Quando iniziai a interessarmi di vino, una delle denominazioni che mi colpirono maggiormente fu senza ombra di dubbio l’appellation di Sauternes. Vini dolci che venivano ottenuti dalla fermentazione di grappoli colpiti dalla cosiddetta “muffa nobile”, originata da un fungo, la botrytis cinerea, che miracolosamente arricchiva e concentrava aromaticamente il vino, invece di rovinarlo irrimediabilmente. Ricordo ancora che il primo Sauternes lo assaggiai accompagnato da un crostino di pane noci e fichi, con un formaggio erborinato e miele.
Mi tornano in mente questi ricordi non appena sorpasso il torrente Ciron, corso d’acqua che gioca un ruolo fondamentale nel creare la giusta umidità autunnale per permettere al benefico fungo di attecchire.
Château Raymond-Lafon fu fondata nel 1850, solo cinque anni prima della classificazione del 1855, e per questo, essendo troppo giovane (!) non fu ricompreso ufficialmente nel classement dei cru di Sauternes e Barsac. Ma la fama dello Château non ne risentì, tanto che il Sauternes Raymond-Lafon per molto tempo spuntò quotazioni molto vicine ai mostri sacri della denominazione. C’è da sottolineare che negli anni ’70 lo Château fu rilevato da Pierre Meslier, storico direttore generale di Château d’Yquem. Ancora oggi l’azienda è gestita dalla famiglia Meslier e, Jean-Pierre, figlio del primo proprietario, mi sta aspettando per accompagnarmi in vigna.
Attualmente l’azienda possiede 16 ettari, 80% vitati a sémillon e 20% a sauvignon blanc. Pierre Meslier mi spiega che il sauvignon apporta una bella aromaticità ma lo definisce un “fuoco di paglia”, intenso ma corto, mentre è il sémillon che fornisce struttura e capacità di evoluzione e tenuta nel tempo (“fuoco di brace”). Ci trasferiamo poi in cantina e mi parla del millesimo che assaggeremo, il 2019. Un’annata che climaticamente non è stata semplice, soprattutto in agosto e settembre, con temperature eccessive fino a 42°. Le rese ne hanno risentito perché alcuni acini sono stati completamente seccati dal sole, ma fortunatamente la botrytis ha attaccato i rimanenti acini ben maturi. La vendemmia è stata fatta in 6 passaggi ripetuti, al fine di cogliere solo i grappoli più idonei, tra il 23 settembre e il 29 ottobre. L’affinamento prevede due anni di barriques nuove.
Sauternes 2019 – Château Raymond-Lafon
Oro antico il colore. L’olfatto è ricco, suadente ma elegante, un bellissimo mix di frutta tropicale (mango, ananas) e agrumi (pompelmo e scorza di cedro), ma anche sensazioni più dolci di torroncino e crème brûlée accompagnate da nuances di fiori di tiglio. Il sorso è di grande equilibrio, ricco ma non barocco, la dolcezza (133 grammi/litro) in ingresso accarezza e fodera il palato, ma è subito rintuzzata da una elegante freschezza che supporta lo sviluppo e approfondisce il sorso. Un Sauternes molto buono e non troppo possente, almeno a giudicare da questo millesimo, ricco di sfaccettature e che chiude sapido su ritorni agrumati. A bicchiere vuoto una sorprendente nota di confettura di prugna.
Attenzione, il Sauternes, e questo in particolare, non è un vino da dessert. Darà soddisfazione sia con gli antipasti (la classica terrina di foie gras, ma localmente i più intrepidi giurano persino con le ostriche!), con i formaggi erborinati oppure con i secondi di carne speziati e orientali (anatra all’arancia, filetto di maiale al miele, pollo ruspante con castagne…).
Una recente visita nel territorio bordolese ci ha permesso di conoscere da vicino una vera e propria leggenda del vino. Infatti, l’incredibile storia di Château Valandraudnon può lasciare indifferente nessun wine addicted…
L’epopea è nota e qui la riassumiamo per sommi capi: ad inizio anni ’90 un bancario appassionato di vino, di nome Jean-Luc Thunevin, insieme alla moglie Murielle Andraud, decide di produrre un grande vino a Saint-Émilion. Parte da una parcella di poco più di mezzo ettaro e inizia a vinificare nel proprio garage. Qualche anno di esperienza in annate piuttosto difficili e poi, non appena arriva l’annata buona, la 1995, il vino viene spedito a Robert Parker che gli affibbia uno score superiore a quello di Pétrus.
Da quel momento in poi il mondo si accorse Jean-Luc Thunevin, che ispirò in tutto il globo altri viticoltori con poca vigna e molte idee: era nato il concetto di garage wine.
Da allora ad oggi di strada ne è stata percorsa molta e, nonostante il garage sia ancora ben presente e in parte utilizzato, Château Valandraud è divenuto Premier Grand Cru Classé B nel competitivo e irrequieto classement di Saint-Émilion. Questa graduatoria, a differenza dell’immutabile classement del 1855 della riva sinistra, è messa in discussione ogni 10 anni e a settembre di quest’anno sapremo se la saga di Thunevin riuscirà a completarsi, raggiungendo il vertice della gerarchia, ovvero il gradino di Premier Grand Cru Classé A.
Oggi Thunevin è un Gruppo composto da una società dedicata alla commercializzazione di vini della Rive Droite, 5 shop nell’incantevole borgo di Saint-Émilion, un hotel e differenti aziende vitivinicole oltre a Château Valandraud.
Visitare dunque questa realtà è stato un grande privilegio, non solo per farsi raccontare e in parte rivivere questa storia irripetibile e recarsi presso l’innovativa cantina appena aperta al pubblico, ma anche per assaggiare vini che nel tempo hanno subito un’evoluzione interessante pur non rinnegando lo stile e il protocollo Thunevin. Questo “bad boy” (cit. Robert Parker) fu infatti il primo ad applicare una ricetta fatta di vendemmia verde, bassi rendimenti, defogliazione, raccolta di uva perfettamente matura e cernita in vendemmia dei soli grappoli assolutamente sani. La cura maniacale in vigna è accompagnata da abbondante utilizzo di barrique nuove in affinamento.
I primi Valandraud furono vini scioccanti, estremi, ma anche innovativi, caratterizzati dal frutto denso e dolce e dalle note boisé che tanto piacevano Oltreoceano.
Ci chiedevamo: “come saranno i vini oggi?”. Non sono cambiati infatti solo i consumatori, che privilegiano vini equilibrati ed eleganti, ma anche il clima (ahinoi). La maturità del frutto non è più un problema, neppure a Bordeaux, ed oggi molti produttori proteggono le uve dal troppo irraggiamento (altro che defogliazione!).
Anticipiamo la risposta, che verrà poi meglio avvalorata dalle sintetiche note di degustazione che seguono, perché siamo stati piacevolmente sorpresi. I vini Valandraud – non solo il Grand Vin ma anche gli altri vini dello Château e delle aziende del Gruppo – sono infatti sì vini ricchi di frutto dolce, ma con dinamica ed estrema eleganza. Come i migliori vini di Saint-Émilion sono liquidi carezzevoli, morbidi, potenti ma delicati nello sviluppo. Pugno di ferro in guanto di velluto, anzi di seta.
I vini degustati
Saint-Émilion Grand Cru “Virginie de Valandraud” 2016 – Château Valandraud
Ottenuto da merlot, cabernet franc, cabernet sauvignon, malbec e carmenère si presenta rosso rubino compatto e molto sul frutto maturo (prugna, lamponi), seguono interessanti note balsamiche, di legna arsa, sottobosco e cacao. Bocca soave, ampia e morbida, dal tannino sottile. Ritorni di cioccolato fondente e frutta. 20 mesi di barrique nuove.
Si tratta di un vino sensuale e accattivante, non entusiasmerà gli amanti delle sferzate acide ma risulta, nel complesso, equilibrato, elegante e gustoso. (30-40 €)
Saint-Émilion Grand Cru Clos Badon 2016 – Thunevin
Merlot e cabernet franc in parti uguali. Clos Badon è vinificato ancora nel garage da cui tutto ebbe inizio. Parte sul frutto (cassis), ma anche note più intriganti di camino spento. Bocca di ottima fusione e ampiezza, tannino ben presente ma dolce, nessuna sfacciata nota da legno. Vino di grande interesse che vale quello che costa e che promette un’interessante evoluzione in bottiglia. (40 € circa)
Pomerol 2015 – Le Clos du Beau-Père
Ci spostiamo a Pomerol, qui il merlot sale al 90%. Naso in cui si avverte di più l’affinamento in legno nuovo, con la vaniglia e il cioccolato ad accompagnare la prugna della California. La bocca è meno setosa dei due assaggi precedenti, con acidità e tannini più presenti a sostenere una materia ricca e densa. Sapido in chiusura. (40-50 €)
Saint-Émilion Grand Cru 2017 – Château Soutard-Cadet
Da una vecchia vigna di merlot di poco più di 2 ettari, al cui interno si trova anche qualche vite di cabernet franc. Naso voluttuoso di lamponi maturi, cioccolato, cuoio…intenso e concentrato al sorso, ma di grande eleganza. Ritorni di liquirizia dolce. (40 € circa)
Saint-Émilion Premier Grand Cru Classé 2016 – Château Valandraud
Eccolo qui il vino che ha reso famoso Valandraud. Maggioranza di merlot (90%) con cabernet franc e cabernet sauvignon a saldo. Sa di ciliegie, lamponi, chicco di caffè, liquirizia, mineralità scura (grafite)…sorso morbido e succoso, rotondo e ricco, con legno gestito molto bene. In chiusura un tannino fitto ma fine fornisce grip ed allungo. Persistenza infinita ma carezzevole. (oltre 200 €)
Saint-Émilion Grand Cru 2006 – Château Valandraud
100% merlot in questa annata, colore rubino che schiarisce sull’unghia a tradire una certa evoluzione, naso meno bombastico del precedente e più aristocratico: prugna disidratata, sottobosco, corteccia, spezie (cardamomo)…bocca scorrevole ma dal tannino più presente nonostante l’evoluzione maggiore in vetro (la 2006 non è stata un’annata semplice). Sapida e lunga la chiusura.
Bordeaux Blanc “Virginie de Valandraud” 2019 – Château Valandraud
L’appellation Saint-Émilion è rossista, ecco dunque che Thunevin, il bad boy, deciso a produrre un grande bianco, è costretto ad abbracciare la “semplice” denominazione Bordeaux blanc. Ottenuto da sauvignon blanc, sémillon e sauvignon gris il vino parte su vegetali accompagnate da frutta tropicale, bocca semplice e di buona scorrevolezza. Un vino ben fatto ma non emozionante. (40 €)
Bordeaux Blanc “Virginie de Valandraud” 2014 – Château Valandraud
Più interessante questo millesimo invece, con il sauvignon a marcare meno il quadro aromatico, fatto in prevalenza da albicocca fresca e qualche fine nota vegetale. Fresco e profondo, sapido e terso.
Bordeaux Blanc 2017 – Château Valandraud
Il Grand Vin bianco ha una marcia in più in termini di eleganza e allungo. Intrigante mix di sentori vegetali, agrumati e affumicati il tutto accompagnato da spezie orientali. Ad un naso complesso e cangiante fa da contraltare una bocca acida e mobile, che si sviluppa in profondità lasciando in chiusura richiami di frutta tropicale. (60 € circa)
L’ultimo weekend di giugno, a Borgofranco d’Ivrea, l’associazione Giovani Vignaioli del Canavese ha organizzato la seconda edizione di ReWine, manifestazione nata con lo scopo di fare conoscere un territorio in grande fermento, quello attorno a Carema e il Canavese.
Siete mai stati qui? Un territorio che visto di persona, ma anche solo in foto, non può che affascinare e incuriosire: i vigneti sono punteggiati da piloni di cemento, che sembrano colonne doriche, a sostegno di pergole dove la vigna poggia su terreni di riporto, creati dall’uomo, con fatica estrema, negli anni.
Per prepararci abbiamo prima di tutto letto il disciplinare (Carema è una DOC dal 1967) e siamo rimasti particolarmente colpiti dal paragrafo “Legame con l’ambiente”:
“Dalle rocce moreniche al confine con la Val d’Aosta, nasce uno dei più nobili vini rossi piemontesi: il Carema. (…) da questa nobile uva a bacca rossa piemontese, il Nebbiolo, nelle varietà locali Picutener e il Prugnet (…) La coltura di produzione è stata sviluppata caparbiamente nel tempo sulle pendici del monte Maletto tra i 350 e 700 metri di altitudine, grazie a un duro lavoro di terrazzamento a secco (…) un vero e proprio vanto architettonico (…) concreta prova del sacrificio di coltivare una terra dura e difficile.”
Dopo questo approfondimento abbiamo aperto il Carema 2017 di Chiussuma – azienda di cui avevamo già parlato assaggiando l’annata precedente – per iniziare a capire i risultati del nebbiolo coltivato in questa zona e a queste altitudini: figlio di un annata calda ha una bocca avvolgente, dolce ma anche una leggera punta alcolica che speriamo si attenui nel tempo (stiamo pur sempre degustando un vino molto giovane). Al naso è una esplosione iniziale di rose rosse (ricordate la scena di American Beauty?) che lasciano poi spazio al frutto rosso (marasca), note di sottobosco, terriccio e incenso, tanto da ricordare, almeno per un breve tratto, un Dolceacqua.
Ma fermiamoci qui, per ora questo è solo l’antipasto, torneremo a parlare di Carema e dei suoi vini dopo l’evento. Ah, a proposito, il programma dell’evento lo trovate al seguente link: REwine – I grandi vini del Canavese (gvc-canavese.it)
Puligny Montrachet è la terra dei bianchi migliori al mondo. Situato nella Côte de Beaune, il vino proveniente da questo villaggio rivolto a oriente sorge nella luce avvolgendosi nel mistero. È espressione di una ragione superiore e di un’armonia apollinea, e allo stesso modo scaturisce da un istinto e da una creatività dionisiaca. Non esiste luogo più luminoso per il vino, tuttavia se da un lato la sua luce raggiunge e irradia il cuore, dall’altro il segreto di tanta bellezza si sottrae alla nostra consapevolezza e preferisce rimanere nascosto in una memoria antica.
Gli uomini più fortunati possono solo attingere a questa ebbrezza sublime, cercando di rielaborarla senza per forza riuscire a rivelarne l’arcano. E anche se nel mio cammino non ho ancora incontrato le leggende del Montrachet o dei suoi vicini Grand Cru più illustri, una sera la fortuna mi ha portato a fare esperienza di tre dei Premier Cru di Puligny Montrachet, interpretati da alcuni tra i produttori più abili e consapevoli.
Paul Pernot, Premier Cru Champ Canet – Clos de la Jacquelotte 2015: A confine con Meursault, dove il rinomatissimo Premier Cru Les Perrières prosegue verso Puligny cambiando nome in Champ Canet, si trova un piccolo lieu-dit, situato più in alto rispetto al blocco principale: è qua che Paul Pernot crea il suo vino, rivendicandolo con il nome Clos de la Jacquelotte. Il colore è giallo paglierino scarico ma scintillante, al naso si concentra su profumi floreali di gelsomino e mughetto, poi una nota iodata, mandorla e un leggero sentore di bacca di vaniglia. In bocca divampa una bellissima freschezza dissetante, inizia con l’acidità, termina con la sapidità, nel complesso un vino teso, dritto e persistente.
François Carillon, Premier cru Les Folatières 2015: il climat più ampio di Puligny Montrachet, letteralmente significa “luogo abitato da spiritelli”, l’interpretazione di questo vino proviene da una famiglia di vigneron ormai giunta alla sedicesima generazione. Colore giallo dorato, il vino presenta una buona consistenza, il naso mi ricorda l’estate: gli aromi riecheggiano i fiori di campo, la pesca gialla matura, il miele, l’orzo; è goloso e caldo, con un leggero sentore tropicale di mango. Il sorso è fresco e sapido con la stessa intensità e mostra un grande equilibrio, ma l’allungo finale non raggiunge la profondità del Clos de la Jaquelotte, che tra parentesi è costato un 30% in meno.
Domaine Leflaive, Premier Cru Les Pucelles 2015: il famigerato domaine possiede ben 3 ettari su 6,76 di questo climat, il cui nome significa “le vergini”. Si trova in un luogo fortunatissimo, accanto al Bâtard Montrachet e al Bienvenue Bâtard Montrachet, e avendo studiato la sua conformità e posizione sui libri, non avrei mai immaginato un vino tanto affilato e aggraziato allo stesso tempo. Siamo in una zona bassa e argillosa, e se i Grand Cru confinanti sono rinomati per la loro ampiezza, estroversione e muscolosità, da un Premier Cru della zona limitrofa mi sarei aspettato un risultato simile, magari un vino più pesante, soprattutto in un’annata calda e generosa. Al contrario, come un lampo ecco che si rivela la magia inaspettata di questo luogo: giallo paglierino lieve, quasi verdolino e brillante, appena stappato emerge al naso una nota di incenso, che poi sfuma per lasciare spazio a una serie di aromi per nulla banali, come la lavanda, il chinotto e la mandorla amara. Al palato un’acidità tagliente, che dà ritmo e incisività a un sorso tutt’altro che ruffiano. Non a caso l’interprete di questa bottiglia è uno dei domaine più prestigiosi di tutto il mondo: Leflaive. Un’annata difficile questa 2015, che vide la scomparsa di Anne Claude Leflaive proprio in primavera. Com’è stato possibile imbottigliare così tanta bellezza nonostante l’incolmabile perdita? E che impatto avrà sul vino il cambio di direzione aziendale avvenuto negli ultimi anni? Tutti segreti di cui non ci è dato conoscerne la risposta. L’unica cosa che so è che il risultato di questa 2015 è straordinario, e mi piace pensare che il passaggio su questa terra di certe personalità carismatiche lasci sempre un insegnamento, un’impronta, un messaggio che nemmeno la morte può cancellare.
Capita che vitigni storici ed importanti per interi territori vengano dimenticati o, più di frequente, vengano mortificati da scelte sbagliate di produttori che ne compromettono quasi irrimediabilmente la fama e la reputazione. Qualcosa del genere è successo anche al refosco dal peduncolo rosso, il più nobile vitigno della grande famiglia dei refoschi (re dei foschi, dei vini scuri, per l’appunto).
Il refosco era, fin dal 1300, la varietà più citata nei testi agronomici del Friuli Venezia Giulia, insieme alla ribolla gialla per quanto riguarda le bacche bianche. Ed è stato per secoli il vino delle grandi occasioni, grazie alla complessità aromatica che portava in dote unitamente ad una materia ricca ed elegante. A partire dagli anni 60 e 70 però, a causa di scelte sbagliate in vigna (cimatura che rendeva la maturità fenolica più difficile da raggiungere), in cantina (vinificazione in acciaio e quindi in riduzione), e presso i vivaisti (che hanno propagato genetiche più produttive ma meno interessanti aromaticamente), il vino ottenuto da questa splendida varietà ha perso spessore e blasone dando troppo spesso origine a vini anonimi, dall’acidità slegata e da tannini verdi e sgraziati.
Vignai da Duline, di cui abbiamo già parlato in passato, ha fin dalla sua origine cercato di dare nuova linfa a questo vitigno grazie a vigne piuttosto vecchie e composte da antichi cloni di refosco dal peduncolo rosso. Nasce così Morus Nigra che abbiamo avuto l’occasione di degustare grazie ad una masterclass organizzata nell’ambito del Mercato dei Vini FIVI che si è tenuto qualche settimana fa a Piacenza.
Ecco le cinque annate che abbiamo assaggiato e che hanno dimostrato, senza alcuna eccezione, una straordinaria capacità di tenuta ed evoluzione nel tempo (nel bicchiere ma anche a ritroso, man mano che le bottiglie si facevano più vecchie). Il Morus Nigra è ottenuto da fermentazione spontanea di refosco dal peduncolo rosso, macerazione di circa 40 giorni in funzione dall’annata, malolattica e affinamento in barrique per oltre 10 mesi.
Morus Nigra 2019: rosso rubino impenetrabile, primo naso di fiori rossi e prugna, seguono poi erbe officinali e spezie (cannella). Bocca intensa, di gran volume ma con alcol assolutamente sotto controllo, la morbidezza complessiva rende il sorso piacevole e integra alla perfezione l’acidità vivace. Chiude sapido e di grande persistenza fruttata. Nelle ultime annate, complice il riscaldamento climatico, la vinificazione avviene, in parte, a grappolo intero (15%-20% di uve non diraspate). Fresco e maturo insieme.
Morus Nigra 2014: in questa annata complicata la macerazione si è protratta per ben 48 giorni. Il vino al colore appare ancora giovanissimo, il naso però è molto diverso dal precedente: sono le spezie in primo piano, accompagnate dai fiori rossi (rose e peonie), in secondo piano dei gustosi lamponi schiacciati e la confettura di more. La bocca è meravigliosamente risolta, soave, succosa e sapida. Chiude su una lunga persistenza minerale. Vino molto buono ed in fase di beva. Power is nothing without control.
Morus Nigra 2010: viole fresche, confettura di amarena, menta, cardamomo, moka… Sorso ampio e carezzevole in ingresso, si allarga nello sviluppo sostenuto da un’acidità che fornisce dinamica e supporta la beva. Chiude su tannini soffici e sapidi. Vino che dà l’impressione di essere in metamorfosi tra la fase giovanile più floreale e fruttata e la senilità dei profumi terziari. Panta rei.
Morus Nigra 2004: ecco che troviamo, a oltre 17 anni dalla vendemmia, un vino che appare all’apice (si badi bene, non in declino!). Peonia e cioccolato fondente, frutti rossi disidratati e cannella, persino una splendida brezza marina coccolano l’olfatto. Sorso di grande integrità, persino compatto, la progressione è verticale e profonda e di grande sapidità. La consapevolezza dell’età adulta.
Morus Nigra 2003: annata che tutti ricordiamo come particolarmente difficile a causa del calore eccessivo e delle modestissime escursioni termiche, il vino che ne risulta è ancora molto sul frutto, non così articolato, sullo sfondo fanno capolino i sentori speziati e floreali. La bocca però è piuttosto integra, dal tannino vigoroso e saporito. Il vino sembra ancora alla ricerca di un suo assetto e lontano dall’essere compiuto. Si avverte però ancora margine di evoluzione e potenziale. Ai posteri l’ardua sentenza.
Quante volte ce lo siamo sentiti domandare, da piccoli. E quante volte ce lo siamo chiesti, da adulti.
courtesy of Alessandro Anglisani
L’Oltrepò sembra ancora alle prese con questa domanda, nonostante una storia vitivinicola che si perde fino ai tempi dell’Impero Romano; un territorio esteso, immenso se paragonato ad altre zone vinicole italiane, dove è scontata la presenza di tanti vitigni e la produzione di vini diversi; dove tuttavia non dovrebbero mai esser dati per scontati qualità e rigore nelle scelte aziendali, in vigna, in cantina, sul mercato. Di rigore ha parlato Armando Castagno, giornalista, scrittore e grande comunicatore del vino, al secondo evento organizzato dall’associazione “Oltrepò, terra di pinot nero” a Milano, lo scorso giovedì 2 dicembre, confrontandosi con Filippo Bartolotta, altro importante rappresentante della critica enologica in Italia e nel mondo: “rigore a livello associativo, di viticoltura, di produzione, su disciplinare, di comunicazione, di sostenibilità economica … (un rigore) speso per conoscere e far conoscere i frutti di un territorio dalle potenzialità enormi”.
Al termine del dibattito, tanti gli assaggi di pinot nero nelle sue due declinazioni – spumantizzato e vinificato in rosso – dei 23 produttori presenti; ne abbiamo scelti due che ci continuano a stupire per classe e qualità: il metodo classico Farfalla Cave Privée 2013 di Ballabio e il Giorgio Odero 2017 di Frecciarossa.
E che il Pinot nero sia veramente la risposta alla domanda iniziale, ce lo suggeriscono vini come questi.
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Dopo quasi due anni dall’ultima volta, finalmente la scorsa settimana abbiamo partecipato al Benvenuto Brunello per assaggiare il Brunello di Montalcino 2017 e la Riserva 2016 che entreranno nel mercato a gennaio 2022.
A essere sinceri le aspettative erano piuttosto fatalistiche: dopo i vini opulenti e in alcuni casi “ben cotti” della 2015, cos’avremmo potuto trovare in un’annata ancora più calda e secca, la 2017?
Va beh, poco importa, tanta era la voglia di scoprire come i produttori avevano affrontato questa sfida, e poi a consolarci ci sarebbero state le Riserve 2016, un millesimo al quale finora abbiamo potuto attingere ben poco, non avendo partecipato all’edizione del Benvenuto di febbraio 2021.
La formula delle ultime due anteprime si è dimostrata decisamente intelligente: non solo ha risposto alle necessità di distanziamento in sicurezza del momento, ma secondo i produttori anche fuori da Montalcino, questa sarà la chiave di svolta per il futuro degli eventi del vino. Bisogna infatti dimenticare il metodo “sagra” che tutti noi, ahimè, conosciamo. Per partecipare bisognava prenotarsi un posto a sedere in una determinata fascia oraria, a disposizione c’erano cinque calici e la lista dei vini presenti, mentre un numeroso gruppo di sommelier portava alla tua postazione i vini che avevi scelto – devo fare i miei complimenti all’Ais per la loro velocità di servizio, disponibilità e gentilezza. Ci sono mancati molto i produttori in questa edizione, ma riteniamo che la cosa più importante sia stata trovare un modo per riconoscere la giusta dignità sia al vino che alla persona che lo ha creato.
Questo Benvenuto Brunello è stato formulato in maniera intelligente anche per la scelta del periodo. James Suckling, infatti, ha pubblicato la lista dei suoi Top 100 wines proprio nelle scorse settimane, tra i quali compaiono anche diversi Brunelli tra Riserve e selezioni 2016. Così, cavalcando l’onda della stampa, il Consorzio del Brunello non solo si è distaccato dalle altre anteprime di Toscana (normalmente svolte a febbraio), ma ha potuto dare sia agli altri giornalisti che agli operatori del settore il materiale necessario per definire già da ora le vendite del 2022.
Ma passiamo ai vini.
Non abbiamo volutamente letto le recensioni di professionisti affermati e più competenti di noi per vedere se la nostra opinione avrebbe rispecchiato il loro giudizio.
Come già anticipato, ci aspettavamo dai campioni di Brunello 2017 vini evoluti, o come ci piace dire scherzosamente, “da bere ieri”, seduti e verdi nel tannino. Per quanto riguarda le Riserve 2016 invece l’asticella era molto alta, dal momento che in Toscana e non solo questo millesimo è stato di gran lunga il migliore degli ultimi dieci anni.
Ebbene, come volevasi dimostrare le difficoltà dell’annata si sono fatte sentire, com’è giusto che sia, anche se alcune eccellenze hanno dimostrato una grandissima abilità nell’affrontarla al meglio senza stravolgerla.
In particolare, ho ritrovato buoni risultati tra i Brunelli 2017 del nord. Se il versante meridionale generalmente si distingue per la sua complessità, estroversione e profondità, quello settentrionale risulta generalmente più semplice nel corredo aromatico e nel volume in bocca, ad eccezione dello straordinario caso della collina di Montosoli. Tuttavia, nel versante nord negli ultimi anni si stanno ottenendo ottimi risultati esaltando l’eleganza e la sinuosità del sangiovese, e la 2017 ne è un esempio lampante, specialmente per coloro che non hanno voluto strafare, senza esagerare né nelle estrazioni né nell’uso del legno per ammorbidire l’impronta di quel tannino verde lasciato da annate estremamente calde.
Ora però viene la nota dolente, ovvero la delusione delle Riserve 2016: caramella mou, menta, eucalipto, rosmarino, vaniglia, armadio chiuso, con ogni probabilità abbiamo assaggiato cinquanta sfumature di legno. Tornando seri, ci chiediamo perché parlare di Riserva rimane ancora oggi sinonimo di eccesso di legno. E soprattutto, perché rovinare un’annata che ha fatto prima soffrire in vigna poi sognare durante la vendemmia? Capiamoci, dall’elenco dei nostri migliori assaggi noterete che abbiamo comunque preferito le 2016 alle 2017, tuttavia i risultati che ci aspettavamo erano ben diversi. Ad ogni modo, avendo assaggiato comodamente sessantacinque campioni, possiamo comunque affermare che le belle sorprese ci sono state.
Ecco i nostri migliori assaggi:
BRUNELLO DI MONTALCINO 2017
Poggio di Sotto Brunello di Montalcino 2017 – hanno esaltato la complessità che si ritrova a Castelnuovo dell’Abate, riuscendo a imbastire un vino slanciato nonostante l’annata. Ecco, ancora una volta i vini migliori sono ottimi sia da giovani sia dopo un lungo invecchiamento.
Mastrojanni Brunello di Montalcino Vigna Loreto 2017 – perché ogni anno dimostra una coerenza rassicurante nella sua entrata di bocca gentile per lasciare il passo ad un finale potente e incisivo (dobbiamo ammettere però che la sua espressione migliore è riservata ad altre annate)
Castello Tricerchi Brunello di Montalcino AD 441 2017 – anche se ci chiediamo quanto rappresenti l’annata un vino così scarico, rimane comunque tra i più slanciati ed eleganti in assaggio.
Il Colle del Fante Brunello di Montalcino 2017 – dell’azienda Ventolaio, naso etereo, si riconosce il tannino graffiante della 17, ottima acidità che lo rende vivace.
Le Chiuse Brunello di Montalcino 2017 – naso un po’ più estroverso del solito, ad ogni modo è un vino che merita ancora un po’di attesa per il suo tannino ancora graffiante.
BRUNELLO DI MONTALCINO RISERVA 2016
Albatreti Brunello di Montalcino Riserva 2016 – quando classe e naturalezza diventano sinonimi per raccontare il vino.
Canalicchio di Sopra Brunello di Montalcino Riserva 2016 – apprezziamo sempre la loro coerenza cupa e austera. Un grande classico.
Il Poggione Brunello di Montalcino Riserva 2016 Vigna Paganelli – a nostro parere ha tutto quello che serve per un Brunello, non manca nulla.
Agostina Pieri Brunello di Montalcino Riserva 2016 – sorpresa inaspettata, naso cupo e bocca sapida.
Cava d’Onice Brunello di Montalcino Riserva 2016 – sapido, floreale, etereo. Anche il Brunello 2017 è stata una piacevole sorpresa (“sorpresa” per modo di dire, perché si sa che le annate difficili sono l’asso nella manica di Simone Nannetti).
Fattoi Brunello di Montalcino Riserva 2016 – al naso si coglie un uso del legno poco timido, lo apprezziamo soprattutto per il suo sorso pieno e sapido.
ROSSO DI MONTALCINO 2020
Il Paradiso di Manfredi Rosso di Montalcino 2020 – questo è un mondo a parte, si distingue da qualsiasi altro vino ma vale la pena di essere nominato. Ci viene in mente una citazione di Nietzsche che ci proietta improvvisamente fuori da questo contesto, in un altro tempo e spazio: “E se tu riguarderai a fondo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”.
La passione per il vino ti porta anche ad eleggere luoghi del cuore, territori dove torni con regolarità e che in qualche modo senti che ti “appartengono”. Tra i miei luoghi del cuore, insieme a Dolceacqua, un posto speciale è riservato a Mamoiada.
A Mamoiada sono quattro anni che ci vado almeno per un paio di giorni a luglio, e anche quest’anno non ho fatto eccezione.
Quest’anno è stata come sempre una bellissima visita, un sentirsi a casa, un cogliere lo spirito di chi fa il vino di Mamoiada. A Mamoiada il vino è parte integrante della cultura e della comunità locale. È in forte crescita il desiderio di renderlo sempre più parte della vita del paese, integrando l’identità locale con quella del vino locale.
Quando torno a Mamoiada rivedo amici come Piergraziano Sanna, Marco Canneddu, Francesco Cadinu, Simone Sedilesu, i quali, aiutato dall’indispensabile Andrea Cosseddu, frequento dall’inizio. Con loro più che degustare, si chiacchiera, si discute e….si condivide! Sì perché io viaggio sempre armato di borsa frigo e bottiglie 😊
Quest’anno ho rivisto con piacere anche Giovanni Ladu, Giovanni Sedilesu, Francesco Cisco Mulargiu, Mario Golosio ed ho incontrato produttori che non conoscevo, come Giorgio Gaia, dell’azienda Vinzas Altas, e Pietro Fadda della cantina Mussennore.
Ho assaggiato qualche vino? Certamente!
Il Cannonau rosato è una tipologia abbastanza nuova, ed il vitigno si presta a differenti interpretazioni:
il Maria Pettena della Cantina Sannas è un vino di struttura, di fruttini rossi, di freschezza viva, complesso e intenso; lo Zibbo rosato della Cantina Canneddu è un vino di intensità di frutto, dolcezza e freschezza insieme, grande densità e spessore; il S’Ena Manna di Giovanni Ladu è un rosato decisamente asciutto, fresco, sapido, fruttato leggero e molto minerale; il rosato Mussennore è un vino di grande finezza, floreale, anche lui di bella sapidità e freschezza.
Tra i rossi tante prove di botte, qualcosa da bottiglia, qualità sempre alta. Non avendo preso appunti potrei sbagliare qualche annata, o anche dimenticare qualche assaggio, mi perdoneranno gli amici vignaioli.
Il cannonau di Mamoiada, pur nelle differenti interpretazioni, gode di alcune caratteristiche condivise, come i sentori di macchia mediterranea, mirto, elicriso, un’acidità che poco cede alle morbidezze e mineralità di terra salmastra. A Mamoiada stanno iniziando a puntare molto sulla vinificazione per cru, areale, vigna, chiamatela come volete, loro la chiamano Ghirada.
Cantina Sannas di Piergraziano Sanna fa un cannonau di gran carattere, il Bobotti, anche nelle versioni + e ++, selezioni di vigna e cantina. Ho bevuto il Bobotti 2017, vino dal cuore grande, sensazioni di polpa di frutta e di macchia mediterranea, ricco in bocca con sufficiente acidità e sapidità da lasciare la bocca freschissima.
Da Marco Canneddu di Cantina Canneddu ho assaggiato lo Zimò 2020, cannonau da vigne giovani vinificato in acciaio. Vino che nasce per essere immediato, non impegnativo, profumi dolci e speziati, bocca fresca, allegra, goduriosa. Un vino da beva spensierata. Lo Zibbo 2019, affinato in legno grande, è un cannonau austero, balsamico, con note radicose che si ritrovano in un sorso arricchito da tannini fini e acidità notevole.
Vigna Cantina Canneddu
La Cantina VikeVike di Simone Sedilesu è una tappa obbligata ogni anno, da lui ho assaggiato la granazza, il bianco autoctono di Mamoiada di cui Simone fa una versione tutta giocata su freschezza e leggerezza, note balsamiche e fruttate, sapido e dolce. Poi il cannonau Ghirada Fittiloghe 2019 vino elegante, frutta rossa e bacche sarde, una bella struttura al sorso, balsamico e fresco. La riserva 2017 di cannonau è un vino importante, di notevole impatto, profumi di spezie, di terra calda, di frutta matura. Una carica tannica notevole ed in evoluzione verso la rotondità. Chiusura balsamica e lunga. Da aspettare ancora un po’. Qualche assaggio da botte, ad esempio il Ghirada Garaunele 2020 che fa insieme con Andrea Cosseddu, poi il suo Ghirada Fittiloghe 2020, entrambi molto ricchi, di bella struttura, troppo presto perché si esprimano appieno.
Il S’Ena Manna 2019 di Giovanni Ladu è un vino netto, preciso, quasi affilato, ricco di sensazioni erbacee e terrose. Con un po’ di tempo in bottiglia evolverà in ampiezza e profondità. Giovanni mi ha fatto assaggiare una prova di botte di granazza, microproduzione di qualche decina di bottiglie, ma direi che non sia ancora pronta…
La cantina di Giorgio Gaia e di Piercarlo Sotgiu, suo socio, ha appena cambiato nome, ora si chiama Vinzas Artas. Da loro ho assaggiato il Nigheddu 2019, cannonau classico, di buona freschezza, frutti neri e spezia, di struttura agile ma con un ampio impatto in bocca, buona lunghezza, beva asciutta. Poi il Ghirada Sa Lahana 2019, vino di bella ricchezza, profumi intensi di erbe aromatiche, di frutti scuri, balsamici. Assaggiati da botte i 2020, Ghirada Garaunele e Ghirada Garaunele 1920 da vigne centenarie, vini di grande intensità, ancora da farsi, con il vecchie vigne (1920) bello espressivo e ampio, con le premesse per un vino di grande equilibrio. Assaggiata da botte anche una chicca del 2019, un cannonau d’altri tempi, con 16° ed ancora residuo zuccherino ma con un’intensità fruttata, balsamica, speziata veramente notevole. Non lo imbottiglieranno perché temono non sia stabile, ma il vino è buonissimo!
Ghirada Sa Lahana 2019 – Vinzas Artas
Il cannonau Mussennore 2019 è decisamente giovane, profumi verdi si alternano a frutti rossi e speziature lievi. Vino decisamente sapido però con tannini ancora un po’ acerbi. Ho appuntamento con Pietro Fadda per i prossimi anni per seguirne l’evoluzione, per me sarà molto positiva.
Cosa vuoi, non andare a mangiare un boccone da Taipu, il ristorante di Cisco Mulargiu? Approfittando anche per assaggiare da vasca il suo Ghirada Malarthana 2019, che quando andrà in bottiglia forse sarà composto, per adesso è intenso ma un po’ sconnesso, succoso, buona acidità, il vino c’è, deve solo comporsi e distendersi.
L’ultimo evento di questa due giorni è stata una specie di jam session da Andrea Cosseddu all’enoteca La Rossa, punto di riferimento del vino di Mamoiada. Stavamo facendo una tranquilla merenda a base di salame piemontese e pecorino sardo, con un paio di vini portati da me, ed un assaggio del cannonau che porta il suo nome e che produce in collaborazione con Simone Sedilesu. Pian piano la tavolata si è allargata, sono arrivati Francesco Cadinu dell’omonima cantina, Melchiorre Paddeu della cantina Merzeoro, Salvatore Mele della Cantina Antonio Mele, è apparso anche Francesco Sedilesu, il deus ex machina del vino mamoiadino. Assaggia qui, assaggia là abbiamo aperto altre bottiglie del 2019. Difficile ricordare tutto, ma si è confermata la qualità alta, con qualche vino troppo giovane, ancora da comporsi. I vini dovrebbero essere stati: Perdas Longas di Francesco Cadinu; Vinera di Antonio Mele; Mamuthone della cantina Giuseppe Sedilesu; Teularju Ghirada OcruArana, Merzeoro Ghirada Badu Orane.
Cannonau Su Hastru e su Orvu 2019 – Andrea Cosseddu
Torniamo all’inizio, io amo questo territorio quasi quanto amo il territorio del Dolceacqua, che è la mia terra d’origine, il Ponente Ligure. Vedo tante affinità, areale piccolo, produttori piuttosto uniti e solidali, identità forte, tanto forte da meritarsi una Denominazione d’Origine, cosa che è riuscita a Dolceacqua e che dovrebbe, secondo me, essere l’obiettivo principale di Mamoiada. L’identificazione di vino per cru, che a Dolceacqua si chiama Nomeranza ed a Mamoiada Ghirada, ha un valore enorme, ma ha un senso solamente nell’ambito di una DOC ben definita, limitata geograficamente. Nella DOC Cannonau di Sardegna non c’è alcun senso per i vini di Mamoiada, che sono eccellenti, ma che hanno bisogno di vedere riconosciuta la propria identità.
Quando una denominazione è giovane, per guadagnare notorietà può sperare di essere notata un giorno da qualche personaggio influente che la metta in luce. Se invece una denominazione possiede già una lunga storia alle spalle, potrebbe risultare scontato che questa goda dei riconoscimenti e del prestigio che si merita.
In realtà basta poco per essere messi in secondo piano, ad esempio scendendo a compromessi, lasciandosi sedurre dalle mode o piegandosi alle spietate leggi del mercato e del giornalismo. Se un vino ha goduto un passato glorioso, a maggior ragione la sua comunità di appartenenza deve impegnarsi da un lato a restare al passo coi tempi, dall’altro è necessario che rimanga fortemente fedele alla propria identità.
I produttori di Montepulciano lo sanno bene, specialmente quando ricordano con nostalgia la loro età dell’oro, ovvero i tempi in cui il Vino Nobile veniva acclamato da personaggi come Voltaire, Thomas Jefferson, William III d’Inghilterra o Francesco Redi.
Come ha fatto uno dei luoghi più vocati per il sangiovese ad aver perso quel lustro che nel Rinascimento era tanto invidiato? Le risposte sono tante, ma fino a questo momento le soluzioni non sono mai state abbastanza efficaci. Si può dire addirittura che l’ultima soluzione convincente sia stata presa nel 1980, quando venne creata la prima DOCG italiana e al Vino Nobile venne assegnata la primissima fascetta.
Tuttavia oggi a Montepulciano soffia un vento nuovo, di cambiamento. Dopo un anno di lavoro da parte dei produttori assieme al loro Consorzio, finalmente oggi si parla di un nuovo vino, che porterà la menzione “Pieve” in etichetta e che sarà disponibile per i consumatori probabilmente a partire da gennaio 2024 con l’annata 2020.
Si tratta di una novità importantissima perché per la prima volta una denominazione toscana viene suddivisa in Pievi, ovvero 12 aree geografiche definite Unità Geografiche Aggiuntive, che fanno riferimento alle ripartizioni già presenti nel Catasto Leopoldino del 1800.
È stata infatti necessaria una profonda analisi introspettiva per giungere alla definizione dei parametri storici, culturali, ma anche pedoclimatici e paesaggistici per delimitare e caratterizzare i seguenti toponimi, già citati in epoca tardo romana e longobarda: Cervognano, Cerliana, Caggiole, San Biagio, Sant’Albino, Valiano, Ascianello, Le Grazie, Gracciano, Badia, Argiano, Valardegna.
Facsimile menzione Pieve in etichetta
In occasione dell’ultima edizione dell’Anteprima del Vino Nobile è stata convocata la conferenza che ha presentato il progetto, durante la quale è stato specificato che questa suddivisione non è una “zonazione”, non ha infatti lo scopo di elevare terreni e vigne qualitativamente migliori rispetto ad altri, al contrario l’obiettivo è quello di sottolineare la bellezza e le peculiarità di ogni Pieve, per portare ad una riscoperta e a una condivisione dell’identità del vino di Montepulciano.
La vera forza del progetto sta dunque nel suo spirito fortemente inclusivo, e altrettanto importante è l’esplicita volontà di puntare alla qualità assoluta: per ottenere un vino che abbia in etichetta la menzione “Pieve”, i vignaioli devono ricorrere solo a vitigni autoctoni, finalmente, con un quantitativo minimo di sangiovese dell’85%, contro il 70% del Vino Nobile attualmente in commercio. Inoltre le uve devono essere prodotte dall’azienda imbottigliatrice e provenire da vigne di almeno quindici anni di età. Per quanto riguarda le fasi di maturazione del vino, è previsto un affinamento di almeno 36 mesi, di cui minimo 12 mesi di legno e almeno altri 12 di bottiglia.
Infine, elemento da non sottovalutare, i vini saranno sottoposti a verifica ben due volte, prima da una commissione interna al Consorzio, poi da una commissione di controllo.
Dal momento che ormai mi sento di far parte di questo territorio, è per me inevitabile dare importanza al progetto ed elaborare le mie considerazioni a riguardo. Non credo che questo passo stravolgerà la situazione presente, ma ritengo che ogni segnale di svolta possa essere decisivo per il futuro di Montepulciano. Non si tratta di uno stratagemma per far parlare i giornalisti, come qualcuno sostiene, ma di una possibile soluzione che permetta ad un territorio di comunicare in maniera migliore la sua identità, che esiste da sempre, ma che aveva bisogno di essere riscoperta e rinnovata. Se questo piano avrà successo, non sarà più necessario sgomitare con le altre denominazioni limitrofe e più grandi, oppure appellarsi a Voltaire, al Redi, o a Thomas Jefferson per convincere gli appassionati che a Montepulciano si produce un grande vino. O meglio, potremo anche citarli, ma giusto per completare qualcosa che è già stato comunicato attraverso l’elemento più importante di tutti, quello che non mente mai: il nostro vino.
Il successo dei vini delle Langhe, trainato da Barolo e Barbaresco, richiede all’appassionato di vino che voglia visitarne il territorio alcune accortezze. In questo post abbiamo pensato – freschi della nostra ultima ricognizione a Barolo e dintorni – di dare qualche suggerimento e suggestione utili ad organizzare al meglio la propria visita. Nessuna ambizione di esaustività, solo delle istantanee dalle Langhe che, come da nostra missione, vogliamo condividere.
Comm. G.B. Burlotto
Pianificazione delle visite
Lo sappiamo, è sempre una buona abitudine pianificare per tempo le visite. Nelle Langhe, visto il costante flusso di enoturisti, è ormai una necessità; se poi consideriamo che il Covid ha portato alcune aziende a sospendere temporaneamente l’accesso in cantina… diventa evidente che è bene organizzare il proprio percorso con buon anticipo.
Acquisti
Acquistare direttamente dal produttore non è solo conveniente ma spesso consente di “ancorare” il ricordo della visita al momento in cui stapperemo la bottiglia. Nelle Langhe però, così come nei più importanti territori vinicoli del mondo, è ormai difficile acquistare direttamente. Ha preso orami piede il cosiddetto fenomeno delle assegnazioni che riguarda anche l’acquisto da parte dei privati. Di cosa si tratta? Per gestire l’enorme richiesta di vino cercando di accontentare più appassionati possibile, le aziende pre-assegnano del vino – con limiti di quantità – alla propria clientela. In tal modo ogni anno le aziende vendono tutto il vino dell’annata prima ancora che le bottiglie siano in commercio. Se i vantaggi commerciali sono evidenti, per gli appassionati fuori da assegnazione non resta che mettersi in lista di attesa, sperando che gli anni successivi qualche cliente non confermi gli acquisti e liberi il posto a chi è in coda.
Il fenomeno non è certo nuovo ma fino a pochi anni fa era limitato alle aziende più prestigiose. Ora si sta allargando anche ad aziende meno note ma che sono salite alla ribalta per la qualità dei propri vini.
Mangiare
Una sosta con le gambe sotto il tavolo per gustare la cucina piemontese è sempre gradita. Le nostre soluzioni preferite sono quelle che coniugano qualità della cucina, carta vini dai giusti ricarichi e rapidità di servizio (che dopo il pranzo altre visite ci attendono!). Un luogo che risponde perfettamente a queste caratteristiche è il ristorante Repubblica di Pernoche ci ha accolto con l’immancabile assaggio di insalata russa e ci ha poi coccolato con il golosissimo uovo in camicia alle spugnole e la rolata e frise di agnello con piselli. A chiudere un assaggio di formaggi. Dalla carta dei vini la scelta è caduta sul Langhe Nebbiolo 2019 di Philine Isabelle, che conferma tutto quello che di buono avevamo sentito dire sul suo conto. Olfatto di grande dolcezza tra note di anguria e melograno il tutto avvolto da un alito quasi marino, la bocca al contrario è fitta, dal tannino denso e saporito che si scioglie però nel sorso per nulla difficile. La bottiglia finisce rapidamente ma la facilità di beva non tragga in inganno, non si tratta di un “nebbiolino”.
Un altro posto che ci sentiamo di consigliare è l’Osteria Casa Ciabotto, a Verduno. Menu semplice ma gustoso e ampia scelta di vini con particolare focus sui produttori di Verduno. Vi è anche la possibilità, a prezzi contenuti, di un’orizzontale di Verduno Doc (vitigno pelaverga), perché non di solo nebbiolo vivono le Langhe (vedi prossimo paragrafo).
Abbiamo bevuto un bicchiere di un Barolo fuori dai nomi più noti e che ci è parso molto centrato. Si tratta del Barolo Bricco San Biagio 2013 – San Biagio (Giovanni Roggero). Un Barolo di La Morra senza eccessi modernisti: naso di grande frutto (lampone e fragola), fiori rossi carnosi, mineralità scura, un tocco di spezie. La bocca è gustosa, se vogliamo un po’ rapida nello sviluppo, con tannini ben distesi e dalla chiusura tersa ed elegante.
Non solo Barolo e Barbaresco
Lo dicevamo poco fa, non di solo nebbiolo vivono le Langhe. Il vitigno pelaverga in particolare ci sembra che possa meritare grande attenzione. Nelle migliori versioni dà infatti vita a vini golosi e dall’intrigante dettaglio aromatico, digesti e di facile abbinamento a tavola.
Un esempio tra tutti è il Verduno Basadone 2019 di Castello di Verduno, già solo il colore rubino chiarissimo e lucente mette di buon umore, l’olfatto è tutto giocato su spezie (pepe, noce moscata), frutta e fiori rossi che si rincorrono, il sorso è agile e sapido, fresco ed elegante con una piacevole nota amaricante in chiusura ed una persistenza delicata e pulita.