il primo documento conservato negli archivi di Dogliani in cui viene nominato il vitigno dolcetto.

Il dolcetto è uno dei vitigni più diffusi del Piemonte meridionale. Il suo nome trae in inganno: se l’uva è dolce il vino non lo è per nulla, anzi essendo molto ricco di tannini nei vinaccioli spesso tende a chiudere con un sentore piuttosto amaricante. Inoltre, il vezzeggiativo fa pensare ad un vino piccolo e scorrevole, tutt’altro che di impatto. Non è invece così: la carica polifenolica del vitigno, la tendenza a maturare precocemente e anche la difficoltà agronomica nell’allevarlo fanno sì che la varietà sia tutt’altro che semplice da gestire in vigna e in cantina e dia a origine a vini spesso ricchi di materia fruttata, calore e tannini.

Dogliani Superiore DOCG “Bricco Botti” 2019 – Pecchenino

L’azienda Pecchenino è una realtà storica di Dogliani, oggi conta 35 ettari di vigneto tra Dogliani, Monforte d’Alba, dove produce Barolo, e Bossolasco, dove invece si dedica ai vini bianchi e all’Alta Langa.

Il vino che abbiamo nel calice proviene da un’unica vigna di 30 anni d’età ed affina 24 mesi in legno grande. Il colore è un classico rubino con riflessi porpora. Il naso è di grande impatto e intensità: inchiostro, frutta matura (ciliegie sotto spirito, prugne), rose rosse, un’eco balsamica. Se l’olfatto preannuncia un vino potente e compresso, il sorso sorprende positivamente per misura ed equilibrio: l’alcol (14%) pur presente è ben bilanciato da buona acidità, allungo sapido e fine tannino. Il vino è comunque di volume, di una certa muscolarità ma la bevibilità non ne risente, soprattutto se degustato in accompagnamento a carni con sughi ed intingoli (stufati o brasati).

Chiude di ottima lunghezza su ritorni di frutta sotto spirito e rose.

Dogliani DOCG “San Luigi vigna la Costa” 2019 – Chionetti

Di Chionetti abbiamo parlato diffusamente a seguito di una visita in azienda (il post lo puoi leggere qui). Il dolcetto che abbiamo nel bicchiere ha un colore pressoché identico al vino di Pecchenino, l’olfatto è invece più delicato, si apre su un bel floreale, poi arriva la dolcezza della frutta rossa (lampone), quindi erbe officinali, pepe e liquirizia.

In bocca il vino ha ottima ampiezza e volume, si muove con ragguardevole dinamica e stratificazione aromatica. L’acidità accompagna il sorso, che si sviluppa in progressione, il tannino è a coste larghe ma saporito, il frutto in chiusura lascia spazio ad una scia amaricante che ricorda il bastoncino di liquirizia.

Riflessioni conclusive

Due ottimi dolcetto, anzi, pardon, due ottimi Dogliani! I due vini che abbiamo assaggiato non ci hanno fatto rimpiangere il nostro amato nebbiolo, a Dogliani il dolcetto si esprime infatti con una complessità e un’intensità che non lo relegano di certo al ruolo di comprimario, ma che anzi ritagliano uno spazio di tutto rispetto in un’immaginaria carta dei vini langarola, soprattutto per una maggior versatilità e facilità di abbinamento gastronomico. Detto che entrambi i campioni assaggiati sono prodotti di grande qualità e sicuro interesse organolettico, non mi tiro indietro nell’esprimere la mia personale preferenza per la versione più elegantemente austera di dolcetto interpretata da Chionetti rispetto alla versione, pur molto buona, più materica e potente di Pecchenino.

Diego Mutarelli
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Sabbie di Sopra il Bosco 2017 -Nanni Copè

Nanni Copè è un’azienda vitivinicola dell’alto Casertano che ha da raccontare una storia senza uguali. Sì, perché la sua ascesa nel mondo del vino è stata fulminea (e meritatissima) quanto la sua conclusione repentina e inaspettata.

L’azienda nasce nel 2008 per opera di Giovanni Ascione, manager prima, degustatore e comunicatore del vino poi, ed infine vignaiolo. I suoi vini, a partire dal Sabbie di Sopra il Bosco di cui parleremo nel dettaglio tra poco, hanno riscosso un grande successo fin dalle prime uscite. Poi però, dopo undici vendemmi ricche di soddisfazioni e successi, Nanni Copè chiude, o meglio, Giovanni Ascione decide di vendere la vigna per dedicarsi ad altro; non abbandonando del tutto il vino, come dimostra ad esempio una recente collaborazione, da négociant, con Maurizio Alongi nel Chianti Classico.

Avremmo forse tutti dovuto prendere più seriamente il motto riportato in etichetta nei vini di Nanni Copè, “Una Vita, Tante Vite”. Fortunatamente però i vini rimarranno ancora per diversi anni a farci compagnia.

Terre del Volturno IGT “Sabbie di Sopra il Bosco” 2017 – Nanni Copè

Si tratta di un vino rosso ottenuto da una vigna di 2,5 ettari composta in prevalenza da pallagrello nero con, a saldo, aglianico e casavecchia.

Abbiamo nel calice l’ultima annata prodotta del Sabbie di Sopra il Bosco. Si presenta in veste rubino fitto integro e senza alcun cedimento. L’olfatto è ampio e articolato: si apre sul frutto di bosco (more), per poi passare note più vegetali e speziate (aghi di pino, erbe officinali), quindi il quadro si rinfresca sugli agrumi (arancia e tamarindo), non manca un bel floreale rosso.

Il sorso è molto succoso, l’acidità è prorompente e ben integrata in una notevole massa fruttata, il tutto conferisce una beva pericolosamente golosa. In chiusura il tannino fitto e fine fa capolino a ricordare che ci troviamo davanti ad un rosso campano dalle grandi potenzialità di invecchiamento.

Chiude lungo su ritorni di more e resina.

È un vino che merita un cosciotto di agnello al forno.

Diego Mutarelli
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Orange, biodinamico, toscano: BiancoAugusto 2019 – Le Verzure

Abbiamo già parlato dell’azienda Le Verzure. Nel 2021 il loro vino BiancoAugusto ci aveva colpito particolarmente all’evento FIVI di Piacenza. Da quel giorno una bottiglia riposava in cantina in attesa di essere riassaggiata con calma.

Le Verzure si trova a Murlo, in provincia di Siena, a pochi kilometri in linea d’aria da Montalcino. Azienda agricola (non solo vitivinicola) biologica e biodinamica che conta 43 ettari di bosco, seminativo, uliveto e vigneto (poco più di 6 ettari).

Il BiancoAugusto è un vino ottenuto da uve trebbiano e malvasia, che fermentano spontaneamente in anfore di terracotta, le bucce restano a contatto con il mosto per tutto l’inverno, poi il vino viene svinato e affinato ancora in anfora. Si tratta dunque di un bianco vinificato in rosso, un vero e proprio orange wine.

Toscana IGT BiancoAugusto 2019 – Le Verzure

Il colore, vista la particolare modalità di vinificazione, è un luminoso ambra con riflessi arancione. Il naso è sfaccettato e definito ma non urlato, ha carattere ma anche misure, le spezie (curcuma, cumino, resina) si mescolano alla scorza d’arancia, un tocco esotico che ricorda il mango completa il quadro olfattivo.

Sorso secco e fresco ma di rassicurante avvolgenza, si distende con grande dinamica e progressione, senza spigoli o strappi nella trama. L’astringenza tannica finale è piacevole e la chiusura risulta tersa e sapida su ritorni agrumati e di frutta secca.

Plus: orange wine molto elegante per la tipologia, persino delicato nei suo titolo alcolometrico di 12%, risulta originale e saporito e di grande versatilità a tavola. È stato abbinato con successo ad un cous cous di verdure, pollo e agnello.

Diego Mutarelli
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Centanni, una storia di famiglia

Oggi, a seguito di un’istruttiva visita in azienda, parliamo di una cantina – Vini Centanni – che da tre generazioni custodisce e rappresenta il Piceno ed è ora guidata magistralmente da Giacomo Centanni che, fatto tesoro dei consigli del padre e del nonno, porta avanti un concetto di fare vino nel rispetto del territorio e delle sue leggi. L’azienda agricola, certificata biologica, si trova a Montefiore dell’Aso, un delizioso borgo posto in collina incastonato tra le valli del fiume Aso e del torrente Menocchia.

I vigneti sono tutti di proprietà e sono localizzati in media a 150 metri sul livello del mare con una disposizione ovest e nord-ovest che garantisce un’esposizione particolarmente favorevole alla realizzazione dei vini DOC e IGP.

Tutto il processo è guidato dalla tradizione, un bagaglio culturale che esprime un sapere di famiglia e la voglia di riscoprire e trasmettere i propri valori nel rispetto delle tecniche tradizionali senza rinunciare all’ausilio delle nuove tecnologie. Un mix vincente di tradizione e innovazione, che ritroviamo dalle fasi iniziali del processo produttivo fino alla confezione finale con una linea di vini affinati in acciaio o legno e dotati di tappo in vetro.

I vitigni impiegati rientrano nel ventaglio dei vitigni autoctoni del territorio Piceno come il pecorino e la passerina tra quelli a bacca bianca e il montepulciano e il sangiovese tra quelli a bacca nera.

La degustazione inizia con la linea vendemmia tardiva, si tratta di vini derivanti da vigne di almeno 25 anni e i cui frutti arrivano a maturazione più tardi rispetto ai vigneti più giovani. Da questa prerogativa è nata l’idea di creare vini che Giacomo ama definire “naturalmente slow” e che è pensata per il mondo della ristorazione. Abbiamo assaggiato i quattro vini di questa gamma, ovvero “Cimula” Passerina Docg, “Canapale” Pecorino Docg, “Renarie” Rosso Piceno Superiore Doc (un blend di montepulciano e sangiovese) e, infine, “Floralia” un Marche Rosato Igp bio.

La degustazione del passerina Cimula 2022 ha suscitato delle grandi emozioni dal punto di vista olfattivo e gustativo in quanto la vendemmia tardiva arricchisce il vino di un tenore alcolico di tutto rispetto mentre il colore vira sul giallo paglierino dai riflessi dorati. Infine una nota di cedro candito e una buona morbidezza fanno del Cimula una passerina sui generis. A seguire un calice di Canapale 2022, un pecorino da vendemmia tardiva che non ha tradito le aspettative e si è presentato in tutte le sue peculiarità, quindi un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e una notevole acidità, una buona struttura e note di frutta esotica e nuance di salvia. A chiudere la linea vendemmia tardiva un calice di Renarie 2021, un Rosso Piceno Superiore Doc composto da un 80% di montepulciano e un 20% di sangiovese di grande morbidezza ed eleganza.

L’esperienza degustativa prosegue con Puro Centanni Rosso 2022 un vino senza solfiti aggiunti ottenuto da uve provenienti da diverse varietà a bacca rossa, un taglio studiato dopo moltissime prove svolte per anni da Giacomo Centanni. Il vino si muove con leggiadria nel calice e una nota di frutta cotta caratterizza la bevuta.

La proposta enologica vira verso le riserve, una linea affinata in legno composta dal Santa Maria Pecorino 2021, una bella espressione del vitigno affinata in barrique e dal PrimoDelia 2019 un Marche Rosso Igt affinato in barrique e frutto di 5 tipologie di vitigni autoctoni ed internazionali, un segreto tramandato dai nonni Primo e Delia. Per il Santa Maria il passaggio in barrique aggiunge ai sentori tipici del pecorino una elegante nota vanigliata. Il PrimoDelia si veste invece di un colore rosso rubino intenso e il sorso risulta pieno e corposo con un richiamo alle note fruttate, erbacee e tostate con una discreta persistenza.

Una chiusura di degustazione degna dello stile della cantina Centanni, uno scrigno raro che racchiude perle di rara bellezza: la famiglia, la tradizione, il territorio e il rispetto della natura.

Walter Gaetani

Jérémy Bricka, vis à vis con il vigneron emergente dell’Isère

Qualche tempo fa abbiamo già scritto del Domaine Jérémy Bricka, in quell’occasione l’incontro era stato indiretto, mediato cioè da un suo vino che ci aveva colpito. Questa volta, complice un viaggio in Francia, abbiamo deciso di conoscere di persona questo vigneron emergente.

Jérémy Bricka è un enologo che seguito otto vendemmie da Guigal, ha poi affiancato diversi produttori (tra i più noti Bret Brothers & La Soufrandière e Clape) prima di mettersi in proprio in Isère, una regione che, per usare un eufemismo, non è certo nota per la vigna ed il vino. Territorio però che prima dell’arrivo della fillossera registrava oltre 33.000 ettari di vigna! Altri tempi certo, eppure…complice il cambiamento climatico e le caratteristiche dei vitigni autoctoni della zona – varietà tardive e poco alcoliche – Jérémy ha deciso di provarci. Non si è fatto sfuggire l’opportunità di nuovi impianti, per un totale di 5 ettari, in un territorio ricco di scisti tra i 500 i 700 metri di altitudine. I vitigni prescelti sono stati mondeuse blanche, altesse e verdesse in bianco, mentre in rosso la scelta è ricaduta su étraire de l’Aduï, douce noire, e mondeuse noire.

Le vigne di Jérémy Bricka – Photocredit: La Revue du Vin de France

In cantina si perseguono le fermentazioni spontanee e non si utilizza solforosa fino all’imbottigliamento. I vini bianchi fermentano e affinano in barrique di 10 anni, mentre per i rossi, si predilige l’acciaio e la fermentazione a grappolo intero senza rimontaggi.

Di seguito una rapida carrellata dei vini assaggiati in azienda che mi riprometto di approfondire grazie agli acquisti effettuati in loco.

Bivouac 2022: vino bianco ottenuto in parte da uve di terzi, ricordiamo che le vigne del domaine sono ancora giovani (2015) e dunque non del tutto a pieno regime. L’obiettivo di questo blend è quello di sfruttare la freschezza della jacquère, l’intensità della clairette e l’aromaticità del muscat per ottenere un vino di pronta beva, semplice e scorrevole ma che non rinunci a una certa articolazione ed armonia delle componenti. Obiettivo senz’altro raggiunto.

Passiamo poi ai due vini bianchi ottenuti da uve di proprietà, si tratta di due vini etichettati come IGP Isère “Pont de Brion”, la Mondeuse Blanche 2022 e la Verdesse 2022. Il primo vino ottenuto dal vitigno autoctono mondeuse blanche si muove su un registro di frutta bianca (pesca), scorza di agrumi e un tocco di nocciola, sorso fresco e gustoso, chiude molto sapido. Molto originale il vino ottenuto dall’antico vitigno locale verdesse: alla cieca farebbe pensare ad un savagnin del Jura, con nette note di mela accompagnate dalla frutta secca (noci, mandorle tostate), il titolo alcolometrico di 13,9% non segna per nulla il vino che anzi ha una grande dinamica, la bocca è sferzata da succosa acidità e persistente sapidità.

Per i vini rossi, anch’essi IGP Isère, abbiamo apprezzato la Douce Noire, dall’omonimo vitigno, che per certi versi ricorda un buon gamay, con i suoi rimandi di frutta rossa (fragola, lampone) e fiori (viola, peonia), vino molto piacevole. Più complesso e ambizioso il vino ottenuto da étraire de l’Aduï, rarissima varietà autoctona: frutta rossa (ciliegia, lamponi), un elegante tocco floreale e delle spezie in formazione che riportano al bastoncino di liquirizia e al pepe verde. 12,3% il titolo alcolometrico di questo vino stratificato al sorso e di grande dinamica. Abbiamo poi assaggiato la Mondeuse 2022, non ancora imbottigliata, che dimostra un grande carattere con un tannino ancora croccante ma non asciugante, si farà…

Continueremo a seguire questo produttore che ci pare essere una bella novità, e soprattutto una grande promessa, nel panorama dei vini naturali francesi.

Diego Mutarelli
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Raro 2020, dal Carso con furore

Abbiamo già parlato dell’Azienda Agricola Radovič, produttore emergente del Carso. Ma se in quell’occasione avevamo degustato un suo vino bianco, oggi parliamo invece di un vino rosso del Carso ottenuto da lunga macerazione di uve terrano e krvavec. Fermentazione spontanea e affinamento di tre anni in rovere, acciaio e vetro per un vino fortemente identitario.

Raro 2020 – Azienda Agricola Radovič

Si presenta di un colore rosso rubino fitto, sull’unghia i riflessi porpora fanno pensare ad un vino ancora in fase giovanile.

Il naso è dapprima floreale di rose rosse e peonia, poi il frutto di rovo (more) e sentori che ricordano il bosco tra rimandi di foglie secche, muschio e aghi di pino.

Sorso caratterizzato dalla grande verve acida (il terrano è pur sempre della famiglia dei refosco), il vino risulta infatti succoso e profondo, molto goloso grazie ad un tannino sottile e aggraziato ed una progressione gustativa dinamica e di ottima stratificazione. Chiude lungo su ritorni di frutti di bosco aciduli e sale.

Come abbinamento territoriale consigliamo questo vino ad accompagnare dei saporitissimi e speziati čevapčići.

Plus: il terrano dà normalmente vita a vini originali ma rustici, dall’acidità quasi indomabile. A Radovič riesce la quadratura del cerchio, ottiene cioè un vino perfettamente varietale smorzandone gli spigoli senza però ricercare surmaturazione o eccessi di legno, ma grazie ad una sensibilità fuori dal comune. Poco più di 1.000 le bottiglie prodotte.

Diego Mutarelli
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Modena Champagne Experience sesta edizione. Siete pronti?

Gli appassionati di Champagne – e noi di Vinocondiviso, come documentano i tanti post e le tante bottiglie bevute, siamo tra questi – hanno un appuntamento ormai fisso da sei anni a metà ottobre: a Modena per due giorni, il 15 e il 16 ottobre 2023, potremo assaggiare le espressioni più disparate di Champagne, un’occasione che non ha uguali in Italia.


Le grandi Maison, che hanno innegabilmente fatto la gloriosa storia della Champagne, e accanto a loro, le tante nuove realtà produttive piccole e familiari, quelle dei Récoltants-Manipulants, che negli ultimi anni si sono fatte conoscere anche dal pubblico italiano: troveremo entrambe queste due anime, durante la Champagne Experience per un totale di 176 aziende presenti e ben 900 vini.

Come districarsi in tutto questo eden rifermentato in bottiglia? Suggeriamo di scaricare da subito il catalogo (clicca qui!) e cominciare, come noi …, a togliere qualcuno dei tanti vini che vorremmo assaggiare e scegliere due zone da approfondire.
Noi quest’anno abbiamo optato per Côte des Blancs e Vallée de la Marne, non tralasciando di assaggiare le nuove cuvée di alcune storiche Maison, iscrivendoci anche a due sponsor class.

Speriamo di riuscire a fare tutto, ma una cosa è certa, ci divertiremo!

Alessandra Gianelli
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Bolgheri: fra terra e mare, nella luce

È oramai una consuetudine, per la delegazione AIS di Milano, festeggiare il proprio compleanno con una masterclass a firma di Armando Castagno; quest’anno il tema scelto è stato Bolgheri: si è partiti dalla storia, per poi analizzare la zona di produzione, il disciplinare, le uve coltivate e non ultimo dodici vini in degustazione, in grado di sigillare nella mente il viaggio precedente.

Abbiamo volutamente ripreso il titolo della presentazione di Armando Castagno come titolo stesso del nostro breve articolo proprio perché quella luce accecante, su Bolgheri e sulle sue vigne, è ciò che ci è rimasto più impresso, durante e oltre la serata.

Ed eccoci addentro nella storia: nell’Ottocento la popolazione di Bolgheri viveva in un territorio poverissimo e paludoso e una diretta conseguenza della miseria era un tasso di analfabetismo fra i più alti in Italia; si era lontanissimi da tutto ciò che è ora Bolgheri: un territorio vitivinicolo di grande prestigio, costantemente premiato in Italia e all’estero, simbolo di un visionario spirito imprenditoriale che ha creato un vino iconico, il Sassicaia.

L’uomo di cui parliamo è il Marchese Mario Incisa della Rocchetta (1899-1983): originario del Piemonte, appassionato di vini francesi, ad inizio degli anni Quaranta, fece piantare, nella sua tenuta di San Guido, a Bolgheri, un ettaro e mezzo di cabernet sauvignon per produrre un vino destinato a lui, alla sua famiglia, ai suoi ospiti. Dopo vent’anni, con il fondamentale supporto dell’enologo Giacomo Tachis, inizia la commercializzazione del Sassicaia, un blend a maggioranza cabernet sauvignon con il contributo, per il 20% di cabernet franc, affinamento in barrique di rovere francese.

Sulla storia di questo vino, sui riconoscimenti che ha iniziato ad avere dall’annata 1972, sui disciplinari e sull’attuale contesto a Bolgheri, ovvero su tanti altri personaggi che a partire dagli anni Settanta hanno reso grande la zona, rimandiamo al sito del consorzio www.bolgheridoc.com, completo ed esaustivo, citando solo qualche dato e una curiosità:

  • dall’ettaro e mezzo piantato nel 1944 nella Tenuta San Guido, siamo arrivati a oltre 1.500 ettari, di cui circa il 30% a cabernet sauvignon, il 20% a merlot, il 15% cabernet franc;
  • i vini rossi coprono oltre l’80% del totale della produzione, i bianchi, a base principalmente di vermentino (a seguire sauvignon e viogner) il 14%, il restante, scarso 6%, è vino rosato;
  • la matrice geologica spazia dall’alberese (calcare), al macigno (arenarie), al galestro, flysch, marne;
  • il clima è mediterraneo ma asciutto, grazie ai venti e i giorni di luce sono sempre oltre la media italica, scarse le precipitazioni; da cui lo spunto per il titolo della serata;
  • le aziende consorziate (98% del totale) sono una settantina, otto delle quali possiedono oltre 50 ettari vitati; la conseguenza diretta di come storicamente si è sviluppata l’attività agricola è tale per cui dieci aziende possiedono oltre il 70% dei vigneti;
  • Mario Incisa della Rocchetta era un ambientalista ante litteram: nutriva un profondo, concreto, rispetto per la natura e fu il primo presidente italiano del WWF; il rifugio faunistico Padule di Bolgheri, nato nel 1959, oasi affiliata al WWF tuttora presente, ne è la testimonianza.

Prima di addentrarci nella presentazione dei dodici vini in degustazione, un bianco, un rosato e dieci rossi, un breve, ulteriore, accenno all’eterogeneità non solo dei vini, ma delle stesse cantine, i cui proprietari hanno origini molto diverse: troviamo imprenditori di altre zone d’Italia, storiche dinastie nobiliari, contadini marchigiani emigrati negli anni Cinquanta – Sessanta a seguito di riforme agrarie e non ultimo abitanti del luogo, una tipicità che differenzia Bolgheri da tutte le altre zone vitivinicole italiane.

I vini degustati

Bianco di Orma Vermentino 2022 – Podere Orma: un vino con una piacevole intensità sapida e dal carattere marino, ricorda subito l’estate appena finita.

Bolgheri Rosato Caccia al Palazzo 2022 – Tenuta di Vaira: un rosato nella sua espressione giovanile ottenuto dal cabernet sauvignon al 70%, 15% di merlot, che dona avvolgenza  e 15% syrah, che conferisce una delicata nota speziata.

Bolgheri Rosso Ai confini del Bosco 2021 – Mulini di Segalari:  un campione dalla botte di un’azienda biodinamica, letteralmente sperduta nel bosco e da qui il nome del vino. Fermentazione spontanea per cabernet sauvignon e cabernet franc al 90%, petit verdot al 7%, syrah al 3%, un parziale uso dei raspi e 12 mesi di affinamento in grandi botti di rovere. Note fresche e balsamiche, una volta in bottiglia troveranno armonia i sentori più erbacei e speziati in chiusura di bocca.

Bolgheri Rosso Orio 2021 – Podere Il Castellaccio: in percentuale maggioritaria il cabernet franc (60%, a seguire merlot 30% e petit verdot 10%), 12 mesi in tonneaux da 5hl, profuma di macchia mediterranea, lentisco e salmastro, e citando Castagno “possiede la timbrica aromatica della riva destra bordolese”. Ah, Orio è il cane della tenuta. 😊

Bolgheri Rosso 2021 – Michele Satta: un assemblaggio di cabernet sauvignon 30%, sangiovese 30%, merlot 20%, syrah 10%, teroldego 10%, sicuramente atipico per la zona, da vigneti giovani; si tratta di una versione fresca e schietta di Bolgheri Rosso nella sua versione senza legno.

Bolgheri Rosso Pievi 2021 – Fabio Motta: da una singola vigna da cui prende il nome è ottenuto dalla vinificazione separata di merlot al 50% e a saldo in ugual misura cabernet franc e cabernet sauvignon in tini troncoconici; colore violaceo, sentori in prevalenza di erbe aromatiche e sottobosco, sorso fresco per un vino originale e di personalità.

Bolgheri Rosso 2020 – Podere Grattamacco: fra le aziende storiche di Bolgheri (nata nel 1977) produce  questo Bolgheri Rosso con una fermentazione spontanea in tini aperti di cabernet sauvignon (65%), merlot (20%) e sangiovese (15%) e affinamento in botti di rovere. Il vino ci stupisce per la sua grande ampiezza boschiva e il marcato timbro rifrescante.

Bolgheri Superiore Guado de’ Gemoli 2020 – Chiappini: venti mesi di affinamento in barrique di bassa tostatura per un blend di cabernet sauvignon al 70% con a saldo merlot (15%) e cabernet franc (15%), necessita di qualche anno in bottiglia per attenuare i sentori dovuti all’affinamento per ora prevaricanti.

Bolgheri Superiore 2020 – Dario Di Vaira: fermentazione separata per cabernet sauvignon al 60%, cabernet franc 30% e merlot 10%, affinamento di 16 mesi in barrique metà nuove e metà usate, sorprende al naso per le sue note tutte virate sullo scuro e per i sentori di tostatura già bilanciati con quelli fruttati ed erbacei. In bocca si mantiene austero e potente.

Bolgheri Superiore Tâm 2018 – Batzella: il lungo affinamento in bottiglia conferisce a questo vino, ottenuto da cabernet sauvignon per il 65% e il restante cabernet franc, grande ampiezza e profondità nel sorso, regalando un finale di intensa balsamicità.

Paleo 2019 – Le Macchiole: definito senza esitazione “lo Cheval Blanc italiano”, è un cabernet franc in purezza simbolo della tenacia della famiglia Campolmi e Merli nel perseguire i propri obiettivi. Figlio di un’annata equilibrata, senza eccessivi picchi di calore che ha permesso lente maturazioni, il vino incanta per armonia ed avvolgenza.

Bolgheri Sassicaia 2020 – Tenuta San Guido: si chiude con l’interpretazione cristallina di Bolgheri, un vino che ogni anno esce con un numero elevatissimo di bottiglie (circa 280.000) vendute solo su assegnazione in ogni parte del mondo. Il mito continua, stabile nel suo Olimpo vitato.

Alessandra Gianelli
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