Val delle Corti: Radda nel bicchiere

Quando abbiamo saputo che il Uain Clab del Ristorante Novanta di Bressana Bottarone (PV) aveva in animo di organizzare una degustazione dedicata ai Chianti Classico di Val delle Corti, alla presenza del produttore Roberto Bianchi, abbiamo segnato l’agenda con il circoletto rosso e ci siamo organizzati per essere presenti.

Quale migliore occasione infatti per approfondire il carattere dei vini dell’UGA (Unità Geografica Aggiuntiva) di Radda se non questa, con la possibilità di parlare con uno dei produttori di riferimento di tutta la denominazione?

I Chianti Classico di Radda sono tra quelli che negli ultimi anni hanno meno sofferto l’innalzamento delle temperature, questo in buona parte grazie alla maggior presenza di aree boschive rispetto ad altre aree geografiche del Chianti e ad un’altitudine media delle vigne di tutto rispetto (spesso oltre i 500 metri s.l.m. e con vette vicine ai 650 metri). Infatti, se fino a pochi lustri or sono queste caratteristiche pedoclimatiche davano origine a vini austeri e “duri”, bisognosi di affinamento e pazienza per essere degustati, oggi di contro la freschezza ariosa e la profonda “verticalità” dei vini di questa zona, decretano Radda come uno dei territori più à la page di tutto il Chianti Classico.

Val delle Corti è un’azienda agricola di Radda in Chianti, sono 5 gli ettari attualmente vitati, oltre a circa 600 olivi. L’azienda nasce nel 1974 per iniziativa di Giorgio Bianchi che decide di abbandonare Milano desideroso di un maggior contatto con la campagna e alla ricerca di ritmi di vita meno frenetici. Allora Val delle Corti era in abbandono e il lavoro fu incessante per ristrutturare gli edifici, recuperare le vigne, ripiantarne altre … Roberto Bianchi ci ha raccontato come la prematura scomparsa del padre Giorgio lo mise di fronte ad una scelta non facile per lui che in quel momento, ancora giovane, non si era mai occupato del vino se non “di riflesso”. Eppure la scelta – più emotiva che razionale crediamo – fu immediata e naturale: dedicarsi anima e corpo all’azienda ed al Chianti Classico, di cui Val delle Corti è senza ombra di dubbio diventata uno degli alfieri più rappresentativi.

Ecco cosa abbiamo bevuto.

Chianti Classico Riserva 2020: la riserva di Val delle Corti esce solo nelle migliori annate con uve (100% sangiovese) selezionate dai vigneti più vecchi del podere. Fermentazione spontanea in acciaio e affinamento di 30 mesi in barriques e tonneaux usati. Il vino che abbiamo nel calice si presenta di un bel rubino chiaro luminoso, olfatto estroverso di viola e sentori agrumati (arancia), poi esce anche un frutto carnoso (susina) e una nota minerale che ricorda il gesso. Non mancano i cenni balsamici. Sorso freschissimo e dinamico, dal tannino fitto e fine e dalla chiusura lunga e sapidissima. Una grande versione buona oggi ma che spiccherà il volo tra qualche anno.

Chianti Classico Riserva 2018: com’è giusto che sia il vino cambia a seconda delle annate e questa 2018 ha un profilo meno espressivo del millesimo 2020. Ci troviamo di fronte a un’impronta autunnale di foglie secche, sottobosco, fiori appassiti, cacao e lamponi schiacciati. Bocca succosa e scorrevole, dal tannino integrato e dalla materia innervata da acidità rinfrescante. Vino che spinge più sulla verticalità che sull’ampiezza. Chiude su ritorni di frutta rossa e liquirizia. Chianti Classico Riserva che si trova in ottima fase di beva.

Chianti Classico Riserva 2017: figlio di un’annata difficile, il vino si presenta dal colore più fitto dei precedenti. Naso di erbe aromatiche, balsamico, con frutta scura e una nota di cipria. Sorso ampio, caldo e voluttuoso, tannino risolto e acidità più in sottotraccia rispetto ai campioni precedenti. Chiude di buona lunghezza su ritorni di frutta e spezie. Vino (o bottiglia) un po’ sottotono, soprattutto a confronto con i suoi fratelli presenti in degustazione.

Chianti Classico 2016: la prima bottiglia purtroppo presentava un difetto di tappo (TCA). La sua sostituta è sembrata a chi scrive anch’essa con un problema di tenuta del tappo che ne ha senz’altro pregiudicato la performance. Non giudicabile.

Chianti Classico Riserva 2015: un’annata calda e siccitosa dà vita ad un sangiovese più scuro nel colore e nell’espressività. Marasca, balsamicità, corteccia, liquirizia al naso. Ingresso in bocca ampio e piuttosto caldo, la progressione è caratterizzata da maggior morbidezza rispetto agli altri campioni sin qui degustati. Chiude sapido e di ottima lunghezza. Interessante interpretazione dell’annata 2015.

Extra 2014: si tratta di una selezione di sangiovese atto a diventare Riserva. Singole barriques vengono considerate, in certe annate, portatrici di una peculiarità tale che si preferisce imbottigliarle separatamente rispetto al Chianti Classico Riserva. Il vino affina 12 mesi in più rispetto alla Riserva. Naso di frutti di rovo (mora), balsamico, pepe e asfalto. Sorso “polposo”, la materia è ricca e stratificata, il vino ha dinamica e verve acida. Vino ancora giovane, goloso nell’incedere e austero al centro bocca con tannini fitti ma maturi e saporiti. La chiusura è lunga su ritorni minerali e fruttati. Unicum.

Chianti Classico Riserva 2013: bottiglia conferita da Luciano, generoso partecipante alla degustazione che ha deciso di condividerla con i partecipanti. Il vino parte su curiose note di yogurt alla fragola e caffè, quindi si schiarisce senza però mai decollare del tutto. Anche il sorso, pur sapido e fresco, non convince appieno. Bottiglia non fortunata.

Diego Mutarelli
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Come evolve il sangiovese? 7 bottiglie alla prova del tempo

Brunello di Montalcino Cerbaiona

Un piccolo drappello di degustatori si è riunito intorno ad un tavolo per una degustazione alla cieca a tema sangiovese. Ne è venuto fuori un viaggio nel tempo, con bottiglie che hanno coperto svariati decenni e che hanno dimostrato – una volta di più – quanto il sangiovese, nelle sue varie declinazioni territoriali, possa essere goduto sì giovane, ma mostri tutto il suo potenziale solo dopo decenni di invecchiamento.

Non poteva mancare una bollicina per iniziare, il Metodo Classico “Grosso” 2015 di Paltrinieri da uve Lambrusco di Sorbara si è comportato molto bene. La sboccatura piuttosto datata (03/208) ha fornito complessità e fascino per un vino dal color buccia di cipolla che sa di scorza di agrumi, erbe amare, resina, ma anche note più dolci come crema al limone; il sorso è freschissimo, leggero, perde qualche colpo a centro bocca ma chiude saporito. Intrigante.

Lambrusco Paltrinieri

Le Viti di Livio 2015 – Fattoria di Lamole: interessante vino chiantigiano, anche se etichettato come Toscana IGT, proveniente da vigne vecchie a piede franco in quel di Lamole. Si esprime sul frutto rosso, ma anche con note di sottobosco, spezie ed un tocco balsamico. Sorso di ottima freschezza, tannino ben presente e ancora da smussarsi, molto saporito in chiusura. Buono oggi, sarà ottimo tra un lustro almeno.

Brunello di Montalcino 2016 – Le Potazzine: naso abbastanza timido ma pian piano emergono note di frutta rossa (ciliegie), affumicatura, rose rosse, terra smossa, un tocco di spezie dolci (vaniglia).
Fresco, sapido e lungo con un tannino in chiusura leggermente rigido ed in rilievo, vino da attendere, sembra attraversare una fase di evoluzione. Scorbutico.

Brunello di Montalcino “La Cerbaiola” 2012 – Salvioni: il naso appare ancora giovanissimo e sa di frutto rosso e fiori freschi, e il sorso conferma, si tratta di un vino energico e saporito, di ottima dinamica e dal tannino fitto ma di grana fine. Chiusura dolce di frutto rosso e lunghissima persistenza. L’annata calda è stata gestita al meglio. Solare.

Brunello di Montalcino 2006 – Le Ragnaie: vino ancora di un’integrità irreale: ciliegia, viola, canniccio, spezie…Sorso gustoso e molto sul frutto, di grande equilibrio e dinamica. Fresco e sapido in chiusura. Un vino di grande armonia ed esuberanza “giovanile”, il che diventa paradossalmente un (piccolo) difetto a quasi 20 anni dalla vendemmia. La maturità è ancora lontana, da tenere in cantina con fiducia. Highlander.

Brunello di Montalcino 2003 – Cerbaiona: gran bella riuscita anche (ma non solo) considerando l’annata torrida. Caramella all’amarena, corteccia, terra, peonia, sorso risolto, fresco e delicato a dispetto del calore alcolico che sarebbe stato lecito aspettarsi dall’annata 2003. Ritorni di agrumi amari e frutta rossa. Vino di grande integrità ed armonia, persino delicato nelle sue sfumature e nella progressione soave. Sorprendente.

Cetinaia 1985 – Castello di San Polo in Rosso: partiamo dalla fine, strepitoso! In generale e non solo considerando l’età. Humus, tartufo, confettura di lamponi, eucalipto, sorso dolce, succoso, delicatamente risolto e “cremoso”. Sapido e lungo. Grande vino (che non esiste più purtroppo).

Vino Nobile di Montepulciano Riserva 1958 – Tenuta Sant’Agnese: naso evoluto ed affascinante, ancora dinamico che richiama il sottobosco, poi tartufo, corteccia, tamarindo…bocca risolta, leggera e saporita.
Vive e lotta insieme a noi.

Chiusura in (relativa) dolcezza con un Friuli Colli Orientali Picolit 2017 di Sara&Sara, una vendemmia tardiva elegante e assolutamente non stucchevole, ma che manca, ad essere severi, un po’ di grinta e personalità. Si può osare di più.

Picolit

Diego Mutarelli
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Chianti Classico è futuro (parte 1)

L’Anteprima del Chianti Classico – Chianti Classico Collection – svolta a Firenze presso la Stazione Leopolda il 15 e 16 febbraio, suggella la fine e l’inizio di un percorso importante, e non solo perché quest’anno il primo consorzio italiano a tutela del vino soffia su ben 100 candeline.

Negli ultimi due anni ho avuto la fortuna e il privilegio di poter vivere la comunità del Chianti Classico in maniera attiva e partecipe, osservando la capacità dei suoi attori principali a mettersi sempre più in gioco per fronteggiare minacce senza precedenti, come il cambiamento climatico, la crisi economica dovuta alla pandemia e alle guerre, oltre ad un mercato che richiede vini sempre più riconducibili al territorio di appartenenza. Non si direbbe, ma anche quest’ultima è una sfida alquanto ardua in Chianti Classico, regione piuttosto vasta, in cui il sangiovese tradizionalmente non è l’unico interprete del terroir, e dove la parola cru è comparsa solo in tempi molto recenti.

Se in Barolo e Barbaresco più produttori raccontano la stessa vigna, in Chianti Classico spesso le migliori etichette aziendali sono frutto della commistione di diversi appezzamenti, e questo è solo uno dei motivi per cui in Toscana è difficile raccontare il territorio seguendo alla lettera il modello langhetto; per ulteriori approfondimenti sulla zonazione ti invito a leggere il seguente articolo ospitato su queste stesse pagine.

Fatta questa doverosa premessa, il Consorzio ha fornito come chiave di lettura del Chianti Classico le UGA (Unità Geografiche Aggiuntive), suddividendo geograficamente le oltre 200 aziende presenti in anteprima. Chi, come me, vive e opera in questa regione vitivinicola, sa che questo non è il punto di arrivo per individuare la territorialità di un vino, ma un importante incentivo per iniziare a orientarsi, assecondare il bisogno di studiare, sperimentare rischiando, ascoltare voci autorevoli, e infine domandarsi se si stia già creando il miglior vino possibile, o se sia plausibile andare oltre. 

Le nuove generazioni di vignaioli e vignaiole hanno captato subito questo stimolo, e oggi siamo alle porte di un cambio generazionale in cui i giovani non hanno timore a confrontarsi, a condividere idee e bevute, a fare amicizia, a creare una comunità.  Comunità che non è fatta solo da chi possiede una cantina, ma anche dagli addetti ai lavori, perché si sa che le aziende le fanno le persone.

Questi giovani hanno capito che il vicino di casa non solo non è il nemico, ma può essere facilmente il migliore amico. Se le generazioni passate devono il loro successo grazie a un forte senso del dovere e all’intuizione che le ha portate nelle solitarie terre del Chianti, i giovani vignaioli di oggi sono generalmente motivati da un’autentica vocazione, che li spinge a lavorare con entusiasmo e passione, come se il contributo offerto a questo settore sia svolto per puro piacere e quasi senza sforzo.

Ora, senza porre lo sguardo troppo avanti, torniamo al presente e ai vini in assaggio. Con oltre 200 aziende partecipanti, sono state servite le nuove annate di Chianti Classico, Riserva e Gran Selezione, dalla 2020 alla 2023, permettendo un confronto di millesimi tanto diversi, quanto impegnativi, seppur stimolanti. Parlando con i produttori si evince una particolare soddisfazione per la 2021, che al naso appare già pronta, forse fin troppo, mentre in bocca sta ancora cercando di trovare un suo equilibrio, con un’acidità scalpitante e una vitalità intrigante. Mettendo a confronto 2021 e 2020, quest’ultima appare più composta e a tratti banale, seppure la vendemmia 2020 sia stata buona, abbondante rispetto a Montalcino e a Montepulciano, ma non indimenticabile come la 2019. La 2022 con il suo calore ci fa realizzare che il surriscaldamento globale non risparmia nemmeno una delle regioni dove il sangiovese è solito distinguersi per la sua acidità e bevibilità. La 2023, al contrario, ha comportato enormi sacrifici, e tanti produttori si sono dovuti accontentare pur di portare a casa un minimo quantitativo di uva sana.

Per scoprire alcuni tra i vini più performanti, proseguiamo nella seconda parte.

Elena Zanasi
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Chianti Classico Vigna Casanova dell’Aia 2020 – Istine

Da qualche anno il Chianti Classico sta vivendo una fase di grande crescita sia in termini di attività e innovazioni da parte del Consorzio Chianti Classico sia, conseguentemente, di interesse da parte della critica e degli appassionati. I produttori danno l’idea di “fare sistema” e la scelta di puntare sulle UGA, le Unità Geografiche Aggiuntive, sembra cogliere appieno lo spirito del tempo, ovvero quello di proporre prodotti riconoscibili e figli del terroir di provenienza.

Photocredit: Istine.it

Esempio perfetto di questa nouvelle vague chiantigiana è senza dubbio l’azienda di cui ti parliamo oggi, complice un recentissimo assaggio che ci ha colpito. Si tratta di Istine, azienda di Radda in Chianti, rappresentante dunque di una della più vivaci Unità Geografiche. La storia vitivinicola di Istine è abbastanza recente, è solo dalla vendemmia 2009 infatti che esce con una propria etichetta (precedentemente vino e uva dei vigneti di proprietà erano conferiti ad altre aziende), ma ciò non ha impedito all’azienda di ritagliarsi in poco tempo uno spazio di tutto rispetto tra le aziende di Radda in particolare e del Chianti Classico più in generale.

Chianti Classico Vigna Casanova dell’Aia 2020 – Istine

100% sangiovese da una vigna di circa 4 ettari, Casanova dell’Aia, che si trova nei pressi del paese di Radda in Chianti, ad un’altitudine di 500 metri sul livello del mare in piena esposizione sud. Vinificazione in cemento e affinamento di 12 mesi in botti di rovere di Slavonia da 20 o 30 hl, seguiti da circa 1 anno di riposo in bottiglia.

Il colore è un rosso rubino luminoso. Ad un primo naso prevalentemente florale segue una nota dolce e croccante di ribes rosso, quindi un tocco di incenso per poi atterrare su note boschive di terra smossa. Il sorso è succoso, una poderosa acidità sostiene lo sviluppo e fa salivare la bocca, il vino è intenso e goloso ma si muove con grande leggiadria ed eleganza nonostante un tannino fitto ma di grana finissima. Chiude lungo e sapido su ritorni di radice di liquirizia e frutta rossa.

Plus: un Chianti Classico che non punta solo sulla piacevolezza e semplicità di beva, ma alza l’asticella affiancando all’immediatezza stratificazione e ampiezza aromatica. Il vino è ancora estremamente giovane, qualche anno di bottiglia lo renderanno ancora più compiuto.

Diego Mutarelli
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Villa Pigna: il territorio Piceno in un calice!

La cantina Villa Pigna è una bella realtà del territorio Piceno guidata magistralmente, sin dalla sua fondazione, dalla famiglia Rozzi; dapprima dal suo fondatore Costantino, il vulcanico presidente dell’Ascoli Calcio, ed in seguito dalla figlia Anna Maria e da suo figlio Giorgio.
La cantina fu costruita al centro dei suoi vigneti intorno alla metà degli anni 70 del secolo scorso e fu considerata avveniristica per il tempo.
L’idea di Costantino Rozzi era quella di produrre un vino di qualità superiore coniugando la tradizione con le nuove tecnologie produttive.


L’incontro con Anna Maria Rozzi è stato un vortice di emozioni, uno scambio di idee all’interno del concetto di fare vino guidati dalla tradizione e dal chiaro intento di ritrovare il Piceno in un calice.
In quest’ottica si orienta la scelta di focalizzare la produzione sulla denominazione Rosso Piceno Superiore Doc, una delle più antiche d’Italia, e di puntare ad un affinamento in bottiglia per un periodo più lungo rispetto a quanto prevede il disciplinare.
L’affinamento in bottiglia avviene, oggi come allora, in un locale sotterraneo della cantina che gode di una temperatura naturale e costante tutto l’anno.
La poliedrica Anna Maria Rozzi, nelle sfide che ha dovuto affrontare nel suo percorso, ha potuto far leva su di una forte consapevolezza basata sul fatto che “non era necessario fare di più, bensì poteva farlo meglio” come lei stessa sottolinea.
In virtù del fortissimo legame del fondatore Costantino Rozzi e della stessa cantina Villa Pigna con il territorio Piceno, è nata l’idea di fornire due interpretazioni del Rosso Piceno Doc: la versione tradizionale con il Rozzano composto per l’85% da montepulciano e per il 15% da sangiovese e la versione internazionale con il Vellutato, 70% montepulciano, 15% sangiovese e 15% cabernet sauvignon.

Vellutato 2020 – Rosso Piceno Superiore doc

Il Vellutato 2020 è l’interpretazione “internazionale” del Rosso Piceno Superiore doc come ama definirlo Anna Maria Rozzi.
Un blend molto interessante dal punto di vista enologico che prevede l’impiego dell’internazionale cabernet sauvignon in aggiunta a montepulciano e sangiovese.


Il calice si veste di un colore rosso rubino di buona fittezza con una smagliante vivacità sintomo di un buono stato di salute del vino.
Avvicinando il calice al naso l’impatto olfattivo è deciso, netto, pieno. Se i primi riconoscimenti richiamano profumi floreali e fruttati di rose rosse e ciliegia, facendo successivamente roteare il vino nel calice si percepiscono lievi sentori vegetali derivanti dalla presenza del cabernet sauvignon e richiami alle spezie con la vaniglia in evidenza, a ricordarci del passaggio in barrique francesi.
L’ingresso del vino in bocca è leggiadro e sbarazzino ma al tempo stesso denota un’eleganza che potremmo quasi definire amabile.
Al sorso ritroviamo la nota fruttata di ciliegia che abbiamo percepito all’olfatto.
La morbidezza espressa non inficia l’equilibrio del vino che vive del perfetto bilanciamento tra la freschezza e l’acidità da una parte e il tenore alcolico dall’altra.
Avviandosi alla conclusione dell’assaggio possiamo affermare che siamo di fronte ad un vino mediamente persistente che rappresenta appieno la tipologia.
Un vino poliedrico che si abbina ad antipasti della tradizione picena come la pizza di cacio e salamino, primi piatti rossi non troppo elaborati e a carni rosse alla brace. Non disdegna gli aperitivi magari accompagnati dai salumi della tradizione contadina picena e dai formaggi di media stagionatura.

Rozzano 2018 – Rosso Piceno Superiore doc

L’interpretazione tradizionale del Rosso Piceno Superiore doc composto da montepulciano per l’85% e la restante parte da sangiovese.
Un vino elegante che definirei “il Piceno in un bicchiere” perché riesce a far convivere l’esuberanza tipica del montepulciano con la personalità gusto olfattiva e l’eleganza del sangiovese.


Anna Maria Rozzi ci tiene a sottolineare che si tratta di due vitigni con due personalità ben distinte con il sangiovese che prima di essere vinificato viene lasciato per una ventina di giorni sui graticci. Una pratica che conferisce e caratterizza il vino di un sentore speziato riconducibile al pepe nero.
Una bella espressione del Rosso Piceno Superiore doc che si fa apprezzare per un colore rosso rubino di grande vivacità e pulizia cromatica.
Olfatto di buona intensità con l’amarena in primo piano, con successivi richiami di rose rosse e in sequenza note speziate di pepe nero, vaniglia, liquirizia e cacao. Al palato il sorso risulta pieno e coinvolgente con una ben percepibile acidità che donerà longevità al vino che non potrà che migliorare con il tempo! La sapiente trama tannica è caratterizzata da un tannino ben presente ma levigato con una buona morbidezza sintomo di uve raccolte a piena maturazione. Forte la curiosità di affrontare l’esperienza degustativa che l’annata 2018 potrà regalarci fra una decina di anni!
La persistenza è medio lunga con richiami fruttati e di cacao. Una nota vegetale e un richiamo boisé rendono il vino complesso. Un vino armonico e di carattere!

Non sono state certamente scevre di ostacoli le strade intraprese dall’attuale proprietà per portare avanti l’idea del fondatore di fare vino e soprattutto fare cultura del vino, ma dalle scelte più difficili sovente possono nascere belle interpretazioni di un’identità territoriale.

Walter Gaetani


Virtù etiche e virtù vitivinicole: Benvenuto Brunello 2019

Se qualcuno chiedesse la mia opinione su una bella annata come la 2019 a Montalcino, che cosa potrei rispondere in modo da non risultare banale?

Sabato 25 novembre ho avuto la fortuna di potermi accomodare in uno dei tavoli sistemati nel chiostro del Consorzio del Brunello di Montalcino e di assaggiare in anteprima la nuova annata che sarà disponibile sul mercato a partire da gennaio 2024.

Faccio una doverosa premessa, visto che non scrivo su questi canali da un po’: se qualcuno chiedesse la mia opinione su un Brunello, probabilmente lo farà sapendo che il sangiovese fa parte del mio lavoro da una decina d’anni, tuttavia non sono di Montalcino, anzi non sono nemmeno toscana, e se spesso questa la sento come una condanna divertente, allo stesso tempo credo che le mie radici siano sufficientemente lontane da permettermi di mantenere la giusta distanza e un certo senso critico.

Ora, come direbbe Soldati, vino al vino, quindi torniamo a ciò che conta davvero. Seduta al mio tavolo, con sei bicchieri davanti, ho avuto circa tre ore a disposizione per farmi un’idea del frutto di anni di lavoro da parte dei produttori di quest’angolo di Toscana.

Leggendo la lista dei vini a disposizione, ho notato diversi elefanti nella stanza, o meglio nel chiostro, certi grandi assenti, perciò ho provato ad accogliere questa mancanza con positività, visto che solo così avrei degustato in maniera più democratica, senza precipitarmi sulle bottiglie che solitamente prediligo. Andando a memoria, la 2019 è stata un’annata calda e soleggiata e allo stesso tempo di grande equilibrio, soprattutto nell’ultima fase di maturazione dell’uva, dove le escursioni termiche hanno permesso una vendemmia di quantità e di qualità. Fare vino e fare filosofia li vedo procedimenti molto simili, dopotutto ogni cantina ha una sua storia e una sua filosofia di produzione. Non solo, produrre un buon vino presuppone la ricerca della virtù, o meglio dell’aretè greca, vale a dire l’indagine sull’essenza bella e buona di ciascuna cosa, che sia un’uva, un territorio o una particolare annata, in modo da plasmare e rendere questi elementi ciò che devono essere.

I greci dicevano poi che l’esercizio della virtù va fatto katà métron, secondo misura, perché l’armonia non prevede esagerazioni, e a mio avviso i produttori sono più inclini ad applicare questa regola nelle annate difficili, quando il calcolo, la misura e la proporzione in vigna e in cantina fanno la differenza. Se l’annata invece è molto buona e ricca di promesse, l’estro sarebbe invogliato ad estrarle tutte. Sono tanti gli esempi vinicoli in cui la tentazione di estrapolare in abbondanza ha preso il sopravvento, e il risultato è sempre smisurato. Basti pensare alla concentrazione di alcune bottiglie di Gran Selezione di Chianti Classico, seppure questa sia la denominazione che prediligo come espressione di sangiovese al giorno d’oggi, oppure alla predominanza del legno in certe espressioni di Brunello di Montalcino in un’annata straordinaria come la 2016. L’unico mio timore quando mi sono seduta a quel tavolo di degustazione era proprio la mancanza della giusta misura.

Ho capito solo lavorando nel mondo del vino il vero significato di questo senso di misura talmente importante nell’antichità. Con l’orologio alla mano ho dato inizio alla prima batteria di assaggio. Calice dopo calice, ho scoperto vini molto aperti e disponibili, già equilibrati e piacevoli, alcuni più timidi di altri per via della gioventù, in altri casi invece ho notato una certa esuberanza nei sentori dati dal legno, sperando sempre che il tempo riesca a placarla un poco. Lo scopo di questa mia indagine era quello di scovare un filo conduttore tra gli assaggi, e non ho fatto una gran fatica a trovarlo: la raffinatezza del tannino, setoso perché giunto alla giusta maturazione, accompagnato da profumi molto freschi, che contenevano e bilanciavano il tenore alcolico, infine una concentrazione movimentata dall’acidità. L’equilibrio, la giusta misura, l’armonia, sono dopotutto il mantra dei più elevati pensieri filosofici.

Se ogni indagine porta in ogni caso al sommo bene, ho deciso di accogliere con un certo stupore e meraviglia i vini che si sono distinti per la loro finitura garbata, e mi scuso se in tre ore non ho fatto in tempo ad assaggiare tutto ciò che avrei voluto.

Lisini (etichetta nera), era da qualche anno che aspettavo mi meravigliasse come una volta, l’ho trovato sfaccettato nei profumi, con piacevoli note di frutti di bosco e un tannino poco timido, promessa di una grande longevità.

Pietroso, ho chiesto una seconda bottiglia perché la prima non mi convinceva. Eccoci finalmente. Dinamico e rigoroso allo stesso tempo, dal gusto pieno, squisitamente floreale.

Tassi Vigna Colombaiolo, nonostante lo stile riduttivo che apprezzo spesso nel sangiovese ho ritrovato comunque un frutto dolce e un tannino morbido e succoso, in equilibrio con l’acidità.

Talenti Selezione Piero, colore concentrato, mi ha sorpresa il frutto blu che ho ritrovato sia al naso che in bocca. Spesso tendiamo a pensare che la frutta così scura sia l’anticamera dell’opulenza, in realtà in questo caso si trattava di un mirtillo freschissimo e croccante.

Casanova di Neri (etichetta bianca), peccato non essere ancora riuscita ad assaggiare il Brunello Giovanni Neri, tuttavia anche qua è facile scoprire un’interpretazione incline al gusto baroleggiante, nella sua accezione più elegante e positiva.

Sesti, ho particolarmente apprezzato il suo centro bocca, voluminoso ma mantenendo sempre quel senso di proporzione proprio di un vero Brunello.

– Infine come ogni anno voglio dedicare lo spazio a un Rosso di Montalcino che mi ha stupito più di tanti Brunelli, ovvero il Rosso 2021 di Gorelli, così succoso e piacevole, dal naso salino e il tannino di velluto.

“Ogni arte e ogni indagine persegue un qualche bene,
e per questo il bene è stato definito ciò cui tutto tende.”

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I.

Elena Zanasi
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Nuovi pionieri a San Casciano in Val di Pesa: La Sala

Il comune di San Casciano in Val di Pesa è l’avamposto settentrionale dell’areale del Chianti Classico. Ha visto la sua fortuna con Antinori, attraverso brand come Tignanello e ancora di più Solaia. Sebbene la storia vitivinicola di questa terra abbia radici antiche, in passato i viticoltori erano soprattutto conferitori di uve. Al giorno d’oggi, invece, si respira un’aria nuova, fatta di ricerca e aspirazione verso la migliore espressione di sangiovese, desideroso di affermarsi per quella che è la sua identità e la sua impronta nel territorio. Finalmente le aziende di qualità hanno la possibilità di affermarsi e di diventare rappresentative per il loro comune e la denominazione.

In questo contesto di romanticismo agronomico sorge l’azienda vinicola La Sala, che oltre alla distesa di ulivi e bosco possiede una trentina di ettari vitati dislocati tra le località Montefiridolfi e Sorripa.

Francesco Rossi Ferrini ha acquisito la proprietà nel 2014 e da subito ha intrapreso un percorso all’insegna del biologico e della sostenibilità, contando sul supporto di collaboratori giovani e affezionati a questo luogo.

Visitando la cantina e percorrendo la terra lungo i filari a Montefiridolfi, si percepisce la continua ricerca verso la perfezione. “Perfezione” non certo intesa come aggiustamenti e miglioramenti artificiali in cantina, ma come indagine sopraffina in campagna e in cantina, dialogo con la natura, aspirazione verso un’armonia e un equilibrio eccezionali.

All’assaggio diversi elementi fondamentali sono degni di nota. Il primo riguarda il Chianti Classico e la Riserva, poiché se oggi le mode vanno verso la sottigliezza, i colori trasparenti e le strutture esili e “pinotteggianti”, al contrario questi vini sono concentrati, composti da luci ed ombre, sono fatti di materia e per questo non risultano per nulla banali ed anzi piacevolmente gastronomici.

Il Campo all’Albero è un blend di merlot e cabernet sauvignon. Al naso privilegia la purezza del frutto, sia rosso che viola, seguito da sentori minerali e speziati, come la bacca di vaniglia.

In bocca è fresco, concentrato, il tannino fa sentire di più la sua presenza rispetto agli altri vini, anche per la giovane età di questa 2019.

Infine, il Chianti Classico Gran Selezione il Torriano, un vino che imprime nel calice l’impronta esatta del terroir, in un bouquet raffinatissimo dove si esalta la viola e fiori carnosi come la peonia, il tutto avviluppato da note minerali e di sottobosco, con un frutto rosso in sottofondo che invoglia all’assaggio. La trama tannica è fitta ma funge da sostegno al sorso, non è soverchiante. Il finale lungo, rinfrescante e sapido.

Redazione

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C’era una volta un pilota di aeroplani…

C’era una volta un pilota di aeroplani, che un bel giorno planò leggero su un luogo speciale.

Un posto chiamato Cerbaiona, a Montalcino, più precisamente sul versante nord-est, dove il galestro e la sabbia abbondano nel terreno e lo rendono perfetto per il sangiovese. È lì che Diego Molinari assieme alla moglie Nora crearono la loro azienda, coltivando dagli anni Settanta un appezzamento di appena 3,2 ettari, del quale 1,7 dedicato al Brunello.

Brunello di Montalcino 2008 – Cerbaiona

Con lo scorrere del tempo, e dopo aver mostrato al mondo la sua magia, Diego volò via da questa terra, ma prima di farlo vendette la sua amata Cerbaiona nel 2015 a un gruppo di investitori americani, affinché il frutto del suo lavoro continuasse a vivere anche dopo di lui.

Chi nella vita terrena ha fatto grandi cose, lascia ai posteri l’opportunità di farsi rivivere attraverso le proprie opere. E così, in una serata avvolta da un velo di dolce nostalgia, ho incontrato la magia creata da Diego Molinari negli anni in cui lavorava attivamente in vigna e in cantina.

Dopo aver tolto via la polvere dalla bottiglia di Brunello di Montalcino trovata in cantina, affondo il verme nel sughero, tiro su con decisione e delicatezza il tappo ancora perfettamente integro e verso il vino nel calice, lasciando effondere nell’aria i vapori di questa 2008.

Subito un caldo aroma di amarena matura, una nota ematica, un fiore carnoso. E poi il profumo di sottobosco, di cuoio, di resina di pino e tartufo nero.

La sensazione è quella di addentrarsi nella boscaglia una giornata autunnale, con il sole che penetra tra i rami.

Un vino nella sua piena maturità, ma allo stesso tempo vivace e desideroso di mostrarsi in tutta la sua bellezza.

L’assaggio comprova questa energia che al naso si cela appena dietro un certo candore autunnale e decadente: un’acidità prorompente si riversa in bocca ad ogni sorso con ampiezza e slancio, ritmato da un tannino raffinatissimo, che lo rende potente e aggraziato allo stesso tempo. Un vino raro, cupo e vitale, unico come l’occasione di berne una bottiglia, la manifestazione immortale di un gesto d’amore.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

La zonazione in Toscana, tra perplessità e opportunità

Sull’esempio dei grandi vini francesi, anche in Italia è nata recentemente la tendenza a classificare i vigneti cercando di esaltare le loro caratteristiche pedoclimatiche, in modo da comunicare al consumatore la singolarità di quel preciso appezzamento vitato e di conseguenza l’unicità dell’esperienza degustativa che ne deriva.

Questo trend è iniziato “recentemente” per modo di dire, visto che nella terra del Barolo le indicazioni di “Bussia” e “Rocche di Castiglione”, quelle che oggi definiamo Menzioni Geografiche Aggiuntive (MGA), comparivano già in etichetta nel 1961.

I terreni tufacei e ciottolosi di fronte al cratere dell’Amiata a Castelnuovo dell’Abate (Montalcino)

Dal momento che la suddivisione dei vigneti in Piemonte è cosa ben nota e che funziona benissimo in un rapporto trasparente col consumatore, oggi mi piacerebbe parlarvi della Toscana, dove effettivamente esiste da tempo l’idea di valorizzare il territorio sottolineando le sue peculiarità, anche se in realtà le soluzioni ipotizzate finora non sono state all’altezza di una comunicazione chiara, coerente e universale.

Innanzitutto, sarebbe molto più semplice far trasparire l’espressione del terroir se si utilizzasse un solo vitigno. Mi riferisco a quelle denominazioni famose per la loro vocazione alla produzione di sangiovese, spesso sedotte, però, dalla possibilità di aggiungere un ventaglio non troppo ristretto di varietà internazionali, ottenendo così un’alterazione delle qualità tipiche del vitigno in quel territorio.

Le terre rosse del Cerretalto (Montalcino)

Non è così semplice: seppure ultimamente sia aumentata una certa inclinazione al monovitigno, anche per semplificare il rapporto con il consumatore, in realtà la predilezione a vinificare e imbottigliare una varietà in purezza appartiene solo a una piccolissima parte della tradizione vitivinicola toscana. Pensate che fino a pochi anni fa il disciplinare non permetteva l’utilizzo del sangiovese al cento per cento né nel Chianti Classico né a Montepulciano, e le regole sono cambiate solo recentemente, tra il 1994 e il 1996.

L’opzione di assemblare diverse uve non nasce come scelta di marketing, o almeno non solo. È stata innanzitutto una necessità, sia per il fatto che il sangiovese non cresce bene ovunque, sia perché questo vitigno è a volte spigoloso, troppo acido, scarico di colore, quindi ha avuto bisogno di essere “aggiustato” con uve complementari. E così, col passare degli anni, questa consuetudine si è trasformata in tradizione: pensiamo a Carmignano e l’importanza del cabernet, o uva francesca, che viene unito al sangiovese da più di trecento anni.

Vista su La Conca d’Oro (Panzano in Chianti)

Oltre al dibattito sul giusto uvaggio, in Toscana l’obiettivo di una chiara valorizzazione della vigna è intralciato da un certo timore, provato da numerose aziende, che non vedono di buon’occhio un’eventuale classificazione di vigneti di rango superiore rispetto ad altri di rango inferiore, come avviene in Borgogna per i Grand Cru, i Premier Cru, i Villages e via discorrendo. Del resto, quale produttore di punto in bianco ammetterebbe mai che la vigna del vicino di casa è migliore della propria? Infine, questa pericolosa tendenza all’autoreferenzialità non riguarda solo la terra, ma anche la storia delle varie famiglie e aziende.  Troppo spesso nella comunicazione, a partire dalle etichette per finire ai siti web, si cede alla tentazione di concentrarsi sulla storia della famiglia, trascurando l’importanza del territorio. Non dico che la storia non sia importante, ma ormai agli appassionati preme di più conoscere la vigna, piuttosto che sentirsi ripetere per filo e per segno il racconto di cosa sia successo ad ogni generazione che si è succeduta nella gestione aziendale. Io credo che oggi, a meno che non si parli di Barone Ricasoli, Biondi Santi e pochi altri, bisognerebbe fare in modo che la terra sia la protagonista, e che la storia sia un supporto sempre fondamentale, ma di sottofondo.

I fossili marini di epoca pliocenica di Vigna Bossona (Montepulciano)

Oggi più che mai è necessario rivelare al mondo che i vini toscani sono fondamentalmente vini di territorio e che l’eterogeneità è la vera bellezza della Toscana. Il consumatore di oggi è molto più preparato e consapevole rispetto a ieri, conosce già le differenze tra le aree vinicole più importanti, e adesso non aspetta altro che appagare la sua curiosità nella scoperta delle pittoresche sfumature di questi luoghi nel bicchiere.

Pensiamo all’areale di Radda nel Chianti Classico, alla sua altitudine, alla roccia calcarea del terreno e ai boschi circostanti che danno al sangiovese una freschezza e una bevibilità unica. O alla zona di Castelnuovo dell’Abate a Montalcino, a quella sua suadente nota sapida e agrumata unica al mondo. Pensiamo alla finezza e all’eleganza della collina di Montosoli, oppure all’energia e vitalità dei vini che provengono dai terreni sabbiosi e argillosi della zona di Cervognano a Montepulciano. Un discorso diverso andrebbe fatto magari per la zona di Bolgheri, dove la “maison” ha un appeal molto più impattante rispetto al terroir, proprio come a Bordeaux, ma anche qua troviamo elementi unici che varrebbe la pena raccontare, come l’ossido di ferro della vigna del Sassicaia e le argille blu del Masseto.

  • Esempi di una comunicazione chiara in etichetta
  • Esempi di una comunicazione chiara in etichetta

Questi sono solo degli esempi per sottolineare quanto sarebbe importante valorizzare i dettagli dello splendido e variegato patrimonio di cui disponiamo.

Se non ci sono ancora le condizioni per arrivare ad una vera e propria zonazione, anche se interessanti studi e tentativi in tal senso sono stati fatti, l’auspicio è quello che si vada nella direzione di una maggiore attenzione verso le sottozone – comuni dei più importanti territori toscani, sia in etichetta, ma anche più in generale nella comunicazione. Si coglierebbe infatti il duplice obiettivo di valorizzare la qualità e varietà del vino toscano e orientare l’evoluto consumatore moderno.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Rosso di Montepulciano 2018 – Poderi Sanguineto I e II

C’è un vino che durante queste festività si è imposto alla mia attenzione. Proprio così: si è imposto facendosi notare sgomitando tra le altre bottiglie e mettendole in secondo piano grazie alla sua vibrante luminosità e con la sua classe cristallina.

Si tratta del Rosso di Montepulciano di Poderi Sanguineto I e II, storica azienda di Montepulciano (Acquaviva) che nel millesimo 2018 ha prodotto un Rosso di Montepulciano veramente squisito. Il vino è ottenuto da sangiovese (prugnolo gentile) per l’80% con canaiolo nero e mammolo a completare il blend. Vinificazione tradizionale, con fermentazione spontanea e affinamento in botti grandi di Slavonia e Allier per circa 12 mesi.

Rosso di Montepulciano 2018 – Poderi Sanguineto I e II

Il vino si presente in una sfavillante veste rosso rubino.

Il naso è sorpreso dapprima da vividi profumi di frutta come ciliegia e ribes nero, poi si fa strada il bergamotto accompagnato da una freschissima viola. In sottofondo una nota accennata di rotella di liquirizia. Il tutto in una cornice di pulizia e precisione veramente encomiabile.

L’ingresso del vino nel cavo orale è caratterizzato da impeto di frutta ma senza alcuna mollezza, dinamica e progressione accompagnano il sorso che è fresco e succoso, ampio e profondo. Inutile dire che la bevibilità è una naturale conseguenza della composta piacevolezza del vino. Il tannino è presente con trama sottile, la chiusura è sapida e su piacevoli ritorni ferrosi. La mineralità si accentua nel bicchiere del giorno successivo.

Plus: questo Rosso di Montepulciano non è un piccolo Nobile, ma un vino completo e identitario fatto di eleganza e scorrevolezza, sapore e spessore.