Siamo a Castelvetro di Modena, patria del Lambrusco. E’ qui che sorge Podere Sottoilnoce, azienda artigiana biodinamica che custodisce circa 6 ettari di vigna di Lambrusco (Grasparossa, Sorbara e Fioranese), Trebbiano di Spagna, Trebbiano Modenese e altre varietà autoctone come l’Uva Tosca.
Il vino che abbiamo bevuto oggi ci ha colpito particolarmente. Si tratta del vino bianco Fùnambol 2021, da uve Trebbiano di Spagna. Un vino fermo ottenuto da fermentazione spontanea in contenitori di ceramica di 400 litri.
Colore giallo oro antico. Il naso è dapprima reticente, a poco a poco si dipana rivelando fiori di campo, pesca gialla, un tocco esotico ma non prevaricante di mango, scorza d’arancia, mandorla fresca. Precisione ed eleganza olfattiva a cui fa da contrappunto una bocca per nulla timida, ma anzi saporita, fitta e succosa. Freschezza e materia fruttata sono in equilibrio mirabile (funambolo di nome e di fatto questo vino!), il corpo del vino non è affatto esile eppure la beva non ne risente, lo sviluppo in bocca ha un’ottima progressione e in chiusura si avverte un piacevole tocco tannico. Chiude su ritorni di frutta gialla e sale.
Vino che a tavola è piuttosto versatile e che ha superato brillantemente l’accostamento ad un piatto generoso e complesso come dei rigatoni alla carbonara.
Pur amando i vini rosé – soprattutto in questa stagione – è molto raro che in una degustazione tra appassionati un vino rosa si imponga come il miglior vino della serata svettando tra le altre bottiglie presenti. È d’obbligo dunque condividere questo evento più unico che raro capitato ad una recente degustazione tra amici grazie allo splendido Chavignol Rosé Lot 2013 di Pascal Cotat.
Abbiamo già parlato in passato di Pascal Cotat, soprattutto dei suoi ottimi Sancerre (ad esempio in questo post, non censurandoci peraltro quando non ci è piaciuto). Ti raccontiamo dunque di questo grande pinot nero vinificato in rosa da un piccolo appezzamento piuttosto datato (l’età media delle vigne è di 50 anni). Ci troviamo a Chavignol, villaggio non distante da Sancerre, dove ha sede il garage di Pascal Cotat. Parliamo di garage non solo per le dimensioni mignon dell’azienda e l’ultra artigianalità di approccio, ma anche perché il domaine condivide gli spazi con l’autofficina di famiglia!
La ricetta è tutto sommato semplice: cura maniacale delle vigne, conduzione non certificata ma di fatto biologica, in cantina fermentazioni spontanee e affinamento in vecchie botti da 600 litri. Vini che richiedono qualche anno di invecchiamento per essere apprezzati appieno e che anzi dopo paziente attesa, come in questo caso, possono letteralmente sbocciare.
Chavignol Rosé Lot 2013 – Pascal Cotat
Si presenta con un bel rosa chiaro luminoso e vivace. Il primo naso è di grande impatto, tra i fruttini rossi è il ribes a farla da padrone, ma poi anche note più complesse splendidamente evolute di liquirizia, spezie, mineralità bianca. Con il passare dei minuti il vino tende sempre più ad assomigliare, dal punto di vista olfattivo, ad un bianco di Sancerre, con “dissetanti” note agrumate di mandarino e pompelmo rosa.
Al sorso vi è un’evoluzione del tutto coerente con quanto sentito al naso, ovvero un primo ingresso dolcemente fruttato che poi va a rinfrescarsi grazie ad una acidità ficcante e pulente. La progressione è soave ed elegante, eppure continua ed inesorabile, fino ad una chiusura su note di pompelmo (ma senza l’amaro di quest’ultimo!), soffice e lunghissima su ritorni salini.
Plus: quando i vini rosé, come in questo caso, hanno capacità di evoluzione nel tempo uniscono complessità, eleganza e stratificazione senza alcun complesso di inferiorità verso altre tipologie di vino.
Ammettiamo che appena aperto, un martedì di inizio estate, questo pinot nero della Ahr (zona della Germania settentrionale di cui vi abbiamo già parlato qui) non aveva completamente convinto nessuno dei cinque commensali, tanto che se ne avanzò un abbondante calice in bottiglia.
Certo, ne apprezzavamo il colore, un tenue rubino brillante, i sentori di piccoli frutti di bosco rossi, la nota erbacea e minerale ma in bocca aveva la meglio, soprattutto sul finale, un’acidità troppo marcata e uno sviluppo piuttosto “rigido”. Il giovedì della medesima settimana, chi scrive, che aveva portato a casa la bottiglia non terminata, ha provato questo Spätburgunder “Grauwacke” 2019 della tenuta Meyer-Näkel sul terrazzo di casa, dopo averlo rinfrescato in frigo. Il colore rimaneva brillante ma già il naso del vino era cambiato: rimandi di rose rosse, ribes, fragolina, melograno, foglie di tabacco, fieno, grafite; una complessità olfattiva sicuramente superiore di quella riscontrata due giorni prima. Ma eccolo in bocca: l’acidità si era attenuata, lasciando spazio ad una timida, delicata avvolgenza; la mineralità, solo accennata il martedì precedente, era ora presente e persistente. Il tempo probabilmente sarà la giusta arma contro quella spiccata acidità tutta da amalgamarsi che giorni prima ci aveva fatto pentire di avere aperto così presto questo vino; come esserne certi? L’evoluzione a “bottiglia aperta” fa ben sperare e, per fortuna, un altro commensale conserva in cantina il vino della stessa annata: ci diamo appuntamento fra un lustro per verificare!
Nota a margine: la traduzione italiana del nome del vino, Grauwacke, è grovacca, ovvero la rocca grigia sedimentaria di matrice detritica, che troviamo in una parte della zona della Ahr e di cui, supponiamo senza tanto sforzo, essere la matrice geologica della vigna da cui si ottiene questo pinot nero.
Vi porterò indietro nel tempo ad inizio secolo scorso e vi racconterò la storia di una donna e del suo legame con il vino.
Giuliana Vicini è nata nel 1925 ad Ortona – una ridente cittadina lungo la costa adriatica abruzzese in provincia di Chieti – da Giustino Ciavolich e Geppina Berardi.
I Ciavolich erano una famiglia di mercanti bulgari di lana, giunti in Abruzzo nel Cinquecento e divenuti nei secoli proprietari terrieri con la fondazione nel 1853 della prima cantina sita a Miglianico, nel Chietino, di fronte al palazzo signorile di proprietà. All’epoca la condizione della donna era tale da rappresentare un peso per le famiglie patriarcali che organizzavano matrimoni combinati per i quali era necessaria la dote. Alla morte del padre Giustino la gestione della proprietà terriera dei Ciavolich passò a Giuseppe, fratello di Giuliana, come imponevano le regole dell’epoca. Di fatto Giuliana non riuscì a gestire la sua parte di proprietà ma intanto coltivava un’idea e un pensiero di riscatto che avrebbe rivelato prima della sua scomparsa. Alla veneranda età di 95 anni Giuliana lasciò alla nipote Chiara Ciavolich, figlia di suo fratello Giuseppe, la sua tenuta di Miglianico (Chieti), con l’intento di riscattare il suo nome e la sua storia. Giuliana chiese espressamente alla sua cara nipote Chiara che il vino prodotto a suo nome non si chiamasse Ciavolich ma Vicini, in virtù del suo legame con la sua amata nonna Donna Ernestina Vicini. Inoltre il vino con il suo nome “Giuliana Vicini” doveva avere un preciso scopo: sostenere tutte le donne nel loro processo di emancipazione. La rinascita di Giuliana Vicini è la rinascita di una donna del secolo scorso attraverso la lungimiranza e lo stile di una donna del nostro secolo: la nipote Chiara Ciavolich. Oggi abbiamo aperto un vino dotato di un buon profilo olfattivo supportato da acidità che dona freschezza al palato e ideale da degustare nel tardo pomeriggio di una bella serata estiva magari di fronte al mare. Il vino in questione è prodotto con uve cococciola, un antico vitigno a bacca bianca autoctono abruzzese coltivato prevalentemente nella provincia di Chieti. La buona resa in vigna lo avevano rilegato, nel passato, a vino da taglio che contribuiva a salvare le annate caratterizzate da basse rese del più famoso trebbiano d’Abruzzo. Oggi la cococciola, grazie alla recente riscoperta da parte di alcuni produttori, viene vinificata in purezza e per la sua spiccata acidità si presta anche alla spumantizzazione.
Il vino si presenta di un giallo verdolino scarico ma luminoso e si muove leggiadro nel calice. Al naso si apprezzano profumi di fiori bianchi ed eleganti note agrumate accompagnate da sentori di frutta fresca appena raccolta. Il sorso è ampio e avvolgente con una buona spalla acida che dona freschezza e pulisce il palato. Una leggera ma percepibile nota erbacea arricchisce il profilo del vino. Il finale è mediamente lungo con un ritorno delle note fruttate di frutta fresca già avvertite al naso e con una evidente nota amarognola che non disturba la degustazione. Consigliato un abbinamento con del sushi.
Con le prime giornate estive e il caldo che avanza non c’è nulla di meglio che un ottimo bicchiere di riesling. Il tenore alcolico contenuto, la beva spensierata accompagnata da sussurrata complessità, l’acidità dissetante, fanno del riesling, soprattutto se proveniente dalle giuste latitudini, un compagno ideale in questa stagione.
Abbiamo stappato un riesling della piccola azienda Peter Neu-Erben, azienda che si trova nella Saar e che produce circa 10.000 bottiglie di riesling, in prevalenza della tipologia Kabinett. L’azienda aderisce al Bernkasteler Ring, un’associazione di oltre 40 produttori della regione Mosel, Saar e Ruwer che promuove i vini dei suoi aderenti anche grazie alle aste che organizza periodicamente. Il vino di oggi proviene proprio da un lotto d’asta, ma non si tratta di un vino particolarmente costoso (circa 15 €).
Riesling Kabinett Klosterberg 2019 – Peter Neu-Erben
Colore giallo paglierino chiaro, al naso si apre con un leggero idrocarburo che lascia immediatamente spazio a sentori delicati e ricamati di scorza di limone, pompelmo, pesca bianca, un ricordo di sassi e un tocco di pepe bianco.
La sensazione dolce in ingresso è smorzata da una splendida acidità che, lungi dall’essere strabordante e aggressiva, con soavità pulisce il palato, rinfresca il sorso e sostiene lo sviluppo. La beva è trascinante, grazie ai soli 8,5% di tenore alcolico e alla silhouette agile e snella.
La chiusura è di media lunghezza su ritorni di frutta bianca e agrumi.
Lo abbiamo abbinato con successo ad un arrosto di maiale alla senape ma può essere un ottimo compagno per antipasti anche a base di verdure.
Fino all’arrivo della fillossera l’Isère, dipartimento francese incuneato tra la Valle del Rodano e la Savoia, era un territorio in cui la vigna prosperava; nel XIX secolo risultavano registrati ben 33.000 ettari di vigna. I danni del malefico insetto – la fillossera appunto – portarono ad una drastica riduzione delle aree vitate in tutta Europa e alcune zone, le più impervie e climaticamente svantaggiate, non si rialzarono più dedicandosi a colture più redditizie. Questo è ciò che successe anche in Isére e ad alcuni suoi vitigni estinti o quasi.
Negli ultimi decenni però, in molte zone minori della Francia (e dell’Italia), la passione e la caparbietà di giovani vignaioli, alla ricerca di vigne al giusto prezzo e di climi freschi, hanno contribuito in modo decisivo a recuperare antiche varietà e a rilanciare le aspirazioni vitivinicole di interi terroirs.
Questa è anche la storia di Jérémy Bricka, che ho deciso di raccontarvi dopo aver degustato un suo vino sorprendente e anche perché ancora non ho trovato alcuna fonte web in lingua italiana che ne parla, e mi sembrava doveroso colmare questa lacuna!
Dopo anni di gavetta in Borgogna e Rodano (chez Guigal!) Jérémy, affascinato dai territori alpini, compra 5 ettari in Isère tra i 500 e i 700 metri di altitudine, a Mens (non lontano da Grenoble), e vi pianta verdesse, mondeuse blanche e noir, altesse, persan, douce noire e la pressoché sconosciuta étraire de l’Aduï. Certificazione bio e approccio enologico non interventista, oltre ad una sensibilità fuori dal comune in fase di vinificazione, hanno permesso al domaine di acquisire una buona notorietà in Francia nella nicchia dei vini naturali. Il vino di cui ti parlo oggi è proprio quello ottenuto dal vitigno étraire de l’Aduï.
Étraire de l’Aduï 2020 Pont de Brion IGP Isère – Jérémy Bricka
Il colore è un bellissimo rosso rubino chiaro, luminoso e trasparente. Il naso è un caleidoscopio di fruttini rossi (melograno e ribes), violetta, pepe, bergamotto, ferro e un particolare tocco che ricorda la salsa di soia…
Il sorso è soffice, beverino e leggero (12%), il tannino è cremoso e risolto, l’acidità è ben integrata e fornisce profondità e succo. Chiude delicato su ritorni di fruttini rossi e spezie.
Plus: vino che fa della spontaneità e facilità di beva la sua caratteristica principale, ma che sa coniugare originalità aromatica ed eleganza. Mi ha ricordato per stile e espressività alcuni dei migliori Morgon del Beaujolais.
Tranquilli, non racconteremo una favola in preda ai fumi dell’alcool: vi parleremo di una storia (di resistenza) e di una piccola realtà, Torre degli Alberi, nell’Oltrepò Pavese, specializzata nella produzione esclusivamente di metodo classico a base pinot nero.
L’azienda, condotta da Camillo dal Verme insieme al figlio Giacomo, 3,5 ettari di pinot nero in regime biologico si trova a Ruino, a 500 metri di altitudine; i vigneti sono i più alti dell’Oltrepò Pavese, ragione per cui, come detto, si è scelto di utilizzare le uve di pinot nero per spumanti con seconda rifermentazione in bottiglia.
Una simile altitudine inoltre fa sì che l’azienda sia l’ultima ad iniziare la vendemmia (solitamente due settimane dopo le aziende di prima collina) e che opti per la pratica della fermentazione malolattica, assolutamente atipica in Oltrepò Pavese, dove il problema è soprattutto mantenerla, l’acidità.
Abbiamo degustato, delle cinque etichette aziendali, il Torre degli Alberi Metodo Classico Brut, millesimo 2017, sboccatura giugno 2022, più di quattro anni sui lieviti, fermentazione solo in acciaio e, appunto malolattica svolta. Al naso la fanno da padrone classiche note di fragoline di bosco, crema pasticciera, pan brioche ma anche mentuccia e scorza di limone; al sorso troviamo cremosità e avvolgenza, ma anche una freschezza non scontata. Comprato all’evento FIVI dell’Oltrepò Pavese del 6 Maggio 2023 a € 17 si aggiudica a mani basse il titolo di vino “dall’ottimo rapporto qualità prezzo”.
Ma torniamo al titolo, perché, se non avete già smesso di leggere, vi starete chiedendo il nesso: la sede aziendale è proprio in un castello e i titolari sono proprio … dei nobili, i Conti dal Verme. La famiglia è molto nota in provincia da oltre ottanta anni in quanto il padre di Camillo, Luchino, chiamato il conte Partigiano, si distinse per efficaci azioni di Resistenza a capo della Brigata “Antonio Gramsci” nella zona di Casteggio e poi di Milano; al termine del conflitto decise di restare al castello di Ruino, una delle sue residenze, senza entrare in politica. Sino all’età di 103 anni, non smise mai di farsi testimone della Resistenza e paladino della libertà; a chi gli chiedeva come fosse riuscito lui, nobile e cattolico, a virare verso una apparente direzione opposta rispondeva: “non ho mai saputo quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per tutti noi, per la libertà di ciascuno di noi”.
Recentemente ho avuto il piacere di visitare l’Azienda Agricola Saladini Pilastri a Spinetoli, un piccolo paese della provincia di Ascoli Piceno, invitato gentilmente e guidato in maniera egregia dall’enologo Fabio Felicioni. L’esperto winemaker ha esordito narrandomi la storia e le origini dei Conti Saladini Pilastri, una nobile famiglia ascolana che vanta più di mille anni di storia.
La fervente attività vitivinicola ha sempre contraddistinto la nobile famiglia con la nascita circa tre secoli fa dell’azienda agricola dei Conti Saladini Pilastri. Il vino che si produceva veniva ceduto dai mezzadri ai Conti perché lo invecchiassero nelle botti di rovere di proprietà. L’attuale cantina fu costruita accanto alla vecchia in modo da accentrare tutta la produzione.
Dagli anni settanta, mi spiegava l’enologo, furono impiantati i nuovi vigneti che ho avuto la fortuna di visitare in loco testando anche la tipologia di terreno.
Poi successivamente vennero effettuati investimenti per migliorare le diverse fasi della lavorazione e produzione portando avanti l’idea di una coltivazione biologica di tutte le vigne attraverso l’utilizzo di prodotti naturali come zolfo e rame o con insetti utili. La scelta in vigna è stata quella delle basse rese per ottenere una qualità elevata del prodotto finale.
Di ritorno dalle vigne ci siamo addentrati all’interno della cantina dove antiche botti in cemento ancora in uso fanno compagnia a una bottaia con in bella mostra le barrique e le botti più grandi.
All’interno di una struttura adiacente alla cantina ho potuto degustare in compagnia del Sig.Felicioni alcuni dei vini aziendali, ovvero, l’Offida Passerina docg “Roccolo” 2022, l’Offida Pecorino docg “Comes” 2022 e il Rosso Piceno Superiore doc “Piediprato” 2020.
Passerina Offida docg “Roccolo” 2022. Esprime un colore giallo paglierino di grande luminosità e un elegante bouquet floreale e fruttato che richiama il territorio. Il finale leggermente sapido dona un’eleganza e una struttura al di fuori della norma.
Pecorino Offida docg “Comes” 2022. Un vino territoriale dai sentori tipici di erbe aromatiche come rosmarino e salvia impreziosito da un tocco di anice. Il frutto tropicale risulta evidente con un finale lungo e contraddistinto da una buona sapidità e mineralità. Ne risulta un vino molto equilibrato con tenore alcolico ben bilanciato dalla spalla acida e dalla sapidità.
Rosso Piceno Superiore doc “Piediprato” 2020. Un rosso dal colore brillante sintomo di un ottimo stato di salute del vino. Sentori di frutti a bacca rossa con un accenno speziato ed eleganti sentori terziari con in evidenza una ricercata nota di grafite (matita temperata). Un tannino giovane ma non troppo ruvido rende il vino molto accattivante e solo il tempo lo renderà meno esuberante e astringente lasciando spazio ad un versione ancora più raffinata, con un gusto più morbido e levigato.
La storia e un tocco di modernità fanno dell’azienda Agricola Saladini Pilastri un pilastro del territorio Piceno.
Siamo senza dubbio in una della zone vinicole più belle del mondo, la Wachau, in Austria sulle rive del Danubio a ovest di Vienna, patrimonio Unesco. Qui vengono prodotti alcuni tra i più grandi bianchi a base riesling e grüner veltliner.
In questo splendido scenario ha sede la famiglia Knoll che, oltre a occuparsi della vigna, possiede anche il bellissimo ristorante Loibnerhof, sulle rive del fiume, andateci in estate e mangiate all’aperto in mezzo al meleto, indimenticabile!
I vini con la dicitura Smaragd sono un po’ i “gran cru” della zona, questo Riesling 2019 (etichetta splendida con raffigurato, come per tutte le bottiglie aziendali, Sant’Urbano patrono dei vignaioli) è ancora giovanissimo ma già splendido al naso con note freschissime di ananas, albicocca, roccia, mineralità bianca, lievi idrocarburi (lo zafferano uscirà tra qualche tempo), bocca di stupenda materia e “acida rotondità”… lasciatelo riposare ancora almeno un lustro un cantina.
L’ho abbinato nel corso di un’ottima cena triestina (Ristorante Menarosti, per chi passasse da quelle parti, locale storico in centro, consigliatissimo) ad un piatto di capesante e canestrelli al forno e ad una magnifica granseola, prosit!
Il termine gentrificazione sta ad indicare la trasformazione di un quartiere popolare di una grande città in una zona abitativa di pregio e di moda. Il processo da una parte riqualifica la zona, e ha dunque connotazioni positive, dall’altra porta con sé anche delle conseguenze negative in quanto stravolge la composizione sociale del quartiere a causa dell’aumento repentino dei prezzi delle abitazioni.
La gentrificazione è purtroppo all’opera anche nel mondo del vino. Alcuni territori, fino a pochi anni fa poco considerati dal mercato, hanno subito in pochi lustri una “riscoperta” che ha portato i vini di queste regioni ad affrontare irragionevoli aumenti di prezzi. E così, l’appassionato che prima apprezzava questi vini ancora lontani dalle luci della ribalta, ora rischia di non poterseli più permettere. Il Jura sta senz’altro vivendo un processo di questo tipo. Fino ai primi anni del nuovo millennio i vini del Jura sono rimasti nell’ombra per moltissimi consumatori, lontani com’erano da quello che chiedeva il mercato in quella fase, ovvero vini rotondi, rassicuranti, enologicamente irreprensibili. Ad un certo punto i grandi buyer hanno invece iniziato a ricercare e proporre vini identitari, originali, spontanei, riconoscibili. La richiesta di quei vini – che prima in pochi volevano e cercavano – è schizzata alle stelle e di conseguenza, seguendo l’inesorabile legge di domanda e offerta, sono schizzate alle stelle anche le quotazioni. In Jura questo processo è in atto da qualche anno e alcuni produttori sono diventati improvvisamente oggetto di collezionismo e speculazione…qualche nome? Domaine Renaud Bruyère et Adeline Houillon, domaine Pierre Overnoy, domaine des Miroirs, domaine Ganevat, domaine Labet…
E’ bene precisare che tale dinamica non è “spinta” dai produttori, ma “tirata” dal mercato. Per non arrenderci a questo ineluttabile processo, negli ultimi giorni abbiamo assaggiato alcuni vini giurassiani lontani da riflettori e dunque ancora accessibili. Oggi ti parliamo di due dei vini che ci hanno colpito maggiormente, due Savagnin di Arbois.
Arbois Savagnin ouillé 2019 – Domaine de La Pinte
Il domaine de La Pinte si trova ad Arbois e dispone di 34 ettari di vigne la metà delle quali dedicate al savagnin (non mancano, in ordine decrescente di ettari vitati poulsard, chardonnay, trousseau e pinot noir). L’azienda opera in regime biologico ed è attualmente in conversione biodinamica. Il vino che ci troviamo nel bicchiere è 100% savagnin ouillé, quindi vinificato con le botti colme senza ricercare i sentori ossidativi tipici dei vini cosiddetti “typé” (vinificati in botti scolme) e del vin jaune. Frutta bianca, fiori di campo, nocciole, cerfoglio, a bicchiere fermo un ricordo di frutta esotica…sorso energico, potente e guizzante, un’acidità con i superpoteri tiene a bada i 15% di titolo alcolometrico. Persistenza infinita.
Arbois Savagnin ouillé “En Guille Bouton” 2021 – Domaine Grand
Il domaine Grand si prende cura di 11 ettari in regime biologico. Anche in questo caso stiamo degustando un savagnin ouillé. Il primo naso è prepotentemente minerale (calcare, roccia), poi si susseguono sentori delicati ed eleganti di frutta bianca, nocciole fresche, spezie in formazione. Sorso di grande dinamica, il vino risulta fresco e stratificato, per nulla rapido nello sviluppo, ma anzi articolato e profondo. Chiusura lunga e salatissima.