Ad un amico degustatore, molto incline a bere vini naturali, ho fatto notare di recente come i vini da lui degustati fossero in larga parte al di fuori del sistema delle Denominazioni di Origine. I vini naturali si configurano infatti, sempre più spesso, come Vini da Tavola.
Mi ha risposto: “è il futuro”.
Ho risposto: “è questo il futuro che vogliamo?”.
Da questo dialogo nasce l’idea di approfondire la tematica e aprire un dibattito sul tema, quanto mai attuale.
Ho proposto a Samuel Cogliati di accompagnarci in questa riflessione. Samuel Cogliati è editore (fondatore e titolare di Possibilia Editore), scrittore, giornalista, divulgatore e si occupa di vino da molti anni con uno sguardo particolarmente attento ai vini naturali (è stato per molti anni membro della cosiddetta “ciurma di Porthos”).

Samuel, la vedi anche tu questa tendenza da parte di molti vignerons di proporre vini fuori dalla Denominazione di Origine scegliendo di proporre il proprio prodotto come Vino da Tavola?
Sì, mi pare di constatare che sia una tendenza ormai consolidata da tempo, soprattutto tra i vignaioli “eterodossi”, che qualche anno fa erano considerati collaterali al “sistema”. Mi sembra che il fenomeno abbia preso piede in Francia prima che in Italia, un po’ come spesso succede nelle vicende che riguardano il vino. Oggi accade spesso anche in Italia, con la differenza che si etichetta come “vino rosso”, “vino bianco” o “vino rosato” ciò che Oltralpe si denomina “Vin de France”. Perché l’Italia rinunci al proprio nome non l’ho mai capito.
Se in passato alcuni produttori sono usciti dalla loro denominazione a causa di “bocciature” – spesso discutibili – da parte delle commissioni di assaggio (notissimi i casi che hanno coinvolto Montevertine, Villa Diamante o Stefano Amerighi), oggi la scelta sembra fatta consapevolmente a monte. Per quale motivo secondo te? Maggior libertà di sperimentare, rifiuto di protocolli e regole omologanti, scelta commerciale?
In origine questo fenomeno era in genere il risultato di una “bocciatura” dei vini da parte delle commissioni d’assaggio delle DO. Poi è diventato spesso un atto deliberato di “ribellione” e forse anche una tendenza di moda. Certo, questa scelta impone meno vincoli normativi e più libertà operativo/espressiva, oltre che meno burocrazia, ma ripeto: oggi talora è quasi una opzione “trendy”.
È paradossale che, proprio in una fase in cui appassionati e consumatori riconoscono nel terroir un valore fondamentale, il sistema delle Denominazione di Origine, che tal valore dovrebbe garantire, venga abbandonato da molti artigiani del vino. Che ne sarà della territorialità dei vini?
La “territorialità” è un concetto ostico e molto complicato, che non possiamo affrontare in questa sede. Comunque a mio avviso ha poco a che fare con l’etichetta e il nome che vi è riportato. Non vedo come né perché un vino AOP o DOCG debba essere più “territoriale” di uno senza denominazione.
Pensi che sia auspicabile una revisione del sistema di classificazione dei vini? Come far convivere territorialità e artigianalità, voglia di innovare e tradizione?
Personalmente del sistema di classificazione dei vini mi importa poco, è soprattutto un riferimento cognitivo e mnemonico che aiuta a orientarsi. Semmai mi piacerebbe che le etichette riportassero liberamente più fatti e dati concreti, ovviamente a condizione che siano veri, dimostrabili e verificabili. Quanto al sistema delle denominazioni d’origine, così come le conosciamo, purtroppo temo sia anacronistico. È un altro tema ampio, spinoso e complesso, ma non dimentichiamo che le DO nacquero essenzialmente per fini commerciali di controllo anti-frode, ancor prima che come garanzia di qualità. Tant’è vero che si sono poi generalizzate, inglobando quasi tutto ciò che prima non godeva di denominazione, ma intervenendo poco sulla sostanza. Ha senso? La “territorialità” è un nome (magari vago e un po’ risibile) in etichetta?
Diego Mutarelli
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Un pensiero su “Vini naturali, nuovi consumatori e Denominazioni di Origine: una difficile convivenza? Una conversazione con Samuel Cogliati”