Cornas a Cortona (parte 1)

L’edizione 2024 del festival Chianina e Syrah si è tenuta a Cortona dal 9 all’11 marzo. Ogni anno avviene in concomitanza con la fiera Prowein a Düsseldorf, per questo non ho mai potuto partecipare. Tuttavia quest’anno ho saltato l’evento fieristico, così non mi sono fatta sfuggire l’occasione di visitare il festival che celebra le eccellenze enogastronomiche della Valdichiana.

Ancora una volta Cortona si dimostra un faro di creatività e maestria, e la sua comunità dovrebbe ispirare i borghi circostanti, che purtroppo non sono ancora in grado di suscitare lo stesso interesse con iniziative originali, nonostante il loro ricco patrimonio storico, architettonico e paesaggistico (ogni riferimento a Montepulciano è puramente casuale).

Tra le varie giornate della manifestazione, ho scelto domenica 10, per poter assistere ad una masterclass sulla regione vitivinicola di Cornas: ultimo avamposto per la syrah scendendo lungo il fiume nella valle del Rodano settentrionale.

Al timone della lezione, veri maestri del settore, come Lionel Fraisse, del domaine Alain Voge, Giampaolo Gravina (tra i colpevoli della mia ossessione per la Borgogna), il talentuoso sommelier e fotografo Marcello Brunetti, e infine Stefano Amerighi, un amico così eclettico che nessun aggettivo sarebbe mai sufficiente a descriverlo pienamente.

Ma perché proprio Cornas? Cos’ha spinto Stefano e tutti questi professionisti a voler mettere in luce una piccola appellation che comprende appena 164 ettari e una cinquantina di imbottigliatori, i quali hanno iniziato a valorizzare queste terre granitiche solo dopo gli anni Sessanta del secolo scorso?

Ammetto che quando visitai la regione due anni fa, lasciai in secondo piano Cornas, dedicandole sì e no una mezza giornata. Logisticamente non era un punto di appoggio comodo, ed ero più attratta dalle espressioni di syrah più popolari, come Hermitage oppure Côte-Rôtie, due regioni più settentrionali, dalle quali Cornas dista mezz’ora e un’ora di macchina.

Avevo sentito parlare del tipico sentore di oliva in questa regione calda, e temevo di ritrovare una certa opulenza rispetto all’eleganza. Questo è un pregiudizio sbagliato, e l’ho intuito raggiungendo la sommità della collina: nonostante la terra sia calda e siccitosa, l’altitudine raggiunge i 400 metri di altezza, con un dislivello di 300 metri (Hermitage, anch’essa molto ventosa, si sviluppa su circa 300 metri di altezza, mentre le viti sulla Côte-Rôtie crescono dai 180 ai 325 m.s.l.m.).

Quali potrebbero essere dunque le ragioni che hanno suscitato il fascino di questo promontorio? Di certo l’altitudine, oppure l’omogeneità delle condizioni pedoclimatiche, o ancora la circoscrizione limitata dell’area vinicola. Non solo: così come la syrah è l’unico vitigno ammesso per produrre l’AOC Cornas, allo stesso modo il granito è la sola matrice geologica del territorio. Tutto ciò comporta una chiave di lettura del vino coerente, garantendo agli appassionati una certa riconoscibilità.

Ma non è tutto. Ciò che rende speciale Cornas è la sua comunità, composta da produttori che hanno assecondato una delle esigenze umane più distintive: interpretare. Si sono armati di raspi, carrucole, barrique per essere tradizionalisti e cemento per essere progressisti. Teloni di plastica sulla vigna come se fosse un orto per contenere l’umidità, e vasche a forma di diamante. Hanno unito diverse parcelle in un unico vino, oppure le hanno lasciate distinte, non perché un’annata fosse peggiore di un’altra, ma perché l’identità del territorio in un vino si rifà banalmente a chi quel luogo lo custodisce.

Il post prosegue con il racconto dei 7 Cornas che ho assaggiato. Verrà pubblicato tra qualche giorno, non perdertelo! Leggi qui la seconda parte.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Chianti Classico è futuro (parte 2)

Dopo l’introduzione all’evento Chianti Classico Collection di cui ho parlato nella prima parte, mi piacerebbe ora condividere quelli che sono a mio avviso alcuni degli assaggi più stimolanti.

Come Chianti Classico annata, tra i miei preferiti ritrovo I Fabbri, che negli ultimi anni ha affilato con gentilezza le espressioni più vibranti di Lamole. Della stessa tipologia devo nominare Riecine, il cui frutto scuro rappresenta ormai la firma stilistica dell’azienda. Anche il Chianti Classico di Tregole è stato in grado di esprimere l’annata in maniera esemplare, rispettando il terroir peculiare di Castellina che volge lo sguardo verso Radda.

Nella tipologia Riserva sono rimasta ancora una volta colpita da Vigna Barbischio di Maurizio Alongi, la sua persistenza è durata il tempo di attraversare tutto il corridoio della Leopolda senza perdere gusto. Come non rimanere incantati dalla Riserva di Castell’in Villa, che con la 2016 ha raggiunto picchi di eccellenza assoluta nella fattura del tannino e nella piacevolezza in bocca. Ci auguriamo che il tempo sia altrettanto benevolo nell’affinamento di una 2017 ancora molto giovane. Per chi apprezza i vini eleganti ma pur sempre tridimensionali, consiglio la Riserva di Nardi Viticoltori.

Come Gran Selezione vorrei soffermarmi su Istine, nell’annata 2021 i tre cru hanno affinato più a lungo in botte e in bottiglia per essere presentati per la prima volta come Gran Selezione. Una raffinatezza fatta di piccole sfumature che negli aromi ricordano fiori e frutti freschi, come se fossero stati colti appena maturi. Monteraponi presenta con l’annata 2019 per la prima volta una Gran Selezione che, assieme al Baron’Ugo 2020, incarna l’essenza di Radda attraverso l’eleganza e la coerenza di un frutto rosso mai timido, accompagnato da note floreali come la viola sempre riconoscibili (in poche parole, non sono poi tanto diversi i due vini).

Rimango anche piacevolmente stupita da Cigliano di Sopra, sia nella versione annata che Riserva. L’esuberanza di questi vini, dovuta a particolari tecniche agronomiche e di cantina, risulta totalmente diversa rispetto ad altre espressioni molto buone di San Casciano, e ciò mi fa domandare se siano loro a discostarsi totalmente da questa UGA, o se in realtà siano gli unici ad essere stati in grado di interpretarla in maniera esemplare.

Infine, tra i vini di maggior carattere devo segnalare Le Viti di Livio 2016 di Fattoria di Lamole e Sa’etta 2022 di Monte Bernardi, vini autentici, schietti, sempre indimenticabili.

Meriterebbe che elencassi tanti altri vini che mi hanno catturato il cuore, ma non vorrei essere troppo di parte, poiché considero questo territorio come una tra le più promettenti regioni vitivinicole in Italia e nel mondo, con un passato antichissimo, ma allo stesso tempo alle porte del suo rinascimento. Ho trascorso in Chianti Classico due anni indimenticabili, fatti di opportunità e crescita personale e professionale. Nonostante questo capitolo della mia vita si sia appena concluso, ho la consapevolezza che la comunità creata negli ultimi anni, che ho visto nascere in un viaggio in Corea del Sud e della quale sono orgogliosa di averne fatto parte, porterà un’aria fresca di rinnovamento alla denominazione, e auguro al futuro del mondo del vino italiano di essere in grado di attingere allo spirito di unione e condivisione che ho ritrovato in queste terre boschive.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Chianti Classico è futuro (parte 1)

L’Anteprima del Chianti Classico – Chianti Classico Collection – svolta a Firenze presso la Stazione Leopolda il 15 e 16 febbraio, suggella la fine e l’inizio di un percorso importante, e non solo perché quest’anno il primo consorzio italiano a tutela del vino soffia su ben 100 candeline.

Negli ultimi due anni ho avuto la fortuna e il privilegio di poter vivere la comunità del Chianti Classico in maniera attiva e partecipe, osservando la capacità dei suoi attori principali a mettersi sempre più in gioco per fronteggiare minacce senza precedenti, come il cambiamento climatico, la crisi economica dovuta alla pandemia e alle guerre, oltre ad un mercato che richiede vini sempre più riconducibili al territorio di appartenenza. Non si direbbe, ma anche quest’ultima è una sfida alquanto ardua in Chianti Classico, regione piuttosto vasta, in cui il sangiovese tradizionalmente non è l’unico interprete del terroir, e dove la parola cru è comparsa solo in tempi molto recenti.

Se in Barolo e Barbaresco più produttori raccontano la stessa vigna, in Chianti Classico spesso le migliori etichette aziendali sono frutto della commistione di diversi appezzamenti, e questo è solo uno dei motivi per cui in Toscana è difficile raccontare il territorio seguendo alla lettera il modello langhetto; per ulteriori approfondimenti sulla zonazione ti invito a leggere il seguente articolo ospitato su queste stesse pagine.

Fatta questa doverosa premessa, il Consorzio ha fornito come chiave di lettura del Chianti Classico le UGA (Unità Geografiche Aggiuntive), suddividendo geograficamente le oltre 200 aziende presenti in anteprima. Chi, come me, vive e opera in questa regione vitivinicola, sa che questo non è il punto di arrivo per individuare la territorialità di un vino, ma un importante incentivo per iniziare a orientarsi, assecondare il bisogno di studiare, sperimentare rischiando, ascoltare voci autorevoli, e infine domandarsi se si stia già creando il miglior vino possibile, o se sia plausibile andare oltre. 

Le nuove generazioni di vignaioli e vignaiole hanno captato subito questo stimolo, e oggi siamo alle porte di un cambio generazionale in cui i giovani non hanno timore a confrontarsi, a condividere idee e bevute, a fare amicizia, a creare una comunità.  Comunità che non è fatta solo da chi possiede una cantina, ma anche dagli addetti ai lavori, perché si sa che le aziende le fanno le persone.

Questi giovani hanno capito che il vicino di casa non solo non è il nemico, ma può essere facilmente il migliore amico. Se le generazioni passate devono il loro successo grazie a un forte senso del dovere e all’intuizione che le ha portate nelle solitarie terre del Chianti, i giovani vignaioli di oggi sono generalmente motivati da un’autentica vocazione, che li spinge a lavorare con entusiasmo e passione, come se il contributo offerto a questo settore sia svolto per puro piacere e quasi senza sforzo.

Ora, senza porre lo sguardo troppo avanti, torniamo al presente e ai vini in assaggio. Con oltre 200 aziende partecipanti, sono state servite le nuove annate di Chianti Classico, Riserva e Gran Selezione, dalla 2020 alla 2023, permettendo un confronto di millesimi tanto diversi, quanto impegnativi, seppur stimolanti. Parlando con i produttori si evince una particolare soddisfazione per la 2021, che al naso appare già pronta, forse fin troppo, mentre in bocca sta ancora cercando di trovare un suo equilibrio, con un’acidità scalpitante e una vitalità intrigante. Mettendo a confronto 2021 e 2020, quest’ultima appare più composta e a tratti banale, seppure la vendemmia 2020 sia stata buona, abbondante rispetto a Montalcino e a Montepulciano, ma non indimenticabile come la 2019. La 2022 con il suo calore ci fa realizzare che il surriscaldamento globale non risparmia nemmeno una delle regioni dove il sangiovese è solito distinguersi per la sua acidità e bevibilità. La 2023, al contrario, ha comportato enormi sacrifici, e tanti produttori si sono dovuti accontentare pur di portare a casa un minimo quantitativo di uva sana.

Per scoprire alcuni tra i vini più performanti, proseguiamo nella seconda parte.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

I 5 post più letti del 2023. Buon Anno!

L’anno appena trascorso per Vinocondiviso è stato ricco di soddisfazioni, abbiamo condiviso con i nostri lettori riflessioni, visite a produttori, eventi vinosi e, naturalmente, vini e degustazioni.

Spulciare le statistiche dei post più letti è sempre sorprendente, alcuni post molto “antichi” piacciono ancora moltissimo ai motori di ricerca e risultano ancora tra i più letti (vedasi ad esempio la serie di post dedicati ai Profumi del Vino, che sono stati scritti tra il 2016 e il 2017). È pur vero che i post più recenti hanno avuto meno tempo di accumulare visitatori.

Difficile dunque stilare una vera classifica, ma vogliamo comunque condividere con voi i post che sono piaciuti di più limitandoci a quelli pubblicati nell’anno appena passato.

#1 Vinitaly 2023: le nostre nomination – i post che raccontano i vini che abbiamo più apprezzato agli eventi vinosi sono tra quelli che riscuotono maggior interesse ed il Vinitaly, l’evento italiano più importante del vino, non poteva mancare.

#2 C’era una volta un castello dove abitava un conte – titolo fiabesco che abbiamo scelto per raccontarvi la storia della piccola realtà Torre degli Alberi, in Oltrepò Pavese.

#3 La Cantina di Enza a salvaguardia del vitigno coda di volpe rosso – anche in questo caso abbiamo raccontato la storia di un’azienda non così nota, La Cantina di Enza, in provincia di Avellino.

#4 Les Cocus 2020, lo stupefacente chenin di Thomas Batardière – la Francia, di cui beviamo e parliamo molto, entra in classifica con un produttore ancora poco conosciuto ma su cui scommettiamo, si tratta del vigneron della Loira Thomas Batardière.

#5 Tre vitigni e una pergola: 33/33/33 biodinamico campano da scoprire! – torniamo in Italia, anzi in Campania, per il grande bianco di Vallisassoli, altro produttore non così noto che abbiamo voluto condividere con i nostri lettori.

Quali altri contenuti vorresti leggere su Vinocondiviso? Se hai idee o riflessioni non censurarti, scrivicelo nei commenti o contattaci!

Auguri di Buon Anno!

Diego Mutarelli
Facebook: @vinocondiviso
Instagram: @vinocondiviso
WhatsApp: Canale WhatsApp

Alle radici del Barolo (o quasi)

Il tema scelto per la cena prenatalizia del team (allargato) di Vinocondiviso è stato un super classico: il Barolo. E siccome troppo vasta poteva essere la scelta – fra gli undici comuni e le 170 MGA (escluse le menzioni comunali) – abbiamo scelto come linea guida il libro a firma di Armando Castagno, edito da Slow Wine, uscito a fine dello scorso anno, dal titolo “Alle radici del Barolo”.

Il volume, corredato dalle foto di Clay McLachlan e da una dettagliata parte storica introduttiva a cura di Lorenzo Tablino, consta di dieci interviste ad aziende della “prima generazione” del Barolo, ovvero antecedenti l’Unità d’Italia del 1861, in cui fondamentale fu il ruolo dello statista Camillo Benso Conte di Cavour; lo stesso Conte giocò una parte da indiscusso protagonista anche nella valorizzazione e affermazione del Barolo così come lo conosciamo (o quasi).

Avendo avuto l’opportunità di partecipare alla presentazione ufficiale del libro, ad Alba, ci piace ricordare quanto l’autore abbia sottolineato l’importanza dell’etimologia “radice” e quanto azzeccata ne fosse la scelta per il titolo. Radice deriva dal latino “radix”, ovvero ciò che è flessibile, pieghevole; effettivamente, osservando le radici, notiamo come esse siano in grado di piegarsi, di adattarsi alla terra più ostica con flessibilità. Radici profonde e solide anche per il Barolo, ma allo stesso tempo radici nuove, che traggono linfa dalle nuove generazioni, capaci di adattarsi ai tempi nel rigoroso rispetto dell’eredità ricevuta.

Partiamo quindi con i vini assaggiati, Barolo rigorosamente di produttori oggi ancora in attività le cui cantine sono state fondate prima del 1861 e quindi presenti nel libro di Castagno, non dimenticando di menzionare l’ottimo brasato con polenta a corredo e a seguire formaggi di stagionature diverse armoniosamente abbinati coi vari calici.

Barolo del Comune di Verduno 2018 – Fratelli Alessandria

Fratelli Alessandria, attiva già da metà 1800, si trova a Verduno e vinifica esclusivamente uve di proprietà da circa 15 ettari di vigne. Il vino che abbiamo nel calice ha un naso molto elegante, un bouquet di rose accompagnato da un bel frutto rosso fresco e un tocco di pepe bianco. Il sorso è caratterizzato in ingresso da un’ottima dolcezza di frutto, si dipana bene grazie ad una ragguardevole freschezza, il tannino è poco presente, alcol sotto controllo. Scorrevole e semplice (forse troppo? O forse è un vino che va aspettato almeno un lustro affinché possa farsi) ma molto godibile.

Barolo Acclivi 2017 – Comm. G.B. Burlotto

Restiamo a Verduno con Burlotto, altro nome storico di Langa. L’Acclivi è un Barolo ottenute dalle uve provenienti da vigne collocate a Verduno (Monvigliero, Neirane, Rocche dell’Olmo e Boscatto). Olfatto molto affascinante e complesso: roselline e radici, foglie secche e china, lampone e polvere di liquirizia. Il sorso è fitto, fresco e profondo, tannino giustamente in evidenza ma di grande finezza. Chiusura sapidissima e lunga ma soffice. Goloso.

Barolo 2017 – Oddero

Poderi e Cantine Oddero hanno una storia plurisecolare in quel di La Morra e attualmente vinificano dai 35 gli ettari di proprietà sia in zona Barolo sia in zona Barbaresco. Il naso di questo Barolo parte su note fresche di lampone e rose, poi una nota più austera di mineralità scura accompagnata da una curiosa nota di castagna/noce. Bocca serrata in una morsa acido-tannica ancora da amalgamarsi, chiude lungo e salato. Da attendere.

Barolo Paiagallo “Vigna la Villa” 1989 – Fontanafredda / Barolo “Vigna Gattinera” 1989 – Fontanafredda

Commentiamo insieme questi due vini, vecchietti per così dire, non solo perché sono entrambi di Fontanafredda e della splendida annata 1989, ma anche perché rappresentano plasticamente due delle traiettorie possibili di evoluzione del Barolo. Il Vigna la Villa è un vino autunnale a partire dalle note di sottobosco, funghi, tartufo, torrefazione e note affumicate, con un tannino che è diventato cremoso, splendidamente risolto in dolcezza, dalla texture raffinata e carezzevole. Il Vigna Gattinera invece evolve su note più chiare e speziate e ha una materia più asciutta e meno carezzevole, è l’acidità a risultare in primo piano per un sorso che rimane succoso e sapido. Due indomiti vecchietti che hanno ancora molto da dire.

Barolo Riserva 1971 – Borgogno

Borgogno è una realtà che non ha bisogno di presentazioni, cantina dalla storia antica, che oggi vanta di un parco vigne di oltre 30 ettari. Il Barolo Riserva che abbiamo degustato è di un’annata, la 1971, considerata eccezionale. Un vino di oltre 50 anni che ancora scalpita e maturo si concede su note di buccia di arancia e mandarino, eucalipto, lamponi in confettura, tartufo bianco, terra smossa…la bocca è di grande dinamica e allungo, energica benché risolta, in chiusura ci lascia su ritorni di sottobosco e frutta rossa. Un vino di grande fascino.

Alessandra Gianelli
Facebook: @alessandra.gianelli
Instagram: @alessandra.gianelli

Diego Mutarelli
Facebook: @vinocondiviso
Instagram: @vinocondiviso
WhatsApp: Canale WhatsApp

Virtù etiche e virtù vitivinicole: Benvenuto Brunello 2019

Se qualcuno chiedesse la mia opinione su una bella annata come la 2019 a Montalcino, che cosa potrei rispondere in modo da non risultare banale?

Sabato 25 novembre ho avuto la fortuna di potermi accomodare in uno dei tavoli sistemati nel chiostro del Consorzio del Brunello di Montalcino e di assaggiare in anteprima la nuova annata che sarà disponibile sul mercato a partire da gennaio 2024.

Faccio una doverosa premessa, visto che non scrivo su questi canali da un po’: se qualcuno chiedesse la mia opinione su un Brunello, probabilmente lo farà sapendo che il sangiovese fa parte del mio lavoro da una decina d’anni, tuttavia non sono di Montalcino, anzi non sono nemmeno toscana, e se spesso questa la sento come una condanna divertente, allo stesso tempo credo che le mie radici siano sufficientemente lontane da permettermi di mantenere la giusta distanza e un certo senso critico.

Ora, come direbbe Soldati, vino al vino, quindi torniamo a ciò che conta davvero. Seduta al mio tavolo, con sei bicchieri davanti, ho avuto circa tre ore a disposizione per farmi un’idea del frutto di anni di lavoro da parte dei produttori di quest’angolo di Toscana.

Leggendo la lista dei vini a disposizione, ho notato diversi elefanti nella stanza, o meglio nel chiostro, certi grandi assenti, perciò ho provato ad accogliere questa mancanza con positività, visto che solo così avrei degustato in maniera più democratica, senza precipitarmi sulle bottiglie che solitamente prediligo. Andando a memoria, la 2019 è stata un’annata calda e soleggiata e allo stesso tempo di grande equilibrio, soprattutto nell’ultima fase di maturazione dell’uva, dove le escursioni termiche hanno permesso una vendemmia di quantità e di qualità. Fare vino e fare filosofia li vedo procedimenti molto simili, dopotutto ogni cantina ha una sua storia e una sua filosofia di produzione. Non solo, produrre un buon vino presuppone la ricerca della virtù, o meglio dell’aretè greca, vale a dire l’indagine sull’essenza bella e buona di ciascuna cosa, che sia un’uva, un territorio o una particolare annata, in modo da plasmare e rendere questi elementi ciò che devono essere.

I greci dicevano poi che l’esercizio della virtù va fatto katà métron, secondo misura, perché l’armonia non prevede esagerazioni, e a mio avviso i produttori sono più inclini ad applicare questa regola nelle annate difficili, quando il calcolo, la misura e la proporzione in vigna e in cantina fanno la differenza. Se l’annata invece è molto buona e ricca di promesse, l’estro sarebbe invogliato ad estrarle tutte. Sono tanti gli esempi vinicoli in cui la tentazione di estrapolare in abbondanza ha preso il sopravvento, e il risultato è sempre smisurato. Basti pensare alla concentrazione di alcune bottiglie di Gran Selezione di Chianti Classico, seppure questa sia la denominazione che prediligo come espressione di sangiovese al giorno d’oggi, oppure alla predominanza del legno in certe espressioni di Brunello di Montalcino in un’annata straordinaria come la 2016. L’unico mio timore quando mi sono seduta a quel tavolo di degustazione era proprio la mancanza della giusta misura.

Ho capito solo lavorando nel mondo del vino il vero significato di questo senso di misura talmente importante nell’antichità. Con l’orologio alla mano ho dato inizio alla prima batteria di assaggio. Calice dopo calice, ho scoperto vini molto aperti e disponibili, già equilibrati e piacevoli, alcuni più timidi di altri per via della gioventù, in altri casi invece ho notato una certa esuberanza nei sentori dati dal legno, sperando sempre che il tempo riesca a placarla un poco. Lo scopo di questa mia indagine era quello di scovare un filo conduttore tra gli assaggi, e non ho fatto una gran fatica a trovarlo: la raffinatezza del tannino, setoso perché giunto alla giusta maturazione, accompagnato da profumi molto freschi, che contenevano e bilanciavano il tenore alcolico, infine una concentrazione movimentata dall’acidità. L’equilibrio, la giusta misura, l’armonia, sono dopotutto il mantra dei più elevati pensieri filosofici.

Se ogni indagine porta in ogni caso al sommo bene, ho deciso di accogliere con un certo stupore e meraviglia i vini che si sono distinti per la loro finitura garbata, e mi scuso se in tre ore non ho fatto in tempo ad assaggiare tutto ciò che avrei voluto.

Lisini (etichetta nera), era da qualche anno che aspettavo mi meravigliasse come una volta, l’ho trovato sfaccettato nei profumi, con piacevoli note di frutti di bosco e un tannino poco timido, promessa di una grande longevità.

Pietroso, ho chiesto una seconda bottiglia perché la prima non mi convinceva. Eccoci finalmente. Dinamico e rigoroso allo stesso tempo, dal gusto pieno, squisitamente floreale.

Tassi Vigna Colombaiolo, nonostante lo stile riduttivo che apprezzo spesso nel sangiovese ho ritrovato comunque un frutto dolce e un tannino morbido e succoso, in equilibrio con l’acidità.

Talenti Selezione Piero, colore concentrato, mi ha sorpresa il frutto blu che ho ritrovato sia al naso che in bocca. Spesso tendiamo a pensare che la frutta così scura sia l’anticamera dell’opulenza, in realtà in questo caso si trattava di un mirtillo freschissimo e croccante.

Casanova di Neri (etichetta bianca), peccato non essere ancora riuscita ad assaggiare il Brunello Giovanni Neri, tuttavia anche qua è facile scoprire un’interpretazione incline al gusto baroleggiante, nella sua accezione più elegante e positiva.

Sesti, ho particolarmente apprezzato il suo centro bocca, voluminoso ma mantenendo sempre quel senso di proporzione proprio di un vero Brunello.

– Infine come ogni anno voglio dedicare lo spazio a un Rosso di Montalcino che mi ha stupito più di tanti Brunelli, ovvero il Rosso 2021 di Gorelli, così succoso e piacevole, dal naso salino e il tannino di velluto.

“Ogni arte e ogni indagine persegue un qualche bene,
e per questo il bene è stato definito ciò cui tutto tende.”

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I.

Elena Zanasi
Instagram: @ele_zanasi

Due Arbois contro la gentrificazione dei vini del Jura

Il termine gentrificazione sta ad indicare la trasformazione di un quartiere popolare di una grande città in una zona abitativa di pregio e di moda. Il processo da una parte riqualifica la zona, e ha dunque connotazioni positive, dall’altra porta con sé anche delle conseguenze negative in quanto stravolge la composizione sociale del quartiere a causa dell’aumento repentino dei prezzi delle abitazioni.

La gentrificazione è purtroppo all’opera anche nel mondo del vino. Alcuni territori, fino a pochi anni fa poco considerati dal mercato, hanno subito in pochi lustri una “riscoperta” che ha portato i vini di queste regioni ad affrontare irragionevoli aumenti di prezzi. E così, l’appassionato che prima apprezzava questi vini ancora lontani dalle luci della ribalta, ora rischia di non poterseli più permettere. Il Jura sta senz’altro vivendo un processo di questo tipo. Fino ai primi anni del nuovo millennio i vini del Jura sono rimasti nell’ombra per moltissimi consumatori, lontani com’erano da quello che chiedeva il mercato in quella fase, ovvero vini rotondi, rassicuranti, enologicamente irreprensibili. Ad un certo punto i grandi buyer hanno invece iniziato a ricercare e proporre vini identitari, originali, spontanei, riconoscibili. La richiesta di quei vini – che prima in pochi volevano e cercavano – è schizzata alle stelle e di conseguenza, seguendo l’inesorabile legge di domanda e offerta, sono schizzate alle stelle anche le quotazioni. In Jura questo processo è in atto da qualche anno e alcuni produttori sono diventati improvvisamente oggetto di collezionismo e speculazione…qualche nome? Domaine Renaud Bruyère et Adeline Houillon, domaine Pierre Overnoy, domaine des Miroirs, domaine Ganevat, domaine Labet…

E’ bene precisare che tale dinamica non è “spinta” dai produttori, ma “tirata” dal mercato. Per non arrenderci a questo ineluttabile processo, negli ultimi giorni abbiamo assaggiato alcuni vini giurassiani lontani da riflettori e dunque ancora accessibili. Oggi ti parliamo di due dei vini che ci hanno colpito maggiormente, due Savagnin di Arbois.

Arbois Savagnin ouillé 2019 – Domaine de La Pinte

Il domaine de La Pinte si trova ad Arbois e dispone di 34 ettari di vigne la metà delle quali dedicate al savagnin (non mancano, in ordine decrescente di ettari vitati poulsard, chardonnay, trousseau e pinot noir). L’azienda opera in regime biologico ed è attualmente in conversione biodinamica. Il vino che ci troviamo nel bicchiere è 100% savagnin ouillé, quindi vinificato con le botti colme senza ricercare i sentori ossidativi tipici dei vini cosiddetti “typé” (vinificati in botti scolme) e del vin jaune. Frutta bianca, fiori di campo, nocciole, cerfoglio, a bicchiere fermo un ricordo di frutta esotica…sorso energico, potente e guizzante, un’acidità con i superpoteri tiene a bada i 15% di titolo alcolometrico. Persistenza infinita.

Arbois Savagnin ouillé “En Guille Bouton” 2021 – Domaine Grand

Il domaine Grand si prende cura di 11 ettari in regime biologico. Anche in questo caso stiamo degustando un savagnin ouillé. Il primo naso è prepotentemente minerale (calcare, roccia), poi si susseguono sentori delicati ed eleganti di frutta bianca, nocciole fresche, spezie in formazione. Sorso di grande dinamica, il vino risulta fresco e stratificato, per nulla rapido nello sviluppo, ma anzi articolato e profondo. Chiusura lunga e salatissima.

Diego Mutarelli
Facebook: @vinocondiviso
Instagram: @vinocondiviso

Il pecorino, un vino che dalla montagna volge verso il mare

Da oggi Vinocondiviso si arricchisce dei contributi di Walter, sommelier marchigiano che sposa la filosofia di Vinocondiviso, ovvero il piacere della scoperta e condivisione di tutto ciò che ruota attorno al vino. Questo è il suo primo post. 

Ogni bottiglia di vino può dare notizia di sé trasmettendo vizi e virtù proprie a chi desidera scoprire la sua storia fatta di persone, di piccoli gesti anonimi e di un legame sentimentale con il proprio territorio.
Il nostro viaggio inizia da un vitigno autoctono a bacca bianca originario dell’Italia centrale coltivato in origine con un sistema di allevamento detto ad “alberata” dove le viti erano maritate con alberi da frutto o aceri.
Il viaggio prosegue nel territorio Piceno portandoci nello specifico in quel di Pescara del Tronto, una frazione di Arquata del Tronto rasa al suolo dal recente terremoto e luogo della riscoperta del vitigno dove le viti erano “a piede franco” con radici proprie, non ibride e non innestate su radici di piante americane. Stiamo parlando del pecorino.

Photocredit: Wikipedia


Erano gli anni Novanta quando un esperto sommelier e Tenuta Cocci Grifoni, storico produttore del territorio Piceno, hanno contribuito a riportare in auge il vitigno pecorino salvandolo dall’estinzione che rischiava a causa della sua scarsa produttività.
Così iniziarono le prime sperimentazioni e le prime vinificazioni frutto delle viti che da Arquata del Tronto, piccolo borgo montano posto alle pendici del Monte Vettore, furono piantate in colline degradanti verso il mare. Il pecorino ottenne la certificazione doc solo nel 2001, difatti nell’anno di imbottigliamento della prima bottiglia (il 1990) frutto delle continue sperimentazioni l’etichetta non riportava ancora la dicitura pecorino ma vino da tavola.
Nelle Marche, il pecorino rientra sia nel disciplinare di produzione dei vini a denominazione di origine controllata “Falerio doc”, istituita nel 1975, sia nel disciplinare di produzione dei vini a denominazione di origine controllata e garantita “Offida docg”, certificazione ottenuta relativamente di recente, nel 2011.

Diversi produttori lo vinificano in purezza utilizzando il vitigno pecorino al 100% nonostante il disciplinare stabilisca un minimo dell’85% di pecorino per rientrare nei parametri della docg Offida. Generalmente l’avvio della fermentazione è in vasche di acciaio ma ultimamente alcuni produttori stanno sperimentando l’uso del legno e delle barrique che regalano al vino delle note speziate di vaniglia che ne arricchiscono il bouquet aromatico.
Il pecorino è un vitigno piuttosto versatile, infatti per la sua importante componente acida si presta anche alla spumantizzazione sia con il metodo Martinotti-Charmat che prevede la rifermentazione in autoclave sia con il metodo Classico con rifermentazione in bottiglia.

Offida docg pecorino Colle Vecchio 2021 – Tenuta Cocci Grifoni

All’esame visivo si presenta limpido quasi cristallino con un colore giallo paglierino dai riflessi dorati di grande intensità e vivacità. Riempie il calice muovendosi lentamente segno di un buon tenore alcolico. All’olfatto risulta intenso e l’impatto del profumo sulla mucosa nasale è immediato e diretto. Dapprima si colgono le note fruttate da frutti a polpa gialla come la pesca e frutti tropicali come il mango. A seguire si apprezzano anche note agrumate di bergamotto e di erbe aromatiche come salvia e rosmarino.
Vino strutturato e complesso con una spalla acida importante accompagnata da una sapidità ben presente e dall’altra parte una componente alcolica di tutto rispetto che lo rendono un vino equilibrato.
Il sorso in bocca è appagante, riempie il palato e la vibrante acidità crea salivazione e invita al prossimo sorso. Sul finale ritroviamo le sensazioni di frutta a polpa gialla riscontrate nell’esame olfattivo nonché le sfumature di erbe aromatiche come la salvia e le note agrumate di bergamotto.
E’ dotato di una persistenza medio lunga, lo testimonia il fatto che l’insieme delle sensazioni si continuano a percepire diversi secondi dopo l’assaggio.
Essendo un vino strutturato è consigliabile un abbinamento a piatti dello stesso livello, quindi strutturati, come primi piatti di pesce, pesce alla griglia e carni bianche ma non disdegna l’abbinamento a un tagliere di formaggi a media stagionatura e si rivela ottimo anche come aperitivo.

Walter Gaetani

Il Friulano di Miani in verticale

I Colli Orientali del Friuli sono terra di grandi vini bianchi e sorprendenti vini rossi. E Miani è senza ombra di dubbio l’azienda di riferimento: i suoi vini sono ricercati e apprezzati dagli appassionati di tutto il mondo e le poche migliaia di bottiglie messe in commercio ogni anno spariscono in poco tempo e raggiungono ragguardevoli quotazioni nel mercato secondario.

Ho già scritto di Miani e del suo artefice, Enzo Pontoni, in concomitanza di una coinvolgente visita in cantina. L’occasione per riparlarne è stata l’imperdibile degustazione verticale del friulano Miani, organizzata da WineTip a Milano.

Il friulano – già tocai – è forse il vitigno a bacca bianca autoctono più rappresentativo dei Colli Orientali. Se opportunamente allevato e vinificato è molto adatto all’invecchiamento, il che consente al vino di distendersi ed arricchirsi di aromi, mentre in gioventù il vitigno è tanto timido al naso quanto potente, caldo e compresso in bocca.

Miani è noto per la cura maniacale delle proprie viti, Enzo Pontoni passa buona parte del suo tempo da solo in vigna, ma in cantina è tutt’altro che improvvisato. Le scelte di vinificazione sono molto precise: il legno è l’unico materiale che sta in contatto con il mosto, dalla fermentazione fino al prodotto finito, e l’affinamento è di molti mesi (12 nel caso del friulano) in barrique francesi prevalentemente nuove.

Prima di raccontare qualcosa sui singoli vini bevuti partiamo dal fondo, ovvero da quello che la degustazione ci ha lasciato e dal fil rouge (in questo caso dovremmo dire blanc!) che unisce tutti i friulano Miani assaggiati:

  • mineralità: da tutti i campioni è emersa, prepotente, un’innegabile nota minerale di roccia e sale. Il terreno dei Colli Orientali, localmente detto ponca, ovvero marna e arenaria stratificati nel corso dei millenni, fornisce ai vini un’impronta che non possiamo che definire minerale;
  • caratteristiche organolettiche: fieno, fiori di campo, mandorla fresca, note di erbe aromatiche e delicatamente vegetali (dal timo al rosmarino, dalla verbena al tè verde), frutta poco matura in gioventù e più dolce con il passare del tempo fino ad arrivare a note elegantemente tropicali, spezie e sbuffi balsamici per i vini più vecchi, con qualche tocco di miele e nocciola…insomma il friulano può diventare un vino decisamente complesso per chi lo sa attendere;
  • opulenza: chi cerca nei vini bianchi agilità di beva, verve acida e freschezza agrumata non troverà nel friulano dei Colli Orientali il suo vino ideale. Di contro però la materia ricca e densa, stratificata e potente, è perfettamente bilanciata da uno sviluppo armonioso in bocca, da una saturazione gustativa con pochi uguali e da un’acidità in filigrana sempre presente che accompagna il vino in un finale salino appagante e lunghissimo;
  • legno: l’uso sconsiderato del legno piccolo e nuovo è per molti, compreso chi scrive, quello che per Superman è la kryptonite…ebbene da Miani l’utilizzo del legno è funzionale al risultato finale, non usato dunque come “doping aromatico” o makeup di una materia scadente. In nessun assaggio le note boisé erano in primo piano: vaniglia, cognac, caramello e altre “amenità” sono sentori del tutto sconosciuti ai vini di Miani.

Veniamo ora ai vini assaggiati:

FCO Friulano Filip 2020: vino ancora giovane misurato ed elegante. Olfatto di pesca e albicocca non matura, poi polline, fino, roccia, mandorla fresca, verbena e scorza di limone. Sontuoso al sorso, ma potenza ed eleganza non sono un ossimoro per questo vino dalla chiusura tersa, calda e profonda. Ottimo già ora ma va atteso qualche anno. Elegante

FCO Friulano 2018: giallo oro il colore, si percepiscono note di pesca gialla, fiori di campo, minerale. Ingresso molto saporito e potente, sapido fin dal centro-bocca, a compensare una certa untuosità una sorprendente freschezza “pulente”. Chiude appena amaricante su ritorni di nocciola e rosmarino. Energico

FCO Friulano 2016: fiori gialli, balsamico, nespola, nocciola al naso. Al sorso il vino è caratterizzato da ampiezza e sapore, estremamente equilibrato con alcol gestito magistralmente, succo e progressione per un vino molto appagante e gastronomico. Chiusura sapida e rocciosa. A bicchiere fermo una curiosa nota di uva fragola. Armonico

FCO Friulano 2011: alla frutta gialla, anche tropicale (mango), si affiancano note mentolate, di spezie e rosmarino. Bocca morbida ben supportata da sapidità e freschezza, con note tostate in chiusura che, pur senza eccessi, riportano all’utilizzo della barrique. Moderno

FCO Friulano Buri 2007: ancora uno splendido giallo dorato il colore. Profumi di frutta matura, finocchietto, tarassaco e note balsamiche. Sorso di grande opulenza, stratificato, saporito, lunghissimo. Legno integrato alla perfezione in una materia eccellente. Il vino che è piaciuto di più alla platea di degustatori. Perfettamente in beva e con molta vita davanti. Aristocratico

FCO Friulano Buri 2006: il vino bianco più vecchio presente alla verticale che, a mio avviso, lungi dall’essere all’apice, risulta invece perfettamente risolto. Naso di roccia, fiori gialli appassiti, fieno, uva passa, miele di acacia… Bocca ampia e potente, saturante il sapore in quanto a intensità e allungo, eccezionale nella sua integrità. Chiude su un entusiasmante finale di scorza d’arancia. Immortale

Diego Mutarelli
Facebook: @vinocondiviso
Instagram: @vinocondiviso

Château Pape Clément, la storia di un Papa a Pessac

Per concludere il nostro breve viaggio nei territori bordolesi, dopo essere stati a Saint-Émilion e a Sauternes, abbiamo deciso di visitare la più antica tenuta di Bordeaux, nelle Graves, a Pessac: Château Pape Clément.

La prima vendemmia risale addirittura al 1252, sotto le insegne del Domaine de la Mothe. Nel 1299 il domaine era posseduto da Gaillard de Goth e suo fratello Bertrand, arcivescovo di Bordeaux, che fu raggiunto dalla notizia della sua elezione a Papa (non era neppure cardinale) mentre si trovava nella tenuta. Divenne Papa con il nome di Clemente V. Nel 1306, alla morte del fratello, il papa Clemente V divenne unico proprietario della tenuta, rinominata Château Pape Clément.

Oggi è guidata da Bernard Magrez, uomo d’affari grande appassionato di vino, proprietario di ben 40 aziende vinicole nel mondo. La mano dell’imprenditore si vede nei grandi investimenti effettuati in vigna e in cantina, ma anche nell’accoglienza gestita con professionale meticolosità. Una squadra di addetti riceve i numerosi visitatori (gruppi da 20 persone) nello shop dell’azienda. Da lì la visita, gratuita ma su prenotazione, si dipana in vigna, poi in cantina e infine nella sala degustazione.

Ecco i vini che abbiamo degustato:

Graves Rouge L’Âme de Pape Clément 2019 – Château Pape Clément

É il terzo vino dell’azienda, viene dopo ovviamente il Grand Vin (che degustiamo poco sotto) e il Clémentin rouge. Per questo vino la raccolta delle uve è meccanica, effettuata la notte per preservarne la freschezza. Fermenta e affina in inox, a parte il 10% della massa che sosta 15 mesi in barrique. Il blend è composto da merlot in maggioranza (48%) con saldo di cabernet sauvignon (35%) e cabernet franc (17%). Vino che parte su sensazioni dolci di frutta matura (cassis, more), ma anche qualche raffinata nota floreale, poi balsamico, pepe nero e legna arsa. Bocca calda e intensa, l’alcol è comunque ben gestito, tannino affusolato e chiusura di bocca con la giusta freschezza e qualche ritorno vegetale. Vino ben confezionato e di ingresso, per cui però non avrei speso in etichetta il riferimento addirittura all’anima di un Papa! (20 €)

Médoc 2016 – Château Les Grands Chênes

Assaggiamo il vino di questa azienda del Médoc, sempre di proprietà di Magrez. Ottenuto da merlot (60%) e cabernet sauvignon. Vendemmia manuale e affinamento in barrique (60% di legno nuovo) per 18 mesi. Al naso è piuttosto ricco e dolce tra note di cioccolato al latte e prugna, cannella e torrefazione, quindi cioccolatino Mon Chéri. A discapito di un naso così barocco, la bocca è invece composta, lo sviluppo soave e il tannino carezzevole, in chiusura esce la parte sapida ed un leggerissimo e piacevole grip tannico. (18 €)

Pessac-Léognan Grand Cru Classé de Graves 2016 – Château Pape Clément

Con impazienza assaggiamo il Grand Vin, di cui abbiamo ottimi ricordi in annate precedenti. È un vino a cui l’équipe di Magrez dedica la massima cura. La vendemmia è manuale e addirittura la diraspatura è effettuata a mano da decine e decine di addetti! Cabernet sauvignon (56%), merlot (40%) e cabernet franc (4%) che fanno fermentazione e macerazione di 30 giorni in botti grandi per poi passare in barrique, per metà nuove, dove il vino sosta complessivamente 18 mesi. Olfatto che parte sui fruttini sia rossi (ribes), sia neri (mirtilli), poi note più austere di sottobosco, affumicato, grafite e chiodi di garofano. Bocca di classe, volume e ampiezza che però non vanno a discapito dello sviluppo, senza spigoli, concentrazione della materia e armonia nella progressione vanno all’unisono, con tannini elegantissimi. Salata la chiusura con raffinata e lunghissima persistenza fruttata. (90 € – 150 €, a seconda dell’annata)

Pessac-Léognan Blanc Clémentin de Pape Clément 2019 – Château Pape Clément

È il second vin bianco dell’azienda, il Grand Vin bianco è molto reputato oltre che raro. Il vino è ottenuto da sauvignon blanc con sémillon e muscadelle a completare il blend. Fermenta e affina in legno, nuovo in prevalenza, con una piccola parte della massa (10%) in uovo di cemento. Naso che parte netto sugli agrumi (pompelmo, mandarino), salvia, poi qualche tocco esotico di passion fruit e pasta frolla. Sorso di grande energia, l’acidità è vivace e perfettamente integrata nella materia. Chiusura tersa e pulita, vino molto piacevole e lontano dal vecchio canone del Bordeaux blanc tutto grassezza e note boisé. (45 €)

Diego Mutarelli
Facebook: @vinocondiviso
Instagram: @vinocondiviso