Verticale di Barolo 1995 – 2004: stappando il decennio del rinnovamento

I luoghi nascosti riservano sempre le sorprese migliori. Prendi un ristorante nella bassa modenese, ad esempio, specialmente se si trova a Finale Emilia, dove già il nome suggerisce un’idea di remoto, perso nella pianura a nord della città, a pochi passi dalla riva del Po.

La Trattoria Entrà è in realtà una locanda molto frequentata dagli amanti del vino e della buona cucina, dove il sapore di gnocco fritto e i profumi del ragù accompagnano con convivialità certe degustazioni epiche. Nelle migliori osterie il vino abbandona per un attimo la sua sacralità e torna ad essere cosa umana: non servono diplomi o attestati per poterne parlare, ma semplicemente la giusta apertura mentale per fare caso a tutte le sensazioni olfattive, tattili ed emozionali derivate dalla più sublime delle bevande.

Un giovedì di rientro da Vinitaly mi sono diretta da Antonio alla Trattoria Entrà per partecipare ad una speciale degustazione di Barolo preparata dal nostro amico Roberto. Una verticale dal 1995 al 2004, con l’unica eccezione per la 2002, ovvero una delle annate più sfortunate in Langa nel nuovo millennio. Abbiamo comunque assaggiato un vino nato in questa annata: tra poco vi svelerò quale e garantisco che non deluderà le alte aspettative.

Gli anni ’90 in Langa hanno scritto la storia di una rivoluzione. Era il periodo dei Barolo Boys, un gruppo di giovani vignaioli desiderosi di un riscatto rispetto alle generazioni precedenti troppo ancorate alle usanze e al detto “abbiamo sempre fatto così”. Dall’altro lato, invece, i fedelissimi alla tradizione non hanno vacillato davanti al successo delle barrique e del vino pronto subito, ma hanno continuato impavidi e fiduciosi a essere fedeli a loro stessi e alle botti grandi.

Non potevo perdere l’opportunità di fare un viaggio nello spazio, tra le dolci e ordinate colline della Langa, e nel tempo, ritornando al passato ad assaporare quel periodo di fermento. Con mia grande sorpresa ben presto ho capito che tra i 15 commensali solamente 3 facevano parte del settore, tutti gli altri erano appassionati italiani, disposti a pagare una discreta quota per farsi guidare in un’esperienza di gusto unica. Sono molto contenta di questo segnale, che confuta chi dice che il vino circola solo nelle tavole degli addetti ai lavori. Penso, infatti, che l’unico modo per salvare la crisi del vino sia riuscire a coinvolgere più persone in questa stupefacente passione.

La lista dei vini era stata fornita in precedenza, ma le bottiglie sono state servite alla cieca, in batterie di tre calici alla volta, in modo da metterci alla prova facendo una degustazione libera da pregiudizi.

Appena seduti ci hanno dato il benvenuto con salumi emiliani, schiacciata al forno e lo Champagne blanc de blancs 2002 di Pol Roger. A differenza del Barolo, questa annata in Champagne è stata preludio di imprese eccezionali e immense soddisfazioni. Il naso, sorprendente giovane e oltremodo complesso, conferma l’innegabile potenzialità d’invecchiamento dello chardonnay. I terziari sono appena accennati in un sorso dinamico e persistente, accompagnato da un corredo aromatico raffinato, ricco di fiori bianchi e frutta secca, assieme a un leggerissimo ricordo ossidativo. Infine la bolla elegante e intensa non lascia traccia di alcuna grassezza.

Elencherò i Baroli non seguendo la successione di servizio, ma in ordine cronologico dal più giovane al più vecchio, in modo da fornire una migliore idea del percorso storico.

Cappellano, Barolo Gabutti Piè Rupestris 2004. Intenso sia di colore, sia al naso, questo rinomato cru di Serralunga è un’esplosione di profumi, dalla ciliegia alla liquirizia, dal tartufo al lampone, dal goudron al bergamotto. Questo cru è situato a Serralunga, la cui conformazione fisica che si sviluppa su un crinale stretto e lungo, lo rende poco esposto ai venti freddi del nord. Il microclima è tendenzialmente caldo, tuttavia il suolo calcareo regala vini di una straordinaria freschezza. La bocca è infatti vibrante, con un tannino potente e scrupolosamente integrato. Il finale rilascia un retrogusto balsamico, un rimando di caffè e cioccolato bianco. Una grande eredità di Teobaldo Cappellano, babbo di Augusto, che oggi conduce l’azienda seguendo la stessa filosofia irriverente e caparbia. Vino indimenticabile.

Giuseppe Mascarello, Barolo Monprivato 2003.  Il vino più rappresentativo dell’azienda, situata a Castiglione Falletto, il cui suolo è anch’esso ricco di calcare attivo e marne limoso-argillose. Presenta il suo classico colore scarico e a una prima olfazione si riconoscono sentori di nocciola e sottobosco. All’assaggio prevale una certa dolcezza data dalla vaniglia, il tabacco biondo, e un’assenza totale di tannino intenerisce il sorso. L’annata non è molto fortunata e mi aspettavo un vino al tramonto del suo stadio evolutivo, invece ritroviamo nel bicchiere una certa vivacità, seppure un pelo troppo morbido e corto per i miei gusti.

Comm. G.B. Burlotto, Barolo Monvigliero 2001. Colore lieve e granato, che anticipa la degustazione di un vino evoluto. Al naso predominano i terziari, accompagnati dalla rosa. Dopo diversi minuti nel bicchiere si sprigiona una nota di pepe bianco che ritrovo spesso non solo in questo cru, ma nel comune di Verduno in generale, basti pensare al suo vitigno tipico, il pelaverga, il cui sentore principale è proprio il pepe bianco. In bocca il vino rimane fresco, con un tannino finale soavemente incalzante.

Giacomo Conterno Barolo Cascina Francia 2000. Primo cru di proprietà della famiglia, situato a Serralunga, e questa annata a Barolo è stata significativamente acclamata dalla critica, avendo ricevuto 100 punti da Wine Spectator.  Il vino fu realizzato ancora sotto la supervisione del babbo di Roberto, Giovanni, e rivela sentori al naso molto intriganti, intensi e variegati, che rimandano al tepore di un’annata calorosa: dall’arancia sanguinella al timo, addirittura note di frutta esotica come il mango o l’anguria, la gomma lacca, e infine un rimando leggermente vegetale. Nel suo ampissimo spettro olfattivo, manca solamente un rimando floreale. Il sorso è molto più rigoroso, rivelando con fierezza la struttura aggraziata e decisa dei grandi vini piemontesi, accompagnata dall’acidità che ne garantisce il dinamismo in bocca.

Bartolo Mascarello, Barolo 1999. Così come amava autodefinirsi, “tradizionalista nel vino e progressista in politica” (basti pensare alle iconiche etichette dell’annata precedente, che recitavano “no barrique – no Berlusconi”), il Barolo di Bartolo racchiude l’essenza di diversi cru: a Barolo due parcelle a Cannubi (Cannubi e Cannubi San Lorenzo) e Ruè, mentre Rocche dell’Annunziata a La Morra, e a Monforte Monrobiolo di Bussia. Il naso è costellato da spezie fresche, come il rosmarino, la maggiorana, l’alloro e l’anice stellato. In bocca si esprime con una finezza dovuta alla maestria dei migliori artigiani, il vino più elegante della degustazione e, per me, il migliore della serata. È fresco ma senza un’acidità troppo affilata, è ampio ma senza dimostrarsi pesante. È la dimostrazione che nel vino la grazia combacia con la misura.

Rocche dei Manzoni: Barolo Bussia Pianpolvere Riserva 1998. Un’annata importante, non solo dal punto di vista qualitativo, ma fu l’anno in cui Valentino Migliorini acquistò l’azienda Pianpolvere Soprano, una sottozona del prestigioso cru Bussia, a Monforte d’Alba. Il vino rispecchia uno stile decisamente moderno. Ciò non significa che il vino sia eccessivamente morbido, anzi, il tannino è ben presente e il sorso non è così voluminoso. È concentrato, con un naso evoluto che rilascia un sentore di caramello. Non è dotato di una lunghezza infinita ma la freschezza non manca e gli conferisce vitalità.

Ceretto, Barolo Bricco Rocche 1997. Un vino che è stato creato nel periodo di un cambio generazionale, dai fratelli Bruno e Marcello Ceretto ai loro figli: Lisa, Alessandro, Roberta e Federico. Quello dei Ceretto è un nome che è sinonimo di innovazione, basta ammirare il design della cantina a Castiglione Falletto, ai lati del cru in assaggio quella sera, oppure ai colori sgargianti della Cappella del Barolo, all’interno del cru Brunate, a La Morra: entrambi sono luoghi di pellegrinaggio per chi vuole assaporare l’energia positiva apportata da quegli anni rivoluzionari. Un nome che più piemontese di così non si può: “bricco” significa cima della collina, mentre “rocche” fa riferimento al risultato di un fenomeno geologico di erosione. Si tratta anche della più piccola MGA del disciplinare, estesa circa un ettaro. Il vino è intenso, balsamico, speziato: in una parola, moderno. Regala una grande freschezza in entrata, per poi lasciare lo spazio all’astringenza del tannino e terminare con una nuova freschezza finale.

Bruno Giacosa, Barolo Villero 1996. Cru adiacente a Bricco Rocche, di cui abbiamo appena parlato, eppure totalmente diverso nel bicchiere. Merito del genio di Bruno Giacosa, uno degli interpreti più raffinati di queste terre. L’etichetta ritrae la cantina fondata a Neive nel 1900, ed è proprio al Barbaresco che riporta il nostro cuore ogni volta che si parla di lui. Le bottiglie di Giacosa etichettate “Barolo” sono sicuramente molto prestigiose, e sono convinta che la loro particolare raffinatezza, così eterea e soave senza rinunciare alla sua consistenza, sia dovuta al fatto che a crearla sia stato un profondo estimatore di Barbaresco. Forse è per questa somiglianza che l’ho tanto apprezzato: il colore è chiaro e brillante, sembra molto più giovane dei suoi 28 anni. Carnoso nei profumi di peonia e amarena, il naso è esuberante e complesso, rivela note di muschio e sottobosco. La bocca invece è più agrumata, dal sapore di arancia sanguinella. Il tannino possiede una finezza rara, il sorso persiste a lungo. Il vino più elegante della serata.

Roberto Voerzio, Barolo la Serra 1995. Ero curiosissima di assaggiare il vino di questo Barolo Boy, nell’anno successivo al grande debutto in America del leggendario gruppo di giovani vignaioli irriverenti, grazie all’importatore Marc de Grazia, stabilendo uno stacco definitivo con la tradizione e le usanze delle generazioni precedenti, alla conquista del mondo attraverso il vino di qualità. Purtroppo, sono stata esaudita solo a metà perché, quando il vino mostra anche solo una lieve deviazione dal tappo, per me risulta impossibile da valutare.

Siamo stati ripagati con un vino fuori dal coro offerto da Antonio, come il Barolo 1988 della Cantina della Porta Rossa, azienda a me sconosciuta, originaria di Diano d’Alba. Il colore era scarico, con profumi che stavano virando verso i terziari. Vino anch’esso agrumato, con note di cioccolato bianco.

Abbiamo terminato la serata con altre due scoperte interessanti: Retzstadter Langenberg, Silvaner 1990 Spätlese, la cui evoluzione vira in note molto simili a quelle del riesling, e infine La Morandina, Moscato d’Asti 2020, perfetto con la crostata di amarene. A essere sincera ho trascurato i vini dolci, per rivisitare nuovamente alcune delle straordinarie bottiglie di Barolo, in modo da imprimere il più possibile nella mente il ricordo di questa serata prodigiosa.

Se siete arrivati fin qua, probabilmente vi aspetterete che tiri le somme premiando l’una o l’altra filosofia produttiva. Ovviamente non ho alcuna intenzione di farlo, anzi, preferisco osservare con ammirazione quegli anni di rinnovamento. La parola ‘rinnovamento’ abbraccia entrambi i metodi di produzione: da un lato, significa rimettere a nuovo, sostituendo ciò che è vecchio con ciò che è nuovo; dall’altro, implica la scelta di ripetere un’azione, di accoglierla di nuovo, magari con uno sguardo più fresco. È proprio il concetto e l’intenzione di rinnovamento che ha contribuito al grande successo del Barolo. Dopo tanti anni, questo vino è ancora capace di far sussultare il cuore e di ispirare le nostre riflessioni.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

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