Visita presso Château-Figeac, al vertice del nuovo classement di Saint-Émilion

Durante le vacanze estive appena trascorse, di passaggio nei pressi di Bordeaux, abbiamo avuto modo di trascorrere qualche ora a Saint-Émilion, celebre terroir della rive droite. Eravamo molto curiosi di conoscere Château-Figeac, recentemente issatosi al vertice del classement di Saint-Émilion. Infatti a Saint-Émilion – diversamente da quanto succede nella rive gauche con un classement sostanzialmente immutabile dal 1855 – il classement viene rivisto ogni 10 anni. E l’ultima revisione del 2022 ha portato non poche sorprese:

  • l’uscita dal ranking, per propria decisione di non sottostare alla valutazione della commissione, di tre aziende celeberrime: Angélus, Ausone e Cheval Blanc
  • l’ottenimento del massimo riconoscimento tra i Premiers grands crus classés (A) di sole due aziende, ovvero Château Pavie (conferma del classement precedente) e, appunto, Château-Figeac (promossa al vertice della piramide qualitativa di Saint-Émilion).
Château Figeac

Il nuovo classement ha attribuito un riconoscimento a solo 85 aziende che sono state così suddividise:

2 Premiers Grands Crus Classés A

12 Premiers Grands Crus Classés

71 Grands Crus Classés

Se vuoi dare uno sguardo complessivo agli 85 Châteaux classificati visita pure il link ufficiale accessibile cliccando qui.

Château Figeac è un’azienda storica di Saint-Émilion, addirittura la sua presenza è attestata in epoca gallo-romana, quando era di proprietà della famiglia Figeacus. É posseduta dalla famiglia Manoncourt dal 1892, che con l’annata 2023, ha festeggiato infatti la 130sima vendemmia!

L’azienda possiede 54 ettari, di cui 41 a vigneto: cabernet franc, cabernet sauvignon e merlot in parti uguali; una presenza così bassa di merlot nella rive droite è piuttosto anomala e deriva dal terroir peculiare delle vigne di Figeac, che in buona parte è composto da graves (ghiaia e ciottoli), suolo ideale per il cabernet. Peraltro lo Château grazie alla presenza di 2/3 di cabernet nel proprio blend si avvantaggia di freschezza ed eleganza proprio in un periodo di riscaldamento climatico dove molte aziende si trovano in difficoltà a gestire un vitigno precoce come il merlot.

Abbiamo visitato la cantina e la sala di degustazione rinnovate nel 2021 e incastonate negli originari ambienti dello Château grazie ad una sorprendente opera di recupero architettonico. La nuova cantina si sviluppa verticalmente su tre livelli ed è amplissima e moderna; ricorda, per l’uso abbondante di vetro, acciaio e legno, una strana creatura metà piroscafo, metà astronave. Molto eleganti e luminosi gli spazi dedicati alle degustazioni con i clienti in cui siamo stati ospitati. Oltre alle foto che sotto riportiamo suggeriamo di visionare questo video per provare a camminare, seppur virtualmente, nella cantina.

L’azienda produce due bottiglie di vino rosso: il second-vin chiamato Petit Figeac (circa 40.000 bottiglie) ed il grand-vin Château Figeac (circa 120.000 bottiglie). Dopo una selezione molto accurata delle bacche la fermentazione avviene prevalentemente in vasche di acciaio inox (solo 8 sono di legno) e quindi il vino sosta in barriques (nuove al 100% per il grand-vin, mediamente 16 mesi), dove si svolge la malolattica. La cosa interessante da sottolineare è che solo in questo momento, dopo l’assaggio delle barriques e le prove di assemblaggio, si decide cosa ha la qualità per andare nel vino principale e cosa resta nel vino di ricaduta Petit Figeac. Non è dunque una selezione delle uve o delle vigne (ad esempio vigne più giovani nel second vin come accade in altri casi), ma proprio una selezione dei vini che decide anno per anno come sarà ottenuto il grand-vin.

I vini assaggiati:

Saint-Émilion Grand Cru Petit-Figeac 2021: una percentuale più alta di merlot (50%) rispetto al fratello maggiore ed un uso meno preponderante del legno nuovo. Si tratta di un second vin approcciabile anche in gioventù (ma durerà qualche lustro) che ora si presenta con un olfatto espressivo e caratterizzato da un certa dolcezza di frutto (ribes), ma anche fiori rossi, scatola di sigari ed un tocco erbaceo. Sorso ampio e voluttuoso ma l’acidità non manca, il vino è scorrevole dal tannino vellutato. Sapido in chiusura. Un vino che coniuga eleganza e dolcezza, la confezione è perfetta e di grande equilibrio senza alcun eccesso di morbidezza. Non è solo un vino di ricaduta insomma.

Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé Château-Figeac 2018: prugna, marasca, la dolcezza dello zucchero filato, ma anche spezie e frutta secca… il naso è piuttosto leggibile nonostante la relativa giovinezza. Il sorso è sorprendente nella sua intensità e volume, materico e denso eppure per nulla statico. Vi è infatti un’ottima progressione, l’acidità è l’architrave della costruzione enologica, il vino è largo sì, ma anche profondo e dal tannino ben integrato che solo in chiusura fornisce il giusto appiglio. Lunghissimo su note saline e di frutta rossa. Vino di impatto ma non dimostrativo, la materia possente non è fine a sé stessa ma funzionale ad un vino che vuole essere di grande prospettiva ma godibile anche in gioventù.

Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé Château-Figeac 2009: questo assaggio inizia a mostrare le potenzialità che l’evoluzione in vetro apporta ad un grande Bordeaux, il vino risulta più disteso e complesso del precedente, con sfumature affascinanti: baccello di vaniglia, confettura di more, scatola di sigari, sottobosco, ma anche cuoio, grafite, sangue e un tocco vegetale….Sorso sorprendentemente fresco, dal tannino fitto ma fine. Se il millesimo 2018 era avvolgente e potente, questo 2009, non certo esile, gioca maggiormente sull’eleganza ed il ricamo aromatico. La persistenza è notevolissima.

Diego Mutarelli
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Ruje 2013, il grande rosso di Zidarich

Chi segue con regolarità questa pagine sa che il Carso vi compare spesso. La maggior parte delle volte ci siamo concentrati sulla vitovska e sulla malvasia, i vitigni a bacca bianca che la fanno da padrone sia commercialmente sia dal punto di vista degli ettari vitati. Questa volta parliamo invece di un grande rosso del Carso, il Ruje 2013, messo a punto da Benjamin Zidarich.

Si tratta di un blend di merlot (80%) e terrano (20%), due vitigni per molti versi antitetici: internazionale e aristocratico il merlot, autoctono e fieramente rustico il terrano. Due vitigni che però – come dimostra il vino che abbiamo nel calice – se acclimatati in vigne vecchie e con il giusto affinamento trascorso in legni di varia dimensione ed in vetro, possono integrarsi con una splendida sinergia. E così la materia fruttata e morbida portata in dote dal merlot si fonde e assimila perfettamente l’acidità irruente terrano. Il risultato è quello di un vino originale e coinvolgente.

Il colore è rosso rubino dai riflessi bluastri. Al naso inizialmente si riconosce la frutta matura (prugna) e una bella floralità. Poi si susseguono caffè, cioccolato fondente, un tocco di cannella, pepe nero, quindi un balsamico che ricorda gli aghi di pino. A bicchiere fermo il quadro si schiarisce ed esce un’intrigante nota di anguria.

Sorso voluttuoso, morbido e di volume ma senza alcuna mollezza, l’acidità del terrano fornisce slancio e allungo e sostiene lo sviluppo, il tannino è magistralmente estratto e la chiusura è lunga su ritorni di frutta rossa, spezie e grafite.

Una grande vino rosso del Carso che potrebbe accompagnare degnamente uno spezzatino di cinghiale al cacao.

Diego Mutarelli
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Bolgheri: fra terra e mare, nella luce

È oramai una consuetudine, per la delegazione AIS di Milano, festeggiare il proprio compleanno con una masterclass a firma di Armando Castagno; quest’anno il tema scelto è stato Bolgheri: si è partiti dalla storia, per poi analizzare la zona di produzione, il disciplinare, le uve coltivate e non ultimo dodici vini in degustazione, in grado di sigillare nella mente il viaggio precedente.

Abbiamo volutamente ripreso il titolo della presentazione di Armando Castagno come titolo stesso del nostro breve articolo proprio perché quella luce accecante, su Bolgheri e sulle sue vigne, è ciò che ci è rimasto più impresso, durante e oltre la serata.

Ed eccoci addentro nella storia: nell’Ottocento la popolazione di Bolgheri viveva in un territorio poverissimo e paludoso e una diretta conseguenza della miseria era un tasso di analfabetismo fra i più alti in Italia; si era lontanissimi da tutto ciò che è ora Bolgheri: un territorio vitivinicolo di grande prestigio, costantemente premiato in Italia e all’estero, simbolo di un visionario spirito imprenditoriale che ha creato un vino iconico, il Sassicaia.

L’uomo di cui parliamo è il Marchese Mario Incisa della Rocchetta (1899-1983): originario del Piemonte, appassionato di vini francesi, ad inizio degli anni Quaranta, fece piantare, nella sua tenuta di San Guido, a Bolgheri, un ettaro e mezzo di cabernet sauvignon per produrre un vino destinato a lui, alla sua famiglia, ai suoi ospiti. Dopo vent’anni, con il fondamentale supporto dell’enologo Giacomo Tachis, inizia la commercializzazione del Sassicaia, un blend a maggioranza cabernet sauvignon con il contributo, per il 20% di cabernet franc, affinamento in barrique di rovere francese.

Sulla storia di questo vino, sui riconoscimenti che ha iniziato ad avere dall’annata 1972, sui disciplinari e sull’attuale contesto a Bolgheri, ovvero su tanti altri personaggi che a partire dagli anni Settanta hanno reso grande la zona, rimandiamo al sito del consorzio www.bolgheridoc.com, completo ed esaustivo, citando solo qualche dato e una curiosità:

  • dall’ettaro e mezzo piantato nel 1944 nella Tenuta San Guido, siamo arrivati a oltre 1.500 ettari, di cui circa il 30% a cabernet sauvignon, il 20% a merlot, il 15% cabernet franc;
  • i vini rossi coprono oltre l’80% del totale della produzione, i bianchi, a base principalmente di vermentino (a seguire sauvignon e viogner) il 14%, il restante, scarso 6%, è vino rosato;
  • la matrice geologica spazia dall’alberese (calcare), al macigno (arenarie), al galestro, flysch, marne;
  • il clima è mediterraneo ma asciutto, grazie ai venti e i giorni di luce sono sempre oltre la media italica, scarse le precipitazioni; da cui lo spunto per il titolo della serata;
  • le aziende consorziate (98% del totale) sono una settantina, otto delle quali possiedono oltre 50 ettari vitati; la conseguenza diretta di come storicamente si è sviluppata l’attività agricola è tale per cui dieci aziende possiedono oltre il 70% dei vigneti;
  • Mario Incisa della Rocchetta era un ambientalista ante litteram: nutriva un profondo, concreto, rispetto per la natura e fu il primo presidente italiano del WWF; il rifugio faunistico Padule di Bolgheri, nato nel 1959, oasi affiliata al WWF tuttora presente, ne è la testimonianza.

Prima di addentrarci nella presentazione dei dodici vini in degustazione, un bianco, un rosato e dieci rossi, un breve, ulteriore, accenno all’eterogeneità non solo dei vini, ma delle stesse cantine, i cui proprietari hanno origini molto diverse: troviamo imprenditori di altre zone d’Italia, storiche dinastie nobiliari, contadini marchigiani emigrati negli anni Cinquanta – Sessanta a seguito di riforme agrarie e non ultimo abitanti del luogo, una tipicità che differenzia Bolgheri da tutte le altre zone vitivinicole italiane.

I vini degustati

Bianco di Orma Vermentino 2022 – Podere Orma: un vino con una piacevole intensità sapida e dal carattere marino, ricorda subito l’estate appena finita.

Bolgheri Rosato Caccia al Palazzo 2022 – Tenuta di Vaira: un rosato nella sua espressione giovanile ottenuto dal cabernet sauvignon al 70%, 15% di merlot, che dona avvolgenza  e 15% syrah, che conferisce una delicata nota speziata.

Bolgheri Rosso Ai confini del Bosco 2021 – Mulini di Segalari:  un campione dalla botte di un’azienda biodinamica, letteralmente sperduta nel bosco e da qui il nome del vino. Fermentazione spontanea per cabernet sauvignon e cabernet franc al 90%, petit verdot al 7%, syrah al 3%, un parziale uso dei raspi e 12 mesi di affinamento in grandi botti di rovere. Note fresche e balsamiche, una volta in bottiglia troveranno armonia i sentori più erbacei e speziati in chiusura di bocca.

Bolgheri Rosso Orio 2021 – Podere Il Castellaccio: in percentuale maggioritaria il cabernet franc (60%, a seguire merlot 30% e petit verdot 10%), 12 mesi in tonneaux da 5hl, profuma di macchia mediterranea, lentisco e salmastro, e citando Castagno “possiede la timbrica aromatica della riva destra bordolese”. Ah, Orio è il cane della tenuta. 😊

Bolgheri Rosso 2021 – Michele Satta: un assemblaggio di cabernet sauvignon 30%, sangiovese 30%, merlot 20%, syrah 10%, teroldego 10%, sicuramente atipico per la zona, da vigneti giovani; si tratta di una versione fresca e schietta di Bolgheri Rosso nella sua versione senza legno.

Bolgheri Rosso Pievi 2021 – Fabio Motta: da una singola vigna da cui prende il nome è ottenuto dalla vinificazione separata di merlot al 50% e a saldo in ugual misura cabernet franc e cabernet sauvignon in tini troncoconici; colore violaceo, sentori in prevalenza di erbe aromatiche e sottobosco, sorso fresco per un vino originale e di personalità.

Bolgheri Rosso 2020 – Podere Grattamacco: fra le aziende storiche di Bolgheri (nata nel 1977) produce  questo Bolgheri Rosso con una fermentazione spontanea in tini aperti di cabernet sauvignon (65%), merlot (20%) e sangiovese (15%) e affinamento in botti di rovere. Il vino ci stupisce per la sua grande ampiezza boschiva e il marcato timbro rifrescante.

Bolgheri Superiore Guado de’ Gemoli 2020 – Chiappini: venti mesi di affinamento in barrique di bassa tostatura per un blend di cabernet sauvignon al 70% con a saldo merlot (15%) e cabernet franc (15%), necessita di qualche anno in bottiglia per attenuare i sentori dovuti all’affinamento per ora prevaricanti.

Bolgheri Superiore 2020 – Dario Di Vaira: fermentazione separata per cabernet sauvignon al 60%, cabernet franc 30% e merlot 10%, affinamento di 16 mesi in barrique metà nuove e metà usate, sorprende al naso per le sue note tutte virate sullo scuro e per i sentori di tostatura già bilanciati con quelli fruttati ed erbacei. In bocca si mantiene austero e potente.

Bolgheri Superiore Tâm 2018 – Batzella: il lungo affinamento in bottiglia conferisce a questo vino, ottenuto da cabernet sauvignon per il 65% e il restante cabernet franc, grande ampiezza e profondità nel sorso, regalando un finale di intensa balsamicità.

Paleo 2019 – Le Macchiole: definito senza esitazione “lo Cheval Blanc italiano”, è un cabernet franc in purezza simbolo della tenacia della famiglia Campolmi e Merli nel perseguire i propri obiettivi. Figlio di un’annata equilibrata, senza eccessivi picchi di calore che ha permesso lente maturazioni, il vino incanta per armonia ed avvolgenza.

Bolgheri Sassicaia 2020 – Tenuta San Guido: si chiude con l’interpretazione cristallina di Bolgheri, un vino che ogni anno esce con un numero elevatissimo di bottiglie (circa 280.000) vendute solo su assegnazione in ogni parte del mondo. Il mito continua, stabile nel suo Olimpo vitato.

Alessandra Gianelli
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Fiorano: quando il mito si fa esperienza

Iniziamo questo breve resoconto sulla serata “Il mito di Fiorano: storia, talento, cultura, memoria”, tenutasi in AIS Milano il 17 febbraio anticipando subito che tutti i nove vini, dalla 2015 appena messa in commercio fino alla 1987, hanno sorpreso la platea per la loro disarmante freschezza e la grande coerenza stilistica.

È stata una serata fortemente voluta dal relatore, Armando Castagno, particolarmente legato alla storia di Fiorano e  alla tenuta nel cuore dell’Appia Antica, di cui parlò già venti anni fa in un articolo uscito sulla famosa rivista Porthos, raccontando di un vino leggendario, il Fiorano Rosso, non più in produzione. Di contro, proprio mentre lui, con rammarico, scriveva ciò, Fiorano stava rinascendo grazie al Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi che aveva ereditato la tenuta e aveva deciso di riprendere l’attività vitivinicola.

Era il 2003 e la prima bottiglia del “nuovo” Fiorano rosso da lì a qualche anno sarebbe uscita sul mercato;  Armando ne tornerà a parlare non più con rammarico ma con vistoso entusiasmo nell’articolo “Fiorano, memorie e girandole”, uscito a settembre 2014 sulla rivista Vitae di AIS Lombardia. Leggendolo scoprirete che Alberico Boncompagni Ludovisi, principe di Venosa, ereditata dal padre la tenuta di Fiorano nel 1946, decide di impiantarvi cabernet sauvignon e merlot, per ottenere, negli anni Cinquanta, la prima bottiglia italiana da taglio bordolese, affidandosi per la gestione agronomica ed enologica a Giuseppe Palieri, pioniere della coltivazione biologica.

Sorpresi vero? Anche noi, ma vi sorprenderà ancora di più sapere che, una volta mancato Giuseppe Paglieri, a sostituirlo fu nientemeno che Tancredi Biondi Santi!

Torniamo al presente, continuando a stupirci: abbiamo volutamente virgolettato l’aggettivo nuovo accanto al Fiorano rosso che dal 2003 ha ripreso ad esistere in quanto nulla è cambiato rispetto alla fiabesca e antesignana avventura del Principe Alberico Boncompagni Ludovisi: immutati i vitigni (cabernet sauvignon e merlot), immutate le tecniche in vigna (a conduzione biologica), la vinificazione (in tini di legno) e l’affinamento (in botti  da 10 ettolitri).

Il classico che si fa contemporaneo; il mito che torna a esistere.

È stata una serata in cui inevitabile è stato il rimando all’arte, classica e contemporanea: non poteva essere altrimenti visto che sul palco oltre che Armando Castagno, (anche) storico dell’arte, era ospite l’attuale proprietario della tenuta Fiorano, Alessandrojacopo Ludovisi Boncompagni, appassionato di arte e titolare della galleria romana Gallerja Roma.

“Nonostante la mia laurea in economia, ho sempre nutrito un grande interesse per l’arte, in particolare quella classica per poi fortemente appassionarmi a quella contemporanea, una passione che è diventata lavoro, come quella di produrre vino” sintetizza il principe.

E mentre Armando citava un capolavoro della pittura trecentesca senese, “Maestà”, di Simone Martini e a seguire un grande artista contemporaneo, esponente dell’Arte Povera, Janis Kounellis, ecco che venivano pian piano serviti nove annate di Fiorano Rosso: 2015, 2013, 2012, 2009, 2003, 1993, 1990,  1988, 1987.

Le annate che abbiamo più apprezzato sono state la 2003 (la prima della nuova “era”), la 1987 e su tutte la 1988. Quello che più ci ha spiazzato, rileggendo la verticale che Armando fece nel 2014 e di cui riportò sulla rivista Vitae di AIS nell’articolo già citato, è la perfetta corrispondenza con quanto l’autore scrisse della 1988 (<<…vitale…carismatico…un tannino di splendida trama…>>) e la 1987 (<<Pur assaggiato dopo la 1988, e quindi sacrificato dal confronto ravvicinato, fa sfoggio di grazia e varietà da grande vino.>>)

Classico e contemporaneo in perfetta armonia.

Alessandra Gianelli
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Un Saint-Émilion del Friuli

Non è la prima volta che ti parlo dei vini de Le Due Terre, notevole azienda dei Colli Orientali del Friuli. Fino ad ora mi ero però concentrato principalmente sui loro vini ottenuti dai vitigni autoctoni friulani, ovvero friulano, ribolla gialla, schioppettino, refosco (vedi questo post oppure quest’altro). In questa occasione sono invece stato piacevolmente sorpreso dal merlot – vitigno considerato quasi “autoctono”, visto che è presente in Friuli dalla seconda metà del XVIII secolo – che per un attimo mi ha catapultato a Saint-Émilion!

Friuli Colli Orientali Merlot 2016 – Le Due Terre

Rosso rubino compatto il colore. Primo naso molto sul frutto, con prugna e confettura di amarene in evidenza, arrivano poi la cannella ed il cioccolato al latte, ma anche un delicato floreale rosso che esce a bicchiere fermo. Una raffinata nota balsamica completa il quadro aromatico.

Il sorso è ampio, con morbidezza fruttata in ingresso, la progressione è però profonda, per nulla “cedevole”, anzi il liquido si sviluppa con ottima dinamica e una freschezza che, pur in filigrana, supporta la trama gustativa. Il tannino è risolto e ben maturo, si avverte elegante solo a fine sorso. La chiusura è di grande persistenza su ritorni di frutta scura, sale e spezie.

Abbinamento riuscito con una fumante pasta e fagioli.

Plus: vino che non rinnega le caratteristiche varietali del merlot ma riesce a non farsene soggiogare, dunque carezzevole senza alcuna concessione alle mollezze né al vegetale, come non di rado accade in certi merlot friulani. Beva molto facile eppure il vino è tutt’altro che banale, alla cieca potrebbe essere scambiato per un raffinato vino della rive droite.

Diego Mutarelli
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Château Pape Clément, la storia di un Papa a Pessac

Per concludere il nostro breve viaggio nei territori bordolesi, dopo essere stati a Saint-Émilion e a Sauternes, abbiamo deciso di visitare la più antica tenuta di Bordeaux, nelle Graves, a Pessac: Château Pape Clément.

La prima vendemmia risale addirittura al 1252, sotto le insegne del Domaine de la Mothe. Nel 1299 il domaine era posseduto da Gaillard de Goth e suo fratello Bertrand, arcivescovo di Bordeaux, che fu raggiunto dalla notizia della sua elezione a Papa (non era neppure cardinale) mentre si trovava nella tenuta. Divenne Papa con il nome di Clemente V. Nel 1306, alla morte del fratello, il papa Clemente V divenne unico proprietario della tenuta, rinominata Château Pape Clément.

Oggi è guidata da Bernard Magrez, uomo d’affari grande appassionato di vino, proprietario di ben 40 aziende vinicole nel mondo. La mano dell’imprenditore si vede nei grandi investimenti effettuati in vigna e in cantina, ma anche nell’accoglienza gestita con professionale meticolosità. Una squadra di addetti riceve i numerosi visitatori (gruppi da 20 persone) nello shop dell’azienda. Da lì la visita, gratuita ma su prenotazione, si dipana in vigna, poi in cantina e infine nella sala degustazione.

Ecco i vini che abbiamo degustato:

Graves Rouge L’Âme de Pape Clément 2019 – Château Pape Clément

É il terzo vino dell’azienda, viene dopo ovviamente il Grand Vin (che degustiamo poco sotto) e il Clémentin rouge. Per questo vino la raccolta delle uve è meccanica, effettuata la notte per preservarne la freschezza. Fermenta e affina in inox, a parte il 10% della massa che sosta 15 mesi in barrique. Il blend è composto da merlot in maggioranza (48%) con saldo di cabernet sauvignon (35%) e cabernet franc (17%). Vino che parte su sensazioni dolci di frutta matura (cassis, more), ma anche qualche raffinata nota floreale, poi balsamico, pepe nero e legna arsa. Bocca calda e intensa, l’alcol è comunque ben gestito, tannino affusolato e chiusura di bocca con la giusta freschezza e qualche ritorno vegetale. Vino ben confezionato e di ingresso, per cui però non avrei speso in etichetta il riferimento addirittura all’anima di un Papa! (20 €)

Médoc 2016 – Château Les Grands Chênes

Assaggiamo il vino di questa azienda del Médoc, sempre di proprietà di Magrez. Ottenuto da merlot (60%) e cabernet sauvignon. Vendemmia manuale e affinamento in barrique (60% di legno nuovo) per 18 mesi. Al naso è piuttosto ricco e dolce tra note di cioccolato al latte e prugna, cannella e torrefazione, quindi cioccolatino Mon Chéri. A discapito di un naso così barocco, la bocca è invece composta, lo sviluppo soave e il tannino carezzevole, in chiusura esce la parte sapida ed un leggerissimo e piacevole grip tannico. (18 €)

Pessac-Léognan Grand Cru Classé de Graves 2016 – Château Pape Clément

Con impazienza assaggiamo il Grand Vin, di cui abbiamo ottimi ricordi in annate precedenti. È un vino a cui l’équipe di Magrez dedica la massima cura. La vendemmia è manuale e addirittura la diraspatura è effettuata a mano da decine e decine di addetti! Cabernet sauvignon (56%), merlot (40%) e cabernet franc (4%) che fanno fermentazione e macerazione di 30 giorni in botti grandi per poi passare in barrique, per metà nuove, dove il vino sosta complessivamente 18 mesi. Olfatto che parte sui fruttini sia rossi (ribes), sia neri (mirtilli), poi note più austere di sottobosco, affumicato, grafite e chiodi di garofano. Bocca di classe, volume e ampiezza che però non vanno a discapito dello sviluppo, senza spigoli, concentrazione della materia e armonia nella progressione vanno all’unisono, con tannini elegantissimi. Salata la chiusura con raffinata e lunghissima persistenza fruttata. (90 € – 150 €, a seconda dell’annata)

Pessac-Léognan Blanc Clémentin de Pape Clément 2019 – Château Pape Clément

È il second vin bianco dell’azienda, il Grand Vin bianco è molto reputato oltre che raro. Il vino è ottenuto da sauvignon blanc con sémillon e muscadelle a completare il blend. Fermenta e affina in legno, nuovo in prevalenza, con una piccola parte della massa (10%) in uovo di cemento. Naso che parte netto sugli agrumi (pompelmo, mandarino), salvia, poi qualche tocco esotico di passion fruit e pasta frolla. Sorso di grande energia, l’acidità è vivace e perfettamente integrata nella materia. Chiusura tersa e pulita, vino molto piacevole e lontano dal vecchio canone del Bordeaux blanc tutto grassezza e note boisé. (45 €)

Diego Mutarelli
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Château Valandraud: l’epopea del “vin de garage” divenuto Premier Grand Cru Classé

Una recente visita nel territorio bordolese ci ha permesso di conoscere da vicino una vera e propria leggenda del vino. Infatti, l’incredibile storia di Château Valandraud non può lasciare indifferente nessun wine addicted…

L’epopea è nota e qui la riassumiamo per sommi capi: ad inizio anni ’90 un bancario appassionato di vino, di nome Jean-Luc Thunevin, insieme alla moglie Murielle Andraud, decide di produrre un grande vino a Saint-Émilion. Parte da una parcella di poco più di mezzo ettaro e inizia a vinificare nel proprio garage. Qualche anno di esperienza in annate piuttosto difficili e poi, non appena arriva l’annata buona, la 1995, il vino viene spedito a Robert Parker che gli affibbia uno score superiore a quello di Pétrus.

Da quel momento in poi il mondo si accorse Jean-Luc Thunevin, che ispirò in tutto il globo altri viticoltori con poca vigna e molte idee: era nato il concetto di garage wine.

Da allora ad oggi di strada ne è stata percorsa molta e, nonostante il garage sia ancora ben presente e in parte utilizzato, Château Valandraud è divenuto Premier Grand Cru Classé B nel competitivo e irrequieto classement di Saint-Émilion. Questa graduatoria, a differenza dell’immutabile classement del 1855 della riva sinistra, è messa in discussione ogni 10 anni e a settembre di quest’anno sapremo se la saga di Thunevin riuscirà a completarsi, raggiungendo il vertice della gerarchia, ovvero il gradino di Premier Grand Cru Classé A.

Oggi Thunevin è un Gruppo composto da una società dedicata alla commercializzazione di vini della Rive Droite, 5 shop nell’incantevole borgo di Saint-Émilion, un hotel e differenti aziende vitivinicole oltre a Château Valandraud.

Visitare dunque questa realtà è stato un grande privilegio, non solo per farsi raccontare e in parte rivivere questa storia irripetibile e recarsi presso l’innovativa cantina appena aperta al pubblico, ma anche per assaggiare vini che nel tempo hanno subito un’evoluzione interessante pur non rinnegando lo stile e il protocollo Thunevin. Questo “bad boy” (cit. Robert Parker) fu infatti il primo ad applicare una ricetta fatta di vendemmia verde, bassi rendimenti, defogliazione, raccolta di uva perfettamente matura e cernita in vendemmia dei soli grappoli assolutamente sani. La cura maniacale in vigna è accompagnata da abbondante utilizzo di barrique nuove in affinamento.

I primi Valandraud furono vini scioccanti, estremi, ma anche innovativi, caratterizzati dal frutto denso e dolce e dalle note boisé che tanto piacevano Oltreoceano.

Ci chiedevamo: “come saranno i vini oggi?”. Non sono cambiati infatti solo i consumatori, che privilegiano vini equilibrati ed eleganti, ma anche il clima (ahinoi). La maturità del frutto non è più un problema, neppure a Bordeaux, ed oggi molti produttori proteggono le uve dal troppo irraggiamento (altro che defogliazione!).

Anticipiamo la risposta, che verrà poi meglio avvalorata dalle sintetiche note di degustazione che seguono, perché siamo stati piacevolmente sorpresi. I vini Valandraud – non solo il Grand Vin ma anche gli altri vini dello Château e delle aziende del Gruppo – sono infatti sì vini ricchi di frutto dolce, ma con dinamica ed estrema eleganza. Come i migliori vini di Saint-Émilion sono liquidi carezzevoli, morbidi, potenti ma delicati nello sviluppo. Pugno di ferro in guanto di velluto, anzi di seta.

I vini degustati

Saint-Émilion Grand Cru “Virginie de Valandraud” 2016 – Château Valandraud

Ottenuto da merlot, cabernet franc, cabernet sauvignon, malbec e carmenère si presenta rosso rubino compatto e molto sul frutto maturo (prugna, lamponi), seguono interessanti note balsamiche, di legna arsa, sottobosco e cacao. Bocca soave, ampia e morbida, dal tannino sottile. Ritorni di cioccolato fondente e frutta. 20 mesi di barrique nuove.

Si tratta di un vino sensuale e accattivante, non entusiasmerà gli amanti delle sferzate acide ma risulta, nel complesso, equilibrato, elegante e gustoso. (30-40 €)

Saint-Émilion Grand Cru Clos Badon 2016 – Thunevin

Merlot e cabernet franc in parti uguali. Clos Badon è vinificato ancora nel garage da cui tutto ebbe inizio. Parte sul frutto (cassis), ma anche note più intriganti di camino spento. Bocca di ottima fusione e ampiezza, tannino ben presente ma dolce, nessuna sfacciata nota da legno. Vino di grande interesse che vale quello che costa e che promette un’interessante evoluzione in bottiglia. (40 € circa)

Pomerol 2015 – Le Clos du Beau-Père

Ci spostiamo a Pomerol, qui il merlot sale al 90%. Naso in cui si avverte di più l’affinamento in legno nuovo, con la vaniglia e il cioccolato ad accompagnare la prugna della California. La bocca è meno setosa dei due assaggi precedenti, con acidità e tannini più presenti a sostenere una materia ricca e densa. Sapido in chiusura. (40-50 €)

Saint-Émilion Grand Cru 2017 – Château Soutard-Cadet

Da una vecchia vigna di merlot di poco più di 2 ettari, al cui interno si trova anche qualche vite di cabernet franc. Naso voluttuoso di lamponi maturi, cioccolato, cuoio…intenso e concentrato al sorso, ma di grande eleganza. Ritorni di liquirizia dolce. (40 € circa)

Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé 2016 – Château Valandraud

Eccolo qui il vino che ha reso famoso Valandraud. Maggioranza di merlot (90%) con cabernet franc e cabernet sauvignon a saldo. Sa di ciliegie, lamponi, chicco di caffè, liquirizia, mineralità scura (grafite)…sorso morbido e succoso, rotondo e ricco, con legno gestito molto bene. In chiusura un tannino fitto ma fine fornisce grip ed allungo. Persistenza infinita ma carezzevole. (oltre 200 €)

Saint-Émilion Grand Cru 2006 – Château Valandraud

100% merlot in questa annata, colore rubino che schiarisce sull’unghia a tradire una certa evoluzione, naso meno bombastico del precedente e più aristocratico: prugna disidratata, sottobosco, corteccia, spezie (cardamomo)…bocca scorrevole ma dal tannino più presente nonostante l’evoluzione maggiore in vetro (la 2006 non è stata un’annata semplice). Sapida e lunga la chiusura.

Bordeaux Blanc “Virginie de Valandraud” 2019 – Château Valandraud

L’appellation Saint-Émilion è rossista, ecco dunque che Thunevin, il bad boy, deciso a produrre un grande bianco, è costretto ad abbracciare la “semplice”  denominazione Bordeaux blanc. Ottenuto da sauvignon blanc, sémillon e sauvignon gris il vino parte su vegetali accompagnate da frutta tropicale, bocca semplice e di buona scorrevolezza. Un vino ben fatto ma non emozionante. (40 €)

Bordeaux Blanc “Virginie de Valandraud” 2014 – Château Valandraud

Più interessante questo millesimo invece, con il sauvignon a marcare meno il quadro aromatico, fatto in prevalenza da albicocca fresca e qualche fine nota vegetale. Fresco e profondo, sapido e terso.

Bordeaux Blanc 2017 – Château Valandraud

Il Grand Vin bianco ha una marcia in più in termini di eleganza e allungo. Intrigante mix di sentori vegetali, agrumati e affumicati il tutto accompagnato da spezie orientali. Ad un naso complesso e cangiante fa da contraltare una bocca acida e mobile, che si sviluppa in profondità lasciando in chiusura richiami di frutta tropicale. (60 € circa)

Diego Mutarelli
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Terre del Faet, una piccola e promettente realtà si nasconde in Collio

Ci troviamo nel cuore del Collio, a Cormòns.
E’ qui che Andrea Drius, pochi anni fa, decide di occuparsi dei due ettari – acquistati dalla famiglia e lavorati principalmente dai nonni – per iniziare a vinificare ed imbottigliare i propri vini.
Il millesimo 2012 è quello del debutto di Terre del Faet e le uve sono quelle classiche del territorio: friulano, pinot bianco, malvasia e merlot.
Andrea è un giovane con le idee ben chiare ed una gran voglia di fare, quest’ultima indispensabile in un’azienda di queste dimensioni in cui ci si deve occupare di tutto in prima persona: vigna, cantina, amministrazione, vendite…
Studi in agraria ed enologia e sensibilità hanno permesso ad Andrea Drius e a Terre del Faet di ritagliarsi in poco tempo una certa notorietà in una zona in cui certo non mancano stelle di prima grandezza.
Ad oggi gli ettari gestiti da Terre del Faet sono 4, il parco vigne è tra i 40 ed i 60 anni di età, le pratiche in vigna e cantina sono decisamente non invasive ma lontane da ogni integralismo (ogni scelta è soppesata e sperimentata senza sposare acriticamente alcun dogma).
In cantina troviamo prevalentemente contenitori di cemento, inox e qualche botte di rovere rigenerata (in particolare per il merlot e per parte del friulano).
Il mosto resta a contatto con i lieviti che vengono continuamente fatti lavorare con la massa (bâtonnage) al fine di stabilizzare, arricchire e caratterizzare il vino. La malolattica è svolta naturalmente.
I vini che ne derivano li ho trovati puliti ed espressivi, equilibrati e sapidi, con alcol sempre ben gestito. Insomma, Terre del Faet è una realtà da tenere d’occhio.
Nelle annate favorevoli le bottiglie prodotto sono circa 20.000.

Di seguito ti riporto qualche sintetica nota sui vini degustati.
Note più dettagliate nei prossimi post, quando avrò modo di bere con calma qualche vino che ho acquistato per un assaggio più approfondito.

Terre del Faet: i vini in degustazione
Terre del Faet: i vini in degustazione

Collio Pinot Bianco 2017
Colore giallo paglierino con riflessi verdognoli.
Naso di grande finezza, elegante e delicato di fiori bianchi, clorofilla, minerale soffuso e pesca.
Bocca di bella dinamica, sorso in equilibrio grazie al saporito sostegno della sapidità.
Chiusura su bei ritorni delicatamente vegetali.

Elegante

Collio Friulano 2017
Giallo paglierino e naso di roccia, mandorla amara e tocco vegetale.
Bocca piuttosto ricca ma mai strabordante, la chiusura è ammandorlata.
Vino ancora compresso, giovane e da attendere con fiducia.
Acquisirà complessità e distensione.

Promettente

Collio Malvasia 2017
Paglierino lucente il colore, l’olfatto è floreale, con anche però qualche spezia a far capolino.
La bocca è morbida e ricca ma il liquido si distende sul cavo orale accompagnato da grande sapidità.
La chiusura è di magnifica pulizia e nettezza.

Coup de cœur

Collio Bianco 2016
Vino molto interessante ottenuto da friulano e, a completamento, malvasia istriana. Naso elegante e delicato ma di grande complessità. L’anno in più di affinamento rispetto ai millesimi più recenti appena assaggiati ha fatto molto bene al vino che si è liberato di parte della sua giovanile irruenza per acquisire un carattere più compiuto e complesso. La bocca è succosa e la sapidità invita ad un nuovo sorso. Retrolfatto lievemente speziato.

Grazioso

Vino in Maremma: il nuovo che avanza (seconda puntata)

Eccoci al secondo produttore che ho visitato approfittando di una breve vacanza in Maremma. Se hai perso la prima puntata di questo resoconto la puoi trovare qui di seguito: Valdonica.

Casteani (Gavorrano)

Mario Pelosi, ingegnere e manager di lungo corso, recupera e ristruttura un’area in passato sfruttata da una società mineraria per i giacimenti di lignite e carbone presenti nel sottosuolo. Dal 2002, oltre a creare il wine resort, recupera circa 15 ettari di vigneto e oliveto.
Casteani si presenta in questo modo come una “nuova” realtà vinicola della Maremma ma con una storia agricola che affonda le radici nel XIX secolo. I vitigni messi a dimora sono principalmente sangiovese e vermentino, oltre ad alicante, merlot, syrah e viognier.
Mi presento in azienda senza molto preavviso e ciò nonostante vengo accolto dalla giovane enologa che mi accompagna per una rapida ma appassionata visita.

Molto bella la cantina, su due piani: al piano inferiore la luminosa, spaziosa e pulita zona di vinificazione ed una più raccolta area dedicata all’affinamento. Noto subito accanto a botti e barrique anche qualche anfora di terracotta.

Casteani: cantina di affinamento
Casteani: cantina di affinamento

L’azienda, pur di piccole dimensioni, produce una gamma piuttosto ampia. Di seguito ti riporto i miei assaggi che, come di abitudine, mi ripropongo di approfondire ulteriormente con le bottiglie comprate in loco per una degustazione più attenta.

Vino Spumante Brut “Piccabòn” 2016 – Casteani
Vino spumante charmat ottenuto da uve vermentino, chiamato in toscana anche Piccabòn. Il vino è piacevole e sorprendente: naso molto fine di frutta bianca, agrumi, floreale elegante; la bollicine è sottile e carezzevole. Nel complesso il vino risulta dissetante e ben fatto, giocato sulla semplicità che però non scade mai nel banale.

Maremma Toscana Sangiovese “Spirito Libero” 2015 – Casteani
Spirito Libero è la linea di Casteani prodotta senza solfiti aggiunti. In etichetta sono riportati infatti i solfiti liberi e totali presenti naturalmente nel vino dopo la fermentazione (3 mg/l di anidride solforosa libera e 6 mg/l di totale). Il vino è ottenuto con un metodo brevettato, chiamato Purovino, che si avvale dell’utilizzo dell’ozono.
Il vino che ne risulta è ben fatto, stappato da qualche ora ma decisamente pimpante, tannino ben dosato e sapidità decisa.

Monteregio di Massa Marittima “Sessanta” 2011 – Casteani
Sangiovese ed alicante per questo vino profondo e austero. Il 50% della massa affina 12 mesi in barrique di secondo e terzo passaggio, la restante parte in acciaio. L’affinamento è ultimato da ulteriori 12 mesi in vetro. Il vino risulta fruttato con l’apporto del legno ben calibrato, senza alcuna concessione dolce/amara. La persistenza è molto buona grazie ad un tannino croccante ma fine.

Non sono riuscito invece ad assaggiare, ma ho provveduto ad acquistarne una bottiglia, l’interessante vino ottenuto da affinamento in anfora di terracotta, il Maremma Toscana Syrah “Marujo”…stai sintonizzato su Vinocondiviso, non dimenticherò di parlartene non appena avrò l’occasione di degustarlo!

I profumi del vino: la fragola

Tra i profumi del vino più piacevoli e riconoscibili vi sono senz’altro i piccoli frutti rossi. Dopo averti parlato del profumo di lampone tocca al profumo di fragola.

Naturalmente sono costretto a semplificare: un conto è il fresco e goloso aroma del frutto fresco, tutt’altra cosa le fragole in confettura, ottenuta dai frutti più maturi e che sviluppano delle leggere note di caramello dovute alla cottura dello zucchero. Una cosa la fragola che vedi in foto, altra cosa le fragoline di bosco.  Eviterei inoltre di addentrarmi nelle diverse varietà del frutto…

I profumi del vino: la fragola
I profumi del vino: la fragola

Il profumo di fragola è considerato un aroma secondario e si forma, generalmente, dopo la fermentazione malolattica. E’ un aroma apprezzato dal degustatore che lo percepisce goloso ed elegante insieme; inoltre è facilmente riconoscibile.

In che vini puoi trovare l’aroma di fragola?

L’aroma di fragola si riscontra principalmente nei vini rossi o rosati provenienti da varie zone e vitigni: Bordeaux, Borgogna, molte vini italiani e anche del Nuovo Mondo.

Azzardo una mappa dei vitigni in cui si trova con più frequenza questo aroma. In Francia sicuramente non possiamo non citare il gamay, il merlot ed il pinot nero (quando questi vini non sono più giovanissimi possiamo trovare anche la confettura di fragola). Un vino in particolare che ricordo “marchiato” da una fragola netta è lo Château Rayas (grenache) oltre che i vini rosé della Provenza.

In Italia ci si può imbattere in questo sentore nei vini da uve nebbiolo (la fragola dei vini di Giacosa!), grignolino, bonarda, sangiovese, nero d’Avola…

E tu? Raccontami di qualche vino in cui ricordi di aver sentito una succosa fragola fresca!