Ha suscitato ampio dibattito il post pubblicato qualche giorno fa dal titolo “Vini naturali, nuovi consumatori e Denominazioni di Origine: una difficile convivenza? Una conversazione con Samuel Cogliati”.
Per questo motivo ho deciso di continuare ad approfondire il tema con l’aiuto dell’amico Paolo De Cristofaro, giornalista e degustatore, storico collaboratore della Guida Vini Gambero Rosso oltre che animatore, insieme ad Antonio Boco, del wineblog Tipicamente.

Paolo, proviamo a fare un passo avanti su quanto emerso fino ad ora sul tema Denominazioni di Origine (DO). Qual è o dovrebbe essere il loro ruolo? Garantire riconoscibilità, territorialità e persino qualità al consumatore? Oppure garantire valore aggiunto / differenziazione sul mercato ai produttori?
Il ruolo delle DO è legato alla necessità di garantire una provenienza ed una conformità a determinati parametri/regole stabiliti da un disciplinare. Ovvero che quel vino sia effettivamente realizzato da quella zona, con quei vitigni, con i mesi previsti di affinamento, etc. Ma poco di più, perché quelli appena ricordati sono per molti versi gli unici elementi che un protocollo di controllo possa realisticamente garantire.
Gli altri fattori quali riconoscibilità, territorialità, per non parlare della qualità, sono veicolati semmai in maniera indiretta. Aspetti che una DO può portarsi dietro senza però poterli garantire a priori, sia perché parliamo di parametri non misurabili, in gran parte soggettivi, sia perché dipendono dalla libera interpretazione che il vignaiolo dà al suo vino.
Vale però la pena aprire una parentesi. E’ innegabile che ci sia una grande differenza tra DO con una storia codificata in bottiglia (che permette di delineare un’identità attorno alla quale ci si possa riconoscere) e DO (la maggioranza), che hanno una storia recente o recentissima, e che per molti anni hanno avuto pochi produttori a rivendicarle. Denominazioni che il più delle volte non poggiano su dati produttivi ed espressivi statisticamente sufficientemente ampi da permettere anche solo di abbozzare un tentativo di descrizione di quel che può significare territorialità/riconoscibilità per i vini tutelati. Chiudo dicendo che è invece assolutamente estraneo allo spirito di un sistema di DO, dal mio punto di vista, il discorso del valore aggiunto. Il valore aggiunto che i territori devono “sedimentare” è piuttosto frutto della prassi. Torna quindi in gioco l’elemento umano.
Il tema, benché molto d’attualità, non è certo nuovo. Basti pensa alle diverse opinioni in proposito di Luigi Veronelli e Mario Soldati, a cui peraltro anche il tuo podcast “Vino al Vino 50 Anni Dopo” dà ampio risalto.
È vero: il tema, seppur attualissimo, non prende forma certo oggi e se ne discute da tempo. Apparentemente Soldati e Veronelli sono ai due estremi della barricata: Veronelli promuove addirittura l’idea delle Denominazione Comunali (De.Co.), per legare nella maniera più forte possibile il marchio al comune di provenienza, mentre Soldati vede con sospetto il vino con l’etichetta, va alla ricerca di contadini privati che fanno vino per autoconsumo e ha perfino delle riserve sul vino che viaggia… Ma, a ben vedere, i due “maestri” sono molto più vicini di quel che può sembrare.
Veronelli si muove infatti all’interno del “mondo reale”: ha talenti da scrittore, ma è anche uno dei primi assaggiatori professionali (nonché divulgatore, giornalista, catalogatore e studioso del vino a tutto tondo), per cui si misura con la piramide di qualità che si delinea in Italia dagli anni ’60 e vede nelle De.Co. un argine per sottrarsi alla genericità delle Denominazioni in mano all’industria e agli imbottigliatori, immaginandolo come uno strumento a disposizione dei piccoli artigiani per potersi differenziare.
Soldati, invece, ben lungi dal considerarsi un professionista, si dichiara orgogliosamente un “amatore inesperto”, si fa accompagnare nei suoi viaggi da Ignazio Boccoli dell’Istituto Enologico, cerca di approfondire la conoscenza tecnica, ma rimane pur sempre un appassionato, uno che nella vita fa un altro mestiere e può permettersi di portare avanti l’utopia del vino senza fascetta o senza etichetta. Nella sua visione c’è quindi un rifiuto “a monte” di un sistema normativo che lui già vede (e la diagnosi non è lontana da quella di Veronelli) come strutturato appositamente per diventare un cavallo di Troia nei territori in cui la fanno da padroni le industrie e i grandi imbottigliatori, quelli che “manipolano” e diluiscono il carattere territoriale dei vini molto più di quanto sia permesso oggi. Sono però convinto che anche Soldati avrebbe appoggiato senza tentennamenti un sistema di DO in grado di garantire in primis contadini ed artigiani, e con loro il “vino genuino” che cerca nei suoi viaggi.
I vini naturali, soprattutto se provenienti da zone meno prestigiose, scelgono spesso la strada del Vino da Tavola. Questo permette loro maggior libertà espressiva e minori rischi di doversi adeguare a regole dettate dai Disciplinari o di essere bocciati dalle commissioni di assaggio, magari per velature del vino, colori non ordinari, volatili sopra le righe. Pensi che i Disciplinari e le regole delle commissioni di assaggio debbano diventare più flessibili e cercare di accogliere maggiormente espressioni meno “allineate” di fare vino?
Un sistema di DO che garantisce provenienza e rispetto di determinati protocolli non troppo stringenti, teoricamente non avrebbe bisogno delle commissioni di assaggio, né dovrebbe creare problemi a produttori meno “ortodossi”. Se un certo vino rispetta i vari passaggi produttivi stabiliti e più in generale le caratteristiche oggettive misurabili, dal mio punto di vista dovrebbe avere tutto il diritto di appartenere ad un determinata DO, anche a fronte di una qualità organolettica “pessima”. Gli aspetti non misurabili, interpretabili ed in ultima istanza valutativi, dovrebbero essere lasciati al giudizio dei consumatori.
Anche perché viviamo in un momento storico in cui stiamo assistendo ad un rimescolamento della stessa grammatica interpretativa. I bevitori, soprattutto delle nuove generazioni, sono alfabetizzati a gusti completamenti diversi rispetto a quelli che potevano fare da punto di riferimento anche soli vent’anni fa. Consumatori che possono avere una tolleranza molto più ampia alla voltatile, all’ossidazione, alla torbidità, magari perché si avvicinano al mondo del vino passando dal mondo della birra artigianale, delle fermentazioni spontanee, eccetera. A mio modo di vedere le DO non dovrebbero entrare nel merito degli stili e delle espressioni che un vignaiolo cerca di enfatizzare, anche perché rischiano di fotografare un momento storico circoscritto, soggetto ad evoluzioni anche repentine. E lo abbiamo visto: vini bocciati perché magari avevano un colore troppo scarico (semplicemente per il fatto che in una certa fase si preferivano vini più carichi), salvo poi il ribaltarsi della situazione e delle preferenze di mercato a favore di vini più trasparenti e luminosi.
Diego Mutarelli
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